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tipologia: Analitici; Id: 1472385


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Tipologia Periodico
Titolo (Nove domande sullo stalinismo) Giuseppe Chiarante
Responsabilità
Chiarante, Giuseppe+++
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
GIUSEPPE CHIARANTE
Fino ad oggi tre diverse tesi sul periodo staliniano hanno diviso la storiografia occidentale.
La prima — di cui un esempio significativo e quasi divertente ci é fornito dal libro di Wolfe .<c I tre artefici della rivoluzione d'ottobre » — viene comunemente sostenuta dai pubblicisti più ostili all'esperienza politica sovietica. Essa consiste nel giudicare lo stalinismo come una degenerazione dittatoriale della rivoluzione socialista, una forma asiatica di governo bonapartista, una organizzazione personale del potere per molti aspetti analoga a quella hitleriana.
La seconda, più seria e meditata — e di cui Isaac Deutcher é forse il più noto e qualificato esponente — raccoglie invece le correnti di sinistra della socialdemocrazia e del radicalismo. L'epoca di Stalin viene da tali correnti considerata come una dolorosa, se pur forse inevitabile, fase di arresto e di deviazione rispetto alla linea e alla ideologia leninista: arresto e deviazione imposti dalle necessità di un paese arretrato, avente alle sue spalle secolari tradizioni storiche di tipo autocratico. Una simile tesi, ovviamente, conduce ad un atteggiamento di attesa: l'attesa che la fine dei pressanti condizionamenti storici permetta all'Unione Sovietica e al proletariato mondiale di riprendere costruttivamente il proprio discorso là dove esso si era interrotto, e cioè all'irrisolta opposizione fra la Seconda Internazionale e il leninismo.
La terza tesi, infine, che é stata sino agli ultimi tempi soste-
nuta dai partiti e dagli uomini di cultura comunisti — giudica lo stalinismo nulla di più che un fedele sviluppo e una laboriosa continuazione della rivoluzione d'Ottobre, minacciata in tutto il trentennio staliniano dalla pressione internazionale della borghesia e dalle deviazioni di destra e di sinistra.
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Il XX congresso del PCUS ha, a dire il vero, del tutto sconvolto questo schieramento. Se da un lato infatti, denunciando gli aspetti più autoritari del sistema di governo staliniano, esso ha posto in luce la debolezza di ogni posizione rigidamente conformista e dogmatica; d'altro lato, per il fatto di porsi come continuatore ed erede dell'opera staliniana, ha pure indicato l'insufficienza delle posizioni acriticamente e indiscriminatamente polemiche. In tal modo oggi, liberatasi la ricerca dalle pressioni dei 'più immediati interessi di parte, sembra aprirsi la via per un reale approfondimento storiografico intorno a quel periodo.
Questo ripensamento, però, non accenna ancora ad avvenire: anzi per molti aspetti la pubblicistica politica e culturale sulla questione sembra, dopo il XX congresso, avere più regredito che avanzato.
Innanzitutto, infatti, appare oggi molto forte la tentazione dei giudizi moralistici, rivolti a soppesare con illuministica pedanteria e sovente con malcelato livore l'opera del grande rivoluzionario scomparso. Su questa linea anche i nuovi dati venuti finalmente alla luce, anziché essere criticamente vagliati e organizzati perché ne risulti illuminato il quadro d'assieme, finiscono col fornire solo l'occasione per sbrigativi atti d'accusa o per querimoniose denunce. Tutto questo, comunque, può ben essere giudicato fenomeno transitorio, naturale e temporaneo contraccolpo di una polemica che durava da anni.
Ma su questa base si va pure facendo luce, e sembra prevalere, una ben più pericolosa tendenza, tutta ,ossuta di empirismo e di « buon senso », indifferente all'unità del //i~segno interpretativo, fondata su di una serie di approssimative e Assurde « distinzioni ». Viene così talora proposta una « distinzione » fra i fondamenti della politica staliniana e i suoi strumenti di realizzazione, quasi che questi nascessero dalle intemperanze personali del loro ispiratore; viene azzardata una « distinzione » fra il periodo della lotta contro le deviazioni e quello dei processi, quasi che questi non abbiano rappresentato il necessario se pur doloroso proseguimento di quella; viene addirittura affermata una distinzione fra Stalin e il regime, quasi che per mera coincidenza egli ne sia rimasto il leader per un tren-
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tenno guidandone la costruzione e il consolidamento. Su questa via, ovviamente, si giunge ben presto all'assurdo scientifico di considerare l'ultimo ventennio di politica sovietica una parentesi priva di significanza storica, se non per il fatto di aver in via pratica consolidato lo stato socialista e di averne salvaguardato l'esistenza; e si finisce col vagheggiare una sorta di scolastico e astratto « ritorno al leninismo ». Diviene quasi naturale, se questa fosse la strada sulla quale si procederà, rimpiangere gli inesatti ma coraggiosamente coerenti giudizi del passato.
Permetta quindi — caro Carocci -- che, temendo le secche del « buon .senso » e dei « distinguo », eviti di rispondere singolarmente alle numerose e interessanti questioni che lei pone; e cerchi invece, per comodità di metodo, di ridurle (riferendomi soprattutto a quelle indicate al terzo, al quarto, al quinto e al sesto punto), a questi tre essenziali quesiti, così da tentare un giudizio d'assieme sullo stalinismo:
1) Lo stalinismo, nel suo complesso, rappresenta un momento essenziale e necessario della rivoluzione socialista in Unione Sovietica ?
2) La rivoluzione sovietica e lo stalinismo in particolare rappresentano una esperienza politica collegata in modo esclusivo alle condizioni di arretratezza della società russa ovvero costituiscono un decisivo passo avanti teorico e pratico per lo sviluppo 'del sistema mondiale?
3) Quale significato ha e quali problemi investe l'attuale tentativo di superamento degli schemi staliniani ?
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L ormai generale, fra gli uomini di cultura di ogni parte politica, l'accordo nell'individuare le caratteristiche distintive dell'opera di Stalin: da un lato la tesi della possibilità di una compiuta edificazione del socialismo in un solo paese; dall'altro la forma particolarmente rigida di direzione politica. Lo stalinismo, quindi, può essere considerato nel suo complesso un momento necessario della rivolu-
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zione sovietica solo nella misura in cui si riesca a dimostrare: 1) che la tesi sull'edificazione socialista in un solo paese era una verità scientificamente accertabile; 2) che da essa derivava, in via di stretta necessità, un grave irrigidimento nel sistema di gestione del potere.
Il primo punto di questa dimostrazione non parrebbe, in sé, molto arduo e complesso. Gran parte degli stessi avversari di Stalin, infatti, pressati dall'eloquenza dei successi sovietici, non possono ormai evitare un riconoscimento dell'esattezza della posizione staliniana sull'edificazione del socialismo in un solo paese. Ma, anche a voler trascurare l'obiezione classica dei trotskisti (i quali insistono nel sostenere che la rivoluzione non si è trasmessa all'Occidente perché con troppa tepidezza e troppi errori si è perseguito tale obiettivo), rimane di fatto che se non si approfondisce l'analisi sulla natura e sulle implicazioni di questa tesi di Stalin, non si può neppure cogliere il significato complessivo della sua politica e tanto meno storicamente comprendere gli aspetti più coercitivi e autoritari della sua gestione del potere.
Tutti coloro infatti — fra i critici del grande rivoluzionario, socialdemocratici o radicali di sinistra che fossero — che pur hanno ammesso l'esattezza del principio dell'edificazione del socialismo in un solo Stato, hanno però sempre considerato tale linea una semplice scelta politica suggerita dalle circost ‘ize, che, come tale, non mutava i termini sostanziali dei proble• _1 rivoluzionari. Diveniva.
allora logico che, nella misura in cui stalinismo si allontanava
dagli schemi di direzione politica consueti al marxismo-leninismo, se ne denunciasse la degenerazione, la involuzione illiberale.
Ma, a mio avviso, così non é. La tesi staliniana sull'edificazione del socialismo rappresenta — almeno a me pare — l'accertamento scientifico di una situazione storica per molti aspetti non prevista da Marx o da Lenin, e che era tale, per le sue concrete condizioni,. da comportare una forma molto rigida di gestione del potere.
Certo questa « novità » della posizione staliniana viene faticosamente in luce, oscurata come é dagli sforzi di Stalin stesso e di
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tutta la cultura sovietica, che ha teso per lunghi anni a negare ogni soluzione di continuità, sia pure formale, fra la linea e la dottrina di Lenin e quelle del suo continuatore. Ma ove si sbarazzino gli scritti dello statista georgiano dalle necessità tattiche e formali che la dura lotta contro le deviazioni ha loro imposto, non é difficile cogliervi la grande innovazione che egli ha portato all'interno della dottrina marxista-leninista.
E a tutti nota (e Stalin stesso fu sempre costretto a riconoscerlo) la posizione marxiana sul carattere internazionale della rivoluzione.
«Ecco la questione difficile per noi: sul continente la rivoluzione è imminente e prenderà anche subito un carattere socialista. Non sarà necessariamente battuta, in questo piccolo angolo di mon- do, dato che il movimento della società borghese è ancora ascendente su un'area molto maggiore? » (1). Questa posizione, del resto, fu ripresa infinite volte ed anche accentuata da Engels.
Cosa mai è poi sopravvenuto a confutarla ? Lo stesso Stalin ce lo chiarisce con precisione: « Zinoviev dimentica che la citazione di Marx si riferisce al periodo del capitalismo monopolistico quando il capitalismo nel suo insieme si sviluppava secondo una linea ascendente... Altra cosa è il capitalismo imperialistico, quando il mondo è già stato spartito tra i gruppi capitalistici, quando lo sviluppo a sbalzi del capitalismo esige nuove ripartizioni del mondo già spartito, mediante conflitti militari, quando i conflitti e le guerre tra i gruppi imperialistici che sorgono su questo terreno indeboliscouo il fronte mondiale del capitalismo, lo rendono facilmente vulnerabile e creano la possibilità di aprire una breccia in singoli paesi » (2).
In altri termini, la dottrina leninista sul passaggio del capitalismo alla sua « fase suprema », mentre costituiva la teoria sulla quale si fondava la rivoluzione socialista in un paese arretrato (in quanto punto più debole del fronte imperialistico mondiale), era altresì sufficiente a superare il preconcetto della « simultaneità mondiale » della rivoluzione.
(1) Marx-Engels, Carteggio, vol. III, pag. 241.
(2) Stalin, Opere, rol. IX, pag. 107-108.
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Pur tuttavia, ed è qui l'elemento decisivo, che significato veniva ad assure la tesi sulla rivoluzione socialista in un solo paese, oltretutto arretrato, all'interno del sistema concettuale leninista?
Essa rappresentava, è facile convenirne, il superamento di una concezione ancora per molti versi astratta e mitica del processo rivoluzionario; ne precisava cioè scientificamente il punto d'avvio e le forme iniziali. Lenin per) non andò oltre questi termini; e del resto la situazione stessa cui si trovava di fronte non gli proponeva certo altri problemi né gli forniva i mezzi per risolverli. Per lui quindi la rivoluzione sovietica rimaneva pur sempre il punto di inizio di un processo sostanzialmente continuo che avrebbe dovuto, necessariamente e a breve scadenza, investire l'Occidente capitalistico e trovarvi il suo reale epicentro. Anche nel brano famoso dello scritto «Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa », più volte utilizzato da Stalin, non è difficile avvertire questa ambivalenza nella sua posizione: «L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile la vittoria del socialismo, all'inizio, in alcuni paesi capitalistici o anche sn un solo paese capitalistico preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, spingendole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati » (3).
Questa ambivalenza della sua posizione I .gin la risolveva, in verità, attraverso la sua ferma convinzione che il processo rivo-zionario in Occidente non poteva tardare: «...dieci-venti anni di giusti rapporti con i contadini per assicurare la vittoria su scala mondiale; altrimenti da venti a quaranta anni di sofferenze sotto il terrore delle guardie bianche » (4). A suo avviso,. quindi, il problema della « edificazione integrale in un solo paese » rimaneva
(3) Lenin, Opere, vol. XXXI pag. 311.
(4) Lenin. Opere, vol. XXXII pag. 302-303.
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questione accademica e astratta. In tal modo le frasi degli ultimi suoi scritti (ad es. Sulla Cooperazione) rappresentano forse assai più la risposta alle incertezze immediate della politica sovietica che l'inizio di una seria revisione o tanto meno la già avvenuta elaborazione di una nuova posizione di principio.
***
Rispetto a tutfe queste posizioni profonda appare invece l'innovazione staliniana: così sul piano politico come su quello teorico e metodologico.
Stalin fondò infatti la sua politica — mi pare sia legittimo affermarlo — su di un giudizio del tutto nuovo e arrovesciato rispetto alla situazione dei sistemi sociali dell'occidente capitalistico. In quei paesi — egli sostenne — non era dato ancora ravvisare (allora e probabilmente per lungo tempo) le condizioni necessarie ad una rivoluzione socialista. In tal modo l'URSS non era più semplicemente il punto di avvio di un processo che subito avrebbe trovato al di fuori delle sue frontiere il proprio principale sostegno, ma rappresentava un'esperienza rivoluzionaria autonoma, il naturale punto di applicazione delle forze proletarie al livello da esse raggiunto nel 1917, il sicuro fondamento di ogni nuovo, futuro tentativo. Diveniva perciò necessario disporsi a costituire fino in fondo il socialismo poggiando sulle sole energie locali, senza cioè poter « giovare dell'aiuto economico del proletariato occidentale al potere » (Trotski) e sotto la pressione di uno schieramento imperialistico ricostituito nella sua unità e nella sua forza.
Da quel momento la tesi marxiana secondo la quale la rivolu-' zione rappresentava il punto conclusivo del naturale sviluppo capitalistico e doveva quindi combattere la sua prima e decisiva battaglia entro l'ambito dei paesi economicamente progrediti veniva definitivamente superata. E, su questa base, è facile comprendere come l'innovazione staliniana, al di là del suo contenuto specifico, rappresentasse anche un importante e difficile passo in avanti del movimento operaio nel senso di liberare la sua dottrina così dalle eredità metafisicheggianti della sua origine hegeliana come dalle interpolazioni meccanicistiche che, in quando ideologia di una
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classe subalterna, essa non aveva potuto in un primo periodo non subire.
Cosa distingue infatti la posizione di Stalin da quella, ad esempio, di un Trotzki se non proprio la primaria importanza che il primo attribuisce agli elementi forniti dall'indagine obiettiva e scientifica, in contraposto al procedimento ideologistico e astratto, letterale e scolastico del secondo ? Non é questa, metodologicamente, una nuova e ancor più decisiva battaglia (anche se simile a quella condotta da Lenin sul problema della pace di Brest-Litowsk contro l'astrattismo dottrinario di un Bukarin) per ridurre realmente il marxismo alla sua esatta funzione di c scienza dello sviluppo della società » ?
Analoga considerazione può riferirsi al problema del superamento del determinismo. Edificare il socialismo in un solo paese, in condizioni economiche arretrate, trascinando enormi masse non proletarie, sotto la pressione dei tentativi controrivoluzionari della borghesia internazionale: é questo un disegno che, quanti altri mai, sottolinea le capacità dell'uomo, della classe, del partito, nel mutare il mondo circostante, nel superare gli ostacoli creati dalla storia e dalla natura.
Quella frase di Lenin, che fu più volte utilizzata da Zinoviev, e Ho già avuto occasione di dire: per i russi, in confronto ai paesi avanzati, é stato più facile iniziare la grande rivoluzione proletaria; ma sarà per essi più difficile continuarla e condurla sino alla vittoria definitiva, nel senso della completa organizzazione della società .socialista» (5), anzi che divenire occasione per il disfattismo e la rinuncia, diveniva così, per Stalin, un drammatico incitamento alla lotta e al sacrificio rivolto ai proletari e ai contadini sovietici.
***
Posizione profondamente rinnovata, quindi, quella staliniana.
Ma era anche l'unica posizione esatta ?
Dimostrarlo sulla base dei testi di Stalin sarebbe forse un'im-
(5) Lenin, Opere, vol. XXIX pag. 284.
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presa complessa e difficile. Il fatto é che la scelta staliniana fu, in primo luogo e sovrattutto, scelta di un politico, intuizione di un uomo di Stato. Non sempre e non del tutto, perciò, il suo stesso autore riuscì a difenderla con chiarezza e persuasività di argomenti teorici.
Altro però diviene il discorso potendo usare, come noi possiamo, gli strumenti dei posteri: avendo cioè a disposizione la conoscenza dell'ulteriore sviluppo storico e i più elaborati strumenti concettuali che la situazione attuale obiettivamente ci offre.
Tutta la storia più recente sta infatti a dimostrare — mi sembra — che nei paesi capitalistici non sono esistite per quasi tutta l'epoca staliniana (fino cioè, più o meno, alla guerra antifascista e alla rivoluzione cinese) quelle condizioni obiettive necessarie alla rivoluzione, che già Lenin aveva con precisione indicato. Vediamo, brevemente, di verificarlo.
In primo luogo dopo la prima guerra mondiale, non si ripeté più una generale crisi politica del sistema borghese (e tale non fu certo neppure la crisi del '29, che ebbe caratteri essenzialmente economici e non giunse a scuotere le basi politiche dell'assetto statuale) di fronte alla quale il movimento proletario potesse assumere, come nella guerra '14-18, una posizione di mera contrapposizione dialettica.
La nuova grande crisi bellica (che 'del resto sopravvenne solo dopo un ventennio di relativa « stabilizzazione ») doveva assumere caratteristiche del tutto nuove: lo sviluppo storico delle contraddizioni capitalistiche aveva ormai assunto un carattere catastrofico, così da minacciare e coinvolgere nel proprio meccanismo i destini della civiltà nel suo complesso e quindi dello stesso movimento proletario. Diveniva in tale situazione necessario alle forze rivoluzionarie inserirsi attivamente nella crisi mondiale, per correggerne la logica; e questo difficilmente sarebbe stato possibile, se non disponendo dello strumento di urì ormai compiuto e consolidato sistema statuale.
In secondo luogo il fascismo fece chiaramente intendere che una semplice alleanza operai-contadini contrapposta in modo rigido

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ad ogni altro gruppo sociale non è sufficiente ad esprimere e organizzare la « grande maggioranza della popolazione » nei paesi occidentali; e ciò per l'esistenza in tali paesi di grandi masse di medio ceto facilmente egemonizzabili dalla borghesia di fronte alla prospettiva di una rivoluzione meramente proletaria-contadina. E d'altra parte tutti i tentativi per risolvere questo problema avrebbero condotto, prima delle condizioni nuove create dall'ultimo conflitto, a cedimenti e deviazioni opportunistiche: la borghesia ancora forte, unita ed egemone, poteva facilmente corrompere e ricattare i medi ceti.
Infine l'esperienza dei fronti popolari e dei governi tripartiti ha dimostrato che, anche quando eccezionali congiunture hanno permesso al proletariato occidentale di rompere il suo isolamento e di inserirsi in larghe alleanze democratiche, esso ancora non aveva raggiunto un sufficiente livello teorico, non aveva precisato pienamente una prospettiva rivoluzionaria adeguata alle condizioni storiche in cui si trovava ad operare. Ogni qualvolta infatti si trattò di assumere in positivo la direzione politica e sociale dei paesi dell'Occidente, i partiti comunisti, non potendo disporre di uno schema sta-tuale altrettanto adeguato ai sistemi sociali di tali paesi quanto lo era stato quello sovietico per la Russia, finirono col pregiudicare la loro intesa coi ceti medi e talvolta col compromettere l'alleanza stessa tra operai e contadini. Ogni aspetto, insomma, dello sviluppo storico ulteriore non può che confermare l'esattezza del giudizio staliniano.
Ma c'è di piú: non solo le condizioni rivoluzionarie obiettivamente mancavano in Occidente; ma esse anche in linea di principio non potevano esistere, e quindi era assurdo sollecitarne con impazienza lo sviluppo. Non solo la tesi staliniana era la più prudente e realistica ma anche l'unica scientificamente esatta.
Noi oggi possiamo infatti verificare come, sulla base dello sviluppo storico obiettivo e di una matura coscienza teorica del movimento operaio, venga correttamente a porsi ii problema della rivoluzione nei paesi capitalistici avanzati. Già Stalin, nel suo ultimo scritto aveva notato: «Questa forza [la forza rivoluzionaria] si è

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trovata nel nostro paese sotto la forma di una alleanza della classe operaia e dei contadini. Questa forza non la si è ancora trovata per gli altri paesi, per i paesi capitalistici». (6). Il XX congresso del PCUS ha poi precisato su quale linea questa ricerca debba essere condotta: sulla linea di un progressivo allargamento delle forme del potere operaio così da permettere un più compiuto rispetto delle conquiste teoriche e istituzionali del liberalismo.
Simili affermazioni nel passato avrebbero dato immediatamente l'avvio a degenerazioni opportunistiche. Come possono rappresentare oggi la via corretta per lo sviluppo politico del proletariato occidentale ? Evidentemente per una decisiva novità intervenuta nella situazione storica: la rottura dell'egemonia mondiale capitalistica, la frattura ormai avviata fra tradizione liberale e dominio borghese di classe, il consolidamento di un sistema socialista.
La formula staliniana viene in questa luce ad assumere, da un punto di vista teorico, un valore ancora più profondo di quanto forse mai il suo stesso autore avrebbe potuto pensare e ammettere. Essa infatti pare fornire il primo accenno storico di un concetto del tutto nuovo per l'ideologia marxista: la rivoluzione occidentale, proprio nella misura in cui esigeva forme istituzionali e alleanze di potere più vaste e comprensive che non quelle sovietiche, proprio perché non poteva fondarsi su una mera contrapposizione dialettica alla cultura liberale, postulava il pieno compimento di una fase storica precedente nel corso della quale il proletariato, giunto in alcuni paesi arretrati a piena maturazione statuale, era chiamato a sollecitare la rottura dell'egemonia liberal-borghese e insieme a correggere la logica catastrofica del processo capitalistico.
Da quanto sono venuto fin qui esponendo penso si possa, ragionevolmente, dedurre una spiegazione e una giustificazione storica delle stesse forme di direzione politica staliniana.
Quali erano, infatti, sul piano dei concreti problemi di politica
(6) Stalin, I problemi economici del socialismo in URSS, pag. 9.
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interna le dirette, gravissime conseguenze che derivano dalla necessità di edificare, con le sole forze sovietiche, una integrale società socialista ? Analizziamole cercando di seguire a grandi linee lo sviluppo cronologico della politica di Stalin.
In primo luogo la rinuncia alla rivoluzione mondiale comportava necessariamente una fiera lotta all'interno del partito bolscevico. Non dobbiamo infatti dimenticare, da un lato, quanto quella tesi suonasse nuova alla sensibilità ideologica dei quadri leninisti e, dall'altro, come il partito bolscevico si fosse sviluppato, avesse formato i propri dirigenti in Occidente, relativamente lontano dalla politica concreta e dalle grandi masse della popolazione. Certo tutte queste naturali resistenze avrebbero in via del tutto astratta potuto essere vinte attraverso una lotta ideologica corretta, senza ricorrere agli strumenti meno democratici della burocratizzazione del partito. Ma era questa una reale carta a disposizione di Stalin ? Realisticamente bisogna convenire di no. In primo luogo, lo abbiamo già detto, l'elaborazione della sua tesi avvenne soprattutto attraverso concrete intuizioni politiche, assai difficili da imporre con persuasivi ed organici argomenti teorici; in secondo luogo, fatto ancor più decisivo, per elaborare teoricamente, e non solo sul piano della mera scelta politica, la tesi della edificazione socialista in un solo paese sarebbero stati necessari degli sviluppi ideologici e filosofici (ad esempio un ripensamento sulla dialettica marxista) che nel 1925 non erano certo storicamente maturi. In sostanza per battere il blocco di opposizione Stalin non aveva altro mezzo se non quello di integrare la sua battaglia teorica attraverso l'impiego degli strumenti di pressione organizzativa che la sua carica di segretario generale gli offriva. Recriminare su quella prassi significa di fatto, anche se quest'affermazione può parere brutale, rimpiangere la sconfitta di Trotzki.
In secondo luogo, la costruzione di un'economia socialista in un solo paese, per di più arretrato, comportava sacrifici, errori, battaglie durissime. Era necessario mantenere un livello di consumi necessariamente molto basso, contenere la pressione dei «nepmans» e dei kulaki, battere le tendenze individualistiche dei contadini,
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organizzare attraverso successive approssimazioni un nuovo tipo di produzione senza che la corruzione, il burocraticismo, la pigrizia avessero il sopravvento. È evidente come in tale situazione potessero facilmente mettersi in movimento fortissimi spinte disgregatrici: ed è in questo clima di estrema tensione che si spiegano, nel corso del primo piano quinquennale, le prime epurazioni nel partito e la lotta violenta per la liquidazione dei kulaki. E, in effetti, fossero o meno complici nella congiura Zinoviev e Kamenev, è o non è vero che proprio sulla base della loro opposizione si era venuta organizzando quella revitalizzazione. di spinte anarchiche e sovversive che condusse all'assasinio di Kirov ? E quali che fossero le intenzioni di Bukarin, la ripresa dell'economicismo e del gradualismo da lui compiuta non rappresentava nel partito la carta migliore per le resistenze sociali del capitalismo morente e per i tentativi controrivoluzionari ? Era o non era quello, in definitiva, un momento di « estremo pericolo per la repubblica » analogo a quello che condusse in Francia al terrore ?
In terzo luogo, perdere la speranza di una rivoluzione in Occidente significava prepararsi a subire un lungo periodo di accerchiamento capitalistico, ed anzi, prima o poi, una sicura aggressione bellica. Ciò evidentemente spingeva ad accelerare, con ogni mezzo, la costruzione e il consolidamento del sistema economico e politico, e quindi a battere l'opposizione di destra e di sinistra, ormai di fatto concorde nel frenare l'opera di edificazione. Ma c'è di piú: non si può infatti dimenticare l'affermazione, più volte fatta da Trotzki, della famosa « tesi Clemenceau », secondo la quale l'opposizione avrebbe atteso la guerra per rovesciare la macchina staliniana di potere. È pensabile che l'Unione Sovietica potesse avviarsi a subire l'aggressione capitalista minacciata al suo interno dalle forze dell'opposizione politica obiettivamente sovversiva ? Chi ha l'animo di sostenere che lo Stato sovietico avrebbe retto alle prime disfatte belliche, se non fosse stata con le tristi vicende dell'epurazione del '36 e del '38 del tutto eliminata l'opposizione interna ?
Troppi. dimenticano — a me pare — che senza il realismo e il coraggio con cui Stalin seppe affrontare scelte tanto drammatiche
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e dolorose (scelte, anzi, contro le quali un primo moto d'orrore è quasi istintivo), con ogni probabilità i liberali e i socialdemocratici non avrebbero oggi che da rimpiangere il loro « stato di diritto » in una Europa fascista.
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Il secondo problema che mi pare vada esaminato, per giungere ad un compiuto giudizio sull'opera di Stalin, si collega in linea immediata a una obiezione che potrebbe venire avanzata contro il ragionamento sin qui svolto e che in effetti nell'ultimo ventennio è stata a più riprese formulata da diverse correnti politiche e culturali,
e in particolare dalla socialdemocrazia di sinistra. Si può infatti obiettare: ammettiamo pure che l'opera di Stalin rappresenti la necessaria linea di sviluppo, nelle concrete condizioni in cui si trovava l'Unione Sovietica, della rivoluzione leninista del 1917. Ciò non toglie che essa rappresenti una via di edificazione del socialismo adeguata soltanto alla situazione di un paese arretrato quale era la Russia, e perciò di gran lunga inferiore alla via, gradualistica nei suoi metodi e rispettosa nella sua sostanza dei classici istituti dello Stato liberale, indicata già da tempo dall'interpretazione socialdemocratica del marxismo.
E chiaro qual è il corollario che discende da questa tesi: la rivoluzione sovietica non è in alcun modo un fatto di' valore mondiale
e perciò da essa ben poco ha da apprendere l'evoluto socialismo europeo; anzi la Russia stessa, colmato il distacco che la separava nel grado di sviluppo economico dalle più progredite nazioni dell'Occidente, è a sua volta destinata, per uscire dall'ancor barbarica autocrazia staliniana, ad assumere le più « civili » strutture politiche delle moderne democrazie occidentali.
Quest'obiezione, che conduce, necessariamente, a misconoscere il grande valore della rottura storica operata dalla Rivoluzione d'Ottobre e a patrocinare una sbrigativa liquidazione di tutta l'esperienza politica staliniana (e al fondo anche di quella leninista), è stata variamente formulata nel corso degli ultimi venti anni; ed
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anche oggi, dopo il congresso di Mosca, torna a ripresentarsi nella mente di molti critici ed osservatori, sia pure sotto una veste più raffinata e scaltrita di quella tradizionale.
Nel periodo fra le due guerre, infatti, una simile valutazione della rivoluzione sovietica portava fatalmente, date le difficoltà in cui ancora questa si dibatteva, a considerarla quasi esclusivamente come un fatto « asiatico », da cui nessun contributo neppure indiretto poteva venire all'edificazione del socialismo in Occidente. Dopo il grande concorso portato dalla Russia alla guerra antifascista e le vicende internazionali degli ultimi anni, una simile posizione é divenuta invece difficilmente sostenibile: e così oggi la socialdemocrazia di sinistra (si pensi, ad esempio, ad un Bevan o al gruppo francese di France Observateur) é stata portata ad assumere nei confronti dell'URSS un atteggiamento che appare, almeno in superficie, meno frettoloso e meglio criticamente fondato. Da parte di tale corrente, infatti, si tende ora a riconoscere che l'Unione Sovietica può svolgere, a determinate condizioni, un ruolo positivo sul piano internazionale, e che anche talune esperienze di politica economica interna possono essere vantaggiosamente utilizzate da parte di altri paesi; rimane però immutato il giudizio di fondo, e quindi l'affermazione della decisa inferiorità, dovuta all'estrema arretratezza delle condizioni di partenza del processo rivoluzionario, dello Stato stalinista rispetto all'assetto statuale proposto dalla socialdemocrazia più avanzata.
A dimostrare l'estrema debolezza di questa obiezione potrebbe anche esser sufficiente — mi pare — il richiamo a quanta si é detto in precedenza riguardo al problema dell'edificazione del socialismo in un solo Stato. Si é visto infatti come tale dottrina rappresenti non già il frutto.di una scelta empirica, per ciò stesso teoricamente non più valida di altre possibili scelte, ma sia il logico punto d'arrivo della costruzione di una teoria politica scientificamente determinata (e quindi non più genericamente ideologica) sulla rivoluzione socialista e sulle sue condizioni obiettive in una particolare fase storica. E si è pure visto come, fra le concrete condizioni che hanno portato in URSS nell'era staliniana all'adozione di metodi di governo di
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accentuata repressione, quella rappresentata dall'arretratezza del sistema economico-sociale russo non abbia avuto, in sede logica, che un valore secondario (così che da essa si può far dipendere solamente un'accentuazione quantitativa e non una variazione qualitativa del processo); mentre tutte le condizioni decisive — resistenza delle vecchie classi dominanti, accerchiamento capitalistico e pressione della borghesia internazionale sino alla minaccia di guerra, isolamento dal mercato mondiale, realizzazione ex novo della prima
esperienza di economia socialista sono logicamente collegate al
concetto di rivoluzione proletaria in un solo Stato, indipendentemente dal paese in cui questa abbia a verificarsi.
***
Ma all'obiezione avanzata dalla socialdemocrazia di sinistra é possibile dare anche un significato piú ampio e di fondo: e in tal
caso con essa vengono di fatto a consentire anche gli eredi della più matura e conseguente tradizione liberale (Si ricordino, ad esempio, gli articoli pubblicati su questa stessa rivista da Norberto Bobbio). Ci si può cioè domandare: un processo rivoluzionario che in vista della realizzazione di un'economia socialista comporti il sacrificio dei tradizionali istituti di libertà, non implica un prezzo troppo alto perché si possa essere disposti ad accettarlo? Non conviene invece ricercare una diversa via di sviluppo, in cui la libertà si congiunga alla giustizia, in cui le necessarie trasformazioni economico-sociali non entrino in opposizione con i classici ordinamenti democratici ?
La conseguenza di una tale obiezione è evidentemente questa: che si riconosce in certa misura l'importanza storica dell'opera staliniana, specie in considerazione delle caratteristiche die paese premoderno proprio della vecchia Russia zarista; ma che si stabilisce un bilancio fra evolute democrazie occidentali e regime sovietico di dittatura del proletariato che può chiudersi, valutati gli elementi positivi e negativi presenti nell'uno e nell'altro assetto, tutt'al più in pareggio.
Dare una compiuta risposta a questa posizione richiederebbe evidentemente un discorso molto ampio: è chiaro infatti che per
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qúesta via rientra in gioco anche tutta la polemica leninista con la Seconda Internazionale sulla dottrina della dittatura del proletariato. Mi pare tuttavia, pur senza alcuna pretesa di dar fondo in poche righe al problema, che anche in questa sede sia possibile portare su tale argomento alcune non inutili precisazioni: o meglio ancora suggerire alcuni temi, il cui approfondimento — almeno così io penso — può condurre a vedere come lo Stato socialista forgiato da Stalin, nonostante le profonde insufficienze che in esso certamente esistevano ed esistono, rappresenti comunque un decisivo passo avanti rispetto a qualsivoglia assetto, sia pure il più evoluto, di tipo democratico-borghese.
Credo che proprio il problema della libertà possa costituire a questo riguardo un utile punto di partenza. Ciò non certo nel senso di voler vedere nella rivoluzione proletaria, secondo gli schemi ormai troppo abusati di `un generico e superficiale storicismo, solo un momento del grande processo di liberazione che si vien svolgendo attraverso la storia, e con ciò giustificare tutti gli eventuali elementi di negatività che tale rivoluzione comporta: sarebbe questa infatti, indubbiamente, una soluzione troppo sbrigativa e al fondo insufficiente.
Si tratta invece — mi pare — di cercar di chiarire, muovendo non da generiche considerazioni di filosofia della storia ma da un'analisi di scienza politica il più possibilmente rigorosa, attraverso quale processo é possibile passare dal livello di libertà garantito dall'assetto borghese a un livello più ampio e comprensivo.
Sotto il profilo della libertà il grande merito storico dello Stato liberal-borghese é, come é noto, essenzialmente quello di aver realizzato la « scoperta » scientifica di alcuni fondamentali istituti, destinati a costituire altrettante garanzie di libertà per i cittadini. Nello Stato borghese, però, tali istituti, (e le corrispondenti formulazioni scientifiche) sono viziati — e nel mettere in luce questa situazione sta l'aspetto di validità della dottrina leninista sul carattere dittatoriale di ogni stato a base classista — dal fatto che nell'assetto sociale che tale Stato garantisce le libertà si dipongono in funzioni della
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classe dominante, in quanto risultano limitate, in profondità ed estensione, del meccanismo esclusivo della proprietà privata.
Come é posibile spezzare tale meccanismo e determinare un allargamento della sfera della libertà? In ordine a tale problema la questione della dittatura del proletariato (e vedremo poi meglio come questo concetto debba essere inteso, al di là delle immagini di terrore e di violenza che esso quasi naturalmente ma troppo semplicisticamente richiama) si pone, a ben vedere, in questi termini: é essa essenzialmente una forma di sollecitazione violenta del processo, che non esclude in quanto tale la possibilità di pervenire al medesimo risultato per altre vie, ovvero essa rappresenta la necessaria fase di trapasso perché si possa giungere, attraverso la sottrazione della proprietà alla fruizione esclusiva di un ceto determinato e quindi l'instaurazione di una società senza classi, a far si che i diritti di libertà possano venire disposti in modo pieno e concreto in funzione di tutti i cittadini ?
Vediamo innanzitutto qual è la dottrina leninista e staliniana. sull'argomento. La dittatura del proletariato non va confusa — affermano preliminarmente Lenin e Stalin — con la conquista violenta del potere. «La rivoluzione può vincere la borghesia, abbatterne il potere anche senza la dittatura del proletariato — scrive Stalin nei Principii del leninismo —, ma la rivoluzione non può schiacciare la resistenza borghese, salvaguardare la vittoria e procedere oltre verso la vittoria definitiva del socialismo se a un certo momento del suo sviluppo non si crea un organo speciale: la dittatura del proletariato, suo appoggio fondamentale » (7).
La dittatura non é dunque necessaria al proletariato per conquistare il potere, ma piuttosto perché, una volta compiuta tale conquista, sia possibile procedere alla demolizione delle basi economico-sociali della divisione della società in classi e così aprire la strada ad una più ampia libertà. I motivi su cui tale necessità si fonda possono cosí essere sintetizzati (mi attengo, per ora, alle formulazioni date al problema da Lenin e Stalin in,relazione alla situazione sovietica):
(7) Stalin, Opere, vol. VI, pag. 137.
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a) anche dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato, la borghesia, rimane, ancora per un certo tempo, la classe più forte sul piano dei rapporti economico-sociali, in quanto in tale sfera essa può disporre di strumenti di cui il proletariato é privo. Perciò il rovesciamento del nuovo assetto politico diviene inevitabile se il proletariato non fa un uso autoritario del potere di cui é venuto a disporre (cfr.: Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky: «Ancora per lungo tempo dopo la rivoluzione gli sfruttatori conservano inevitabilmente una serie di enormi vantaggi di fatto: rimangono loro il denaro, che non si può sopprimere immediatamente, una certa quantità di beni mobili, spesso considerevoli; rimangono loro le relazioni, la pratica organizzativa e amministrativa, la conoscenza di tutti i segreti dell'amministrazione; rimangono loro un'istruzione più elevata; strette relazioni con l'alto personale tecnico, che vive e pensa da borghese, rimane loro una co- noscenza infinitamente superiore dell'arte militare... [Perciò] anche dopo la prima disfatta seria, gli sfruttatori rovesciati, che non si aspettavano di esserlo, che non ci credevano, che non ne ammettevano neanche l'idea, si scagliano nella battaglia con energia decuplicata, con furiosa passione, con odio cento volte più intenso » (8).
b) In secondo luogo, l'edificazione dell'economia socialista non può avvenire senza gravi costi e sacrifici; senza, soprattutto, la rottura di una serie di posizioni economico-sociali cristallizzate, di cui fruiscono non solo la grande e media borghesia, ma anche la piccola borghesia e il medio ceto. Lo strumento politico della dittatura del proletariato si manifesta perciò necessario per poter condurre avanti vittoriosamente un processo di sviluppo tanto faticoso (cfr.: Lenin, Discorso agli operai ungheresi: «Lo scopo [della dittatura del proletariato] é di creare il socialismo, di eliminare la divisione sociale della società in classi, di fare di tutti i membri della società dei lavoratori, di togliere la base ad ogni sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Questo scopo non può essere raggiunto di colpo: esso esige un periodo abbastanza lungo di transi-
(8) Lenin, Opere, vol. XXIII pag. 354.
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zione dal capitalismo al socialismo, perché la riorganizzazione della produzione è cosa difficile, perché occorre del tempo per operare delle trasformazioni radicali in tutti i campi della vita, perché la forza enorme dei costumi economici piccolo-borghesi può essere superata soltanto attraverso una lotta lunga e accanita » (9).
e) Infine, non va dimenticato che lo Stato socialista si viene edificando sotto la pressione della borghesia internazionale che fa gravare su di esso una continua minaccia di guerra; e ciò comporta inevitabilmente restrizioni e sacrifici.
Questo lungo richiamo alle tesi di Lenin e Stalin sulla dittatura del proletariato mi è parso necessario perché ritengo che esso ponga bene in luce come, nello sviluppo della rivoluzione sovietica, tale forma di gestione del potere non sia stata il frutto di una scelta empirica, ma abbia rappresentato scientificamente ii necessario passaggio per il superamento della società classista e l'edificazione del socialismo: e abbia segnato quindi, sotto questo aspetto e nel senso indicato, anche un decisivo passo avanti sulla strada della libertà. E del resto, la teoria leninista sull'estinzione dello Stato, anche da Stalin mai ripudiata, non sta proprio a rappresentare, pur con i suoi evidenti limiti di sapore anarchi-cheggiante, come la meta cui necessariamente tende quel processo rivoluzionario che ha la dittatura del proletario come suo momento, sia proprio la crescita della libertà ?
D'altra parte, il decisivo significato che ha avuto, anche sul piano mondiale (nel senso di render possibile l'uscita dall'assetto borghese), la rottura rivoluzionaria operatasi in URSS attraverso la dittatura del proletariato, mi pare sia pure dimostrata, in linea indiretta ma non confutabile, dall'inevitabile fallimento della via socialdemocratica. Non va infatti c:. nenticato che il tentativo socialdemocratico di portare al massimo la pressione politica e sociale del proletariato, senza la capacità e la possibilità di operare quella radicale rottura compiutasi in Russia nel '17, ha portato nel primo dopoguerra, in quei paesi in cui piú vigorosi erano i partiti socialisti e cioè in Italia e in Germania, alla tragedia fascista; mentre ha
(9) Lenin, Opere, vol. XXXII pag. 358.
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condotto in Francia ad una progressiva decadenza nazionale. In altri termini tale tentativo, anziché consentire di superare la dialettica delle contraddizioni borghesi, non ha fatto che sollecitarle sino al loro sbocco catastrofico: laddove invece l'esperienza sovietica ha stabilito un punto fermo da cui é oggi possibile muovere per un ordinato sviluppo dell'assetto mondiale.
É per questo che la vicenda politica staliniana, anziché essere considerata come un fenomeno tipico di un paese arretrato, va storicamente collocata come un fatto di indubbio valore universale. Certamente oggi, spezzatosi l'accerchiamento capitalista e superata la fase del socialismo in un solo Stato, anche il concetto di dittatura del proletariato può essere, non solo nella teoria ma anche nella pratica, progressivamente depurato dei suoi caratteri oppressivi e violenti, e venire inteso soprattutto come la dottrina della necessaria egemonia del proletariato all'interno di un fronte di alleanza che fornisca una base stabile per l'edificazione del socialismo. E del resto Stalin stesso, nei Principi del leninismo, scriveva già nel 1924: u Certo in un avvenire lontano, se il proletariato vincerà nei principali paesi capitalistici e se l'attuale accerchiamento capitalistico sarà sostituito da un accerchiamento socialista, una via pacifica di sviluppo sarà del tutto possibile per alcuni paesi capitalistici, in cui i capitalisti, di fronte a una situazione internazionale sfavorevole, giudicheranno opportuno fare essi stessi delle concessioni serie al proletariato» (10).
Ma ciò che anche nella nuova situazione rimane valido é il nucleo essenziale della dottrina della dittatura del proletariato: rimane cioè valido che, solo sotto la piena e stabile egemonia di una forza quale "quella proletaria, che ha conquistato una completa autonomia rispetto alla classe borghese e non è disposta ad alcun compromesso con l'assetto privatistico della proprietà, é possibile il superamento delle contraddizioni capitalistiche e dei progressivi sacrifici di libertà che queste fatalmente comportano. É vero che lo sviluppo dello assetto mondiale rende oggi non' più utopistico, nei
(10) Stalin, Opere, vol. VI pag. 147.
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paesi d'occidente, cercare di far si che l'egemonia proletaria possa attuarsi in modo pieno senza comportare l'istituzionalizzazione di metodi autoritari e violenti di governo. E ciò può realizzarsi ricercando una vasta alleanza di forze politiche (distinte dal partito proletario essenzialmente per i loro fondamenti ideali, come può essere il caso dei cattolici o dei quadri tecnici e intellettuali eredi della migliore tradizione liberale), che siano disposte a collaborare col proletariato nella lotta a fondo contro la borghesia per l'abbattimento della struttura capitalistica, ma che al tempo stesso permettano di dare un più largo respiro al processo rivoluzionario, così che questo possa svilupparsi in modo da riassorbire e riqualificare le migliori conquiste della civiltà liberale (dalla pluralità dei partiti giustificata in base non a contrapposizione di classe ma a distinzioni di correnti ideali, alla non identificazione fra partito e Stato, al rispetto dell'autonomia delle diverse dimensioni in cui si viene svolgendo la vita della società civile). Ma una cosa non va dimenticata: ed è che se oggi un tale allargamento di respiro del movimento proletario é possibile, senza che questo significhi corrompi-mento opportunistico o cedimento all'egemonia borghese, ciò é solo perché esiste ormai un saldo punto d'appoggio costituito da quel mondo socialista che proprio la gigantesca tenacia di Stalin ha consentito di edificare.
Ma se così stanno le cose, non diviene del tutto retorico e letterario vedere nell'opera staliniana solo la dittatura contrapposta alla democrazia, il terrore che conculca la legalità, l'inclinazione autocratica del capo che soffoca la libera manifestazione della volontà popolare ? Non si tratta — torno a ripeterlo — di edulcorare tutti i problemi in una troppo sbrigativa visione storicisticá: che particolari errori possano essere ravvisati nella politica di Stalin, che anzi si possa giungere a stabilire che in determinate circostanze si sia da parte sua accentuato oltre il necessario il ricorso a metodi di repressione, non è certo mia intenzione negarlo (e al riguardo utili precisazioni potranno venire da una ricerca storica condotta in modo analitico). Ma ciò che credo non vada dimenticato è che finché la lotta di classe non sarà superata con l'instaurazione di una società aclassista, la lotta politica assume inevitabilmente una
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veste drammatica che comporta in taluni momenti scene molto dolorose ma forse inevitabili.
Un ultimo punto, sempre riguardo a questo secondo problema, mi pare importante mettere in luce: ed é che, nonostante le contrarie apparenze, proprio Stalin ha posto con la sua politica alcune importanti basi teoriche per uno sviluppo in senso sempre più liberale del concetto di dittatura del proletariato. Tale è infatti il significato obiettivo della lotta contro Trotzki per la difesa dell'alleanza operai-contadini, come formula di base della dittatura.
Che cosa comporta, in effetti, la formula staliniana ? Essa sta a indicare due cose:
a) che la dittatura del proletariato non può essere concepita come l'oppressione di una minoranza sul resto della popolazione, ma deve trovare la sua giustificazione nel fatto di esprimere gli interessi della grande maggioranza del popolo;
b) che la dittatura del proletariato non é il dominio esclusivo di una sola classe, ma é essenzialmente una formula di alleanza, in cui il proletariato é egemone, tra forze distinte (forze che possono essere semplicemente classi sociali diverse, come é stato il caso della Russia, ma che possono essere anche, in una situazione più evoluta quale quella occidentale, forze politiche che si differenziano per tradizioni, cultura e patrimonio ideale, e tuttavia convergono in una comune lotta per l'uscita dall'assetto borghese).
Non mi pare sia necessario sottolineare l'importanza di entrambi questi motivi ai fini di uno sviluppo non più rigorosamente dialettico, ma sempre più ampio e comprensivo della rivoluzione proletaria.
III
Mi rendo conto che quanto ho scritto sinora può suonare, sostanzialmente, come un panegirico quasi incondizionato dell'opera politica staliniana: e in effetti io sono convinto che l'analisi storica, una volta acquetato il tumulto delle passioni, non potrà non rico-
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noscere il contributo decisivo, portato alla soluzione di tanti fondamentali problemi politici del nostro tempo, dallo statista georgiano che per così lungo periodo di anni ha diretto dal Cremlino le sorti del movimento proletario internazionale.
Ma sostenere questa tesi significa forse, come affrettatamente si potrebbe ritenere, negare la necessità di _ una qualsiasi revisione critica della posizione staliniana ? A mio avviso, certamente no. E ciò non tanto nel senso che determinati errori, concretamente evitabili, possono essere ravvisati (come più sopra ho accennato) anche all'interno di una linea di cui pur si riconosce la fondamentale esattezza; quanto perché è questa linea stessa che diviene radicalmente insufficiente, e perciò pericolosa ed erronea, se continuata meccanicamente in una fase storica diversa da quella per cui é stata elaborata.
Sotto questo profilo, anche il tono accentuatamente polemico (che a un primo esame può parere addirittura antistorico) con cui da parte degli attuali dirigenti sovietici é stata sviluppata al Congresso di Mosca la critica alle forme staliniane di gestione del potere, si rivela pienamente giustificato: é chiaro infatti che un sistema politico durato per tanti anni lascia dietro di sé cristallizzazioni e bardature che, anche quando si rivelano non più adeguate al nuovo stato di cose, non possono essere demolite senza contrasti e senza lotte.
Qual é il motivo che rede oggi necessaria una revisione della politica staliniana ? Essenzialmente il fatto che il periodo storico cui tale politica rispondeva, e cioè la fase dell'edificazione del socialismo all'interno di un solo Stato é oggi definitivamente chiusa. Logicamente tale fase è terminata sin dal momento della conclusione vittoriosa della guerra antifascista; su un piano storico più empiricamente determinato, é stato il successo della rivoluzione in Cina che ha sanzionato in modo non piú rifiutabile la rottura del mercato mondiale capitalistico e il consolidamento di un mondo socialista ormai in grado di porre la sua candidatura a forza egemone dello sviluppo politico.
In questa situazione i metodi di governo accentuatamente
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rigidi e autoritari usati da Stalin si rivelano non più necessari; ed anzi essi, in quanto comportano un massimo di conservazione nella teoria e nella prassi, un massimo di imbrigliamento allo sviluppo di nuove energie politiche e culturali, divengono obiettivamente un soffocante impaccio per la soluzione dei nuovi problemi cui il movimento proletario russo ed internazionale si trova di fronte.
Appunto per questi motivi, per l'ultimissima fase della politica di Stalin può forse essere in parte legittimo quel giudizio più accentuatamente negativo di cui ho cercato di mostrare l'infondatezza in riferimento ai periodi precedenti. Il suo naturale pessimismo, le abitudini mentali e pratiche create da lunghi anni di potere, la difficoltà di innovare in profondità formulazioni culturali ormai da tanto tempo assimilate, sembrano infatti aver condotto Stalin, anche dopo il successo della rivoluzione cinese, a non riconoscere con sufficiente prontezza l'assoluta novità della situazione e quindi i nuovi compiti cui venivano a trovarsi di fronte l'Unione Sovietica e il movimento proletario internazionale. E' per questo che la politica di Stalin negli ultimi anni ha finito col trovarsi prigioniera, mi sembra, di una sorta di circolo vizioso: da un lato egli riteneva non fossero ancora maturate le condizioni per uno sviluppo rivoluzionario in Occidente, e ciò lo portava a sostenere la necessità di una rigida conservazione delle tradizionali posizioni teoriche e pratiche del movimento operaio; ma d'altra parte proprio questo atteggiamento chiusamente conservatore finiva col costituire il massimo ostacolo così ad uno sviluppo più disteso e dinamico della situazione mondiale come alla scoperta di nuove prospettive teoriche che in questa potessero inserirsi e fecondamente operare.
Il XX Congresso ha tentato di operare la rottura di questo circolo vizioso. Ma le novità in esso venute in luce — ci si può domandare — rappresentano una sufficiente soluzione di tutti i problemi impliciti in una seria revisione dello stalinismo ? A mio avviso dare una risposta recisa, in senso affermativo o negativo, a questa domanda, sarebbe probabilmente molto azzardato.
Ci si può ad esempio chiedere se la critica del mito della personalità e il ripristino della direzione collegiale, possano essere,
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senza una maggiore circolazione di libertà, una sufficiente via di superamento delle forme staliniane di gestione del potere; e in tal caso si può agevolmente rispondere che ulteriori passi avanti sono evidentemente necessari. Così pure si può senza troppo azzardo ipotizzare che anche dei cambiamenti istituzionali si renderanno, in un futuro più o meno lontano, necessari in URSS.
Ma quando da queste indicazioni tendenziali si cerca di passare a fomulazioni più precise e concrete, non si possono dimenticare due avvertimenti che sono — io credo — fondamentali. Innanzitutto un processo di sviluppo quale quello che si vorrebbe delineare non può realizzarsi positivamente attraverso clamorosi e azzardati rovesciamenti di scena, ma richiede approfonditi ripensamenti e responsabile cautela: il che significa che sarebbe errato richiedere miracolistiche ed improvvise soluzioni agli attuali-dirigenti moscoviti. In secondo luogo — ed é questa l'avvertenza decisiva — una seria revisione dello stalinismo deve essere concepita, per quanto sin qui si é detto, come sviluppo (sia pure con profonde innovazioni) dell'opera staliniana, e non come una messa in soffitta di questa. Mentre alla messa in soffitta, e quindi a un sostanziale passo indie- tro, condurebbe inevitabilmente ogni frettoloso tentativo di risolvere tutti i problemi impasticciando la nuova realtà sovietica con vecchie formule di sapore socialdemocraticheggiante, che sono, rispetto ad essa, infinitamente inferiori.
Nelle prime due parti di questa mia ormai troppo lunga risposta, ho cercato di vedere, innanzitutto come la linea seguita da Stalin (considerata nel suo complesso e senza empiriche distinzioni fra «bene» e «male») abbia rappresentato la necessaria via di sviluppo, nelle concrete condizioni storiche della sua epoca, della rivoluzione proletaria; e successivamente come questa, pur con tutti gli immensi sacrifici che ha comportato, segni, anche sotto il profilo della libertà, un decisivo passo avanti rispetto al cosidetto « ordinamento democratico tradizionale D. Se, come io spero, queste tesi non sono azzardate ed erronee, ne discende logicamente che solo salvando nella sua interezza il grande patrimonio così conquistato
lit V S trrY; t:ri¡AKANTY. 41
è possibile superare in positivo e senza secche perdite gli aspetti ormai storicamente insostenibili della politica staliniana.
Ma come si pone, di conseguenza, il problema del superamento dello stalinismo? A mio avviso esso si configura in questi termini: mantenere salda, senza alcun compromesso con la borghesia, la conquista sostanziale della rivoluzione proletaria, e cioè la fondazione di un nuovo assetto sociale che è ormai al di là di quello borghese e tende per sua natura alla società senza classi; e insieme condurre avanti, come è consentito dalle nuove condizioni, lo sforzo già iniziato da Lenin e da Stalin per liberare la dottrina su cui il proletariato ha fondato le sue fortune da ogni implicazione meta-fisicheggiante e così portarla al suo esatto significato di scienza della politica e dello Stato. Solo infatti depurando la politica dai vizi ideologici, e cioè dalla tentazione di porsi metafisicamente come scienza di tutta la realtà, è possibile pervenire a un pieno riconoscimento dell'autonomia dei diversi momenti in cui si organizza la vita complessa della società umana (dalla dimensione del privato e dall'individuale alla cultura e alla religione) e così dare concretezza alle più ricche possibilità di libertà offerte da una società non più borghese.
E su questa linea — già vi ho accennato — che è a mio parere possibile un fecondo sviluppo del movimento proletario in Occidente: la riduzione della politica alla sua esatta funzione (ormai possibile per il fatto che il movimento operaio ha consolidato la sua piena autonomia rispetto alla borghesia e questa ha perduto l'egemonia mondiale) può consentire di riprendere, riqualificandole all'interno di un più ricco contesto, alcune essenziali conquiste libe- rali (pluralità dei partiti, distinzione fra partito e Stato, tradizionali libertà dell'individuo, ecc.); e con ciò porre le basi per un incontro fra il proletariato e altre forze che non sono organicamente collegate con l'assetto borghese ma sono tuttavia rimaste sinora diffidenti nei confronti del comunismo, in quanta comprensibilmente temono che da questo possa venir compromesso il patrimonio culturale filosofico o religioso cui si richiamano.
E evidente che queste innovazioni di sostanza comportano
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anche profonde innovazioni di metodo: in particolare diviene necessario un progressivo passaggio a una forma non più rigida di gestione del potere, che consenta quella libera circolazione delle idee che é condizione di una nuova elaborazione teorica e pratica. Ma ciò che più importa rilevare è che questo sviluppo richiede dei considerevoli passi avanti teorici non solo rispetto a Stalin ma anche rispetto al leninismo nel suo complesso.
Dei passi avanti, tuttavia, che, appunto in quanto tali, non possono verificarsi — torno a ripeterlo — se non sulla base di una piena comprensione del valore dell'opera di Lenin e di Stalin. Ed è per questo che la politica staliniana, che è stata per tanti anni il segno di contraddizione intorno a cui si è intrecciato il dibattito fra la libertà « nuova » e la libertà « antica », fra la dittatura del proletariato e la democrazia borghese, non potrà prima o poi non configurarsi, ad una analisi spassionata, sotto una veste nuova: e cioè — io credo — come un momento essenziale di un processo che condurrà a far si che la rivoluzione non appaia più in contraddizione con la libertà, ma si riveli, secondo la sua più valida sostanza, come la matrice di un ulteriore allargamento della sfera di questa.
GIUSEPPE CHIARANTE
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1956 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 20
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1956 - 5 - 1 - numero 20


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