Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: PAGINE DI UNA ` INCHIESTA A PALERMO Presentiamo questi quattro frammenti di una vasta inchiesta che Danilo Dolci sta conducendo per l'editore Einaudi e che ha per oggetto quanti a Palermo, in città e in provincia, vivono di un lavoro che non è lavoro, si industriano, si arrangiano, vivono e non vivono. Si. tratta, dal punto di vista sociale, di un'inchiesta circoscritta soltanto al cosiddetto (( proletariato degli stracci », nelle forme di disgregazione che son proprie di Palermo e provincia: quasi un quinto delle popolazione in Palermo città. È un monde, umano ben caratterizzato, che ha per squallido scenario della sua. vita i cortili Cuscino, la Kalsa, Ballarti, Piazza Donnissini, Castello S. Pietro; Spine Sante, Partinico etc. Ë un mondo che non conosce mestieri, ma, come si è detto, modi di arrangiarsi, e, arrangiandosi, di campare la vita: arrifiatori, panerari, venditori di milza, di mussu, di budelle arrostite, minestrari, caramellai, cioccolatari; bancarellari, spiccia-faccende, ruffiani, prostitute ufficiali e private, cantastorie, cenciaioli, e infine ladri o peggio. Così intenzionalmente circoscritta ai ceti sociali disgregati di Palermo e provincia l'inchiesta del Dolci si sottrae alla solita obiezione che Palermo e provincia ((non sono soltanto questo »: che è poi la obiezione di coloro che in fondo, per vari motivi, non sono disposti a riconoscere che Palermo e provincia sono ((anche» questo. D'altra parte nei documenti raccolti dal Dolci appare che oggi qualche cosa si muove persino in questi ambienti sociali così obbiettivamente compromessi, e che oltre le forme tradizionali della rassegnazione, della disperazione e della ribellione anarchica, comincia persino qui a farsi luce una più consapevole coscienza civica, mediata da quei partiti che laggiù stanno assolvendo una funzione ((liberale» fra questi oppressi, i partiti di sinistra. Le tre biografie che seguono la breve analisi delle condizioni dei cortili Cascino testimoniano appunto questi diversi livelli di coscienza civica, e relativamente alle prime due la biografia di Gino O. documenta certo il livello più alto. ll testo delle biografie è stato trascritto dal Dolci con PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 137 tutta la scrupolosa fedeltà che é necessaria per documenti che non sono destinati ai letterati, ma unicamente ai politici di oggi affinché se ne giovino nella loro opera e agli storici di domani affinché sia piú concreto e individuato il loro giudizio. Abbiamo abbastanza fiducia nella intelligenza dei lettori per non temere che taluno possa scandalizzarsi di alcuni pochi particolari molto crudi della biografia di Gino O.: la rivista si svolge a un ristretto pubblico di studiosi e pertanto non é legittimo lo scrupolo che quei particolari, indebitamente fraintesi nel loro significato, possano turbare le candide anime di fanciulli e di fanciulle. ERNESTO DE MART P%10 CORTILE CASCINO È chiamata « Cortile Cascino » la zona — a 200 metri dalla Cattedrale — da via D'Ossuna a Cortile Grotta; e, in senso lato, anche l'altra, a nord, separata dalla prima dalla linea ferrata. I nudi e sudici bambini che giocano sulla ferrovia e nel fango, è quanto più impressiona a prima vista. Cinque costruzioni scalcinate di due o tre piani, e baracche a sud; tre fabbricati a due otre piani a nord: tutti con umide mura brulicanti di cimici, scorpioni e scarafaggi. Diverse donne nella strada, intente, spidocchiano la testa di un parente o di un vicino. Due o tre fontane. Qualche a maarla » sulla porta. Gli scoli, nel cortile Cascino propriamente detto, si raccolgono in uno spiazzo fetido. Se d'estate grande è sempre il pericolo del tifo, d'inverno nelle case più basse c'é da morire annegati. Una decina di locali, i più sottoposti, hanno porte, e talvolta finestre, protette da ripari in muratura alti circa settanta, ottanta centimetri, perché la fogna, quando piove, non inondi le case. 138 DANILO DOLCI Tutte le costruzioni sono assolutamente inabitabili; in alcune, dai muri sfatti, é troppo pericoloso starci. Alcune stanze sono più pulite, ordinate (queste, nelle tabelle seguenti sono state segnate con « m » : le migliori); ma il tutto deve essere rifatto di sana pianta o rinnovato. In una stanza c'é un vecchio nudo, seduto su un letto senza lenzuola (c'è solo una coperta di tipo militare): non si capisce se sia paralitico da un lato, come dice lui, o immobilizzato per l'estrema magrezza e debolezza, come dicono i vicini. In un'altra stanza si arriva per un ballatoio pericolante. E in tutte le case, (panda passa il treno, uno deside- rerebbe essere fuori, e coi piedi a terra. Un «mura» si sposta oscillando per centimetri alla semplice pressione del pugno. A un giovane, lo scorbuto ha fatto cadere tutti i denti. In una stanza vive con i giovani sposi un fratello del marito, quasi ventenne. Da un'altra é stata rapita una ragazza a dodici anni e mezzo. In un'altra erano morti cinque bambini: « Perché io me ne andavo a lavorare — dice la mamma — e lasciavo i picciriddi incustoditi; che ci potevo fare?». Qui una vedova di 68 anni vive facendo la lavandaia; li un marito, ma il caso é unico, «é morto divertendosi, bevendo troppo vino ». Da un cortiletto, largo tre metri, si scende, curvi, in una grotta di 2,80 X 2,20 nera, madida già d'estate, dove il terreno bagnato cede molle alla persona che si muove: non si capisce — orrido indimenticabile — come possano dormirci in otto. Di sera soprattutto, « bugliunu gli scarafaggi ». Nel primo dei «Cortili Cascino» le stanze sono 130 circa per 160 famiglie; nel secondo sono 80 per un centinaio di famiglie. Essendo costanti le caratteristiche, si sono considerate 100 stanze consecutive, di cui riportiamo alcuni dati (v. lo specchio intercalato). La maggior parte delle famiglie, spiegando noi il perché del lavoro, é stata ospitale; alcune opponevano difficoltà perché « non volevano andare sul giornale: tanto le cose vanno sempre avanti così. Vengono specialmente per le votazioni, talianu (guardano), si schifianu o promettono case popolari: ma se ne vanno tutti ». Le 100 abitazioni, con 118 stanze complessive e 5 ripostigli, ospitano 498 persone: circa 130 famiglie: 14 di queste con libretto di povertà. PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 139 Essendoci un gabinetto in una sola famiglia (« gli uomini puliti vanno sulla ferrovia »), in ogni stanza preparano da mangiare, mangiano, e fanno tanto « i bisogni corporali » che i figli; di media, persone 4,23. Nessuna casa con acqua corrente. I pavimenti: 4 di terra, 7 di terra e piastrelle rotte, 37 di cemento rotto e di piastrelle rotte, 51 di piastrelle rotte, 4 di cemento, 15 di piastrelle. Una quindicina di famiglie sono senza luce. Delle rimanenti, più della meta l'hanno dai vicini. Una stanza (di 2,50 X 6,00; h = 3,20) con 11 persone; una stanza (di 4,00 X 4,30; h = 4,00) per 10 persone; 3 stanze, ciascuna per 9 persone; 6, ciascuna per 8 persone; 14, per 7 persone; 8, per 6 persone; 11, per 5 persone; 19, per 4 persone; e 54 per meno di 4 persone. Diciannove sono stati ammalati di tifo: 2 ne sono morti. Il lavoro degli uomini: 39 «trafficanti », «accatta e vinni »; 18 cen-ciaiuoli; 4 manovali; 2 « portantini di fatica »; 2 netturbini; 2 ciabattini; 1 militare di leva; 1 ortolano; 1 aiuto fabbro; 1 usciere; 1 cromatore; 1 marmista; 1 aiuto fornaio; 1 tubista; 1 falegname; 1 « petrusinaro » (venditore di prezzemolo). Delle donne, 11 lavandaie, 11 cameriere, 2 comprano capelli a 40 lire ogni 200 grammi e fanno parrucche, qualcuna «lava scale »; le altre in casa. Settantaquattro sono i bambini fino a 3 anni. Spesso denutriti, malati spesso di «infezioni, intossicazioni, interocoliti, polmoniti »; di questi malanni, negli ultimi 10 anni, ne sono morti un'ottantina; anche per «mancanza di latte ». Dei bambini da 3 a 6 anni, 2 soli vanno all'asilo: gli altri 43 no. Da 6 a 13 anni, 33 ragazzi vanno a scuola (spesso a 12 o 13 anni frequentano la 2a o la 3a): ma 45 ragazzi, in obbligo di scuola, né vanno né ci sono mai andati, a scuola. I figli, non trovando lavoro, crescendo, continuano, per lo più « trafficanti» e cenciaiuoli, l'attività dei padri: di cui 31 sono stati, anche diverse volte, in carcere: ma per lo piú, « per cose di poco conto ». Essendo 386 le persone oltre i 6 anni, e 317 gli anni complessivi di scuola, ogni persona, di media, ha frequentato 8,2 decimi di prima elementare. 140 DANILO DOLCI Leggenda: L.P _ libretto povertà; I = larghezza o lunghezza N. Farn. L. P. Stanze N. 1. 1. h. 0 Ÿ o i F.G. - 2 4,0 4,0 3,5 m 3,3 4,5 3,5 no 2 U.A. - 1 2,5 2,3 2,4 no 3 F.A. - 1 3,8 3,6 3,6 m 4 P.G. si 1 2,8 3,5 3,2 no 5 S.V. - 1 2,2 7,0 3,2 no 6 P.V. - 1 3,8 3,6 3,2 no 7 L.L. - 1 3,5 3,2 3,6 no 8 P.A. si 1 3,5 3,2 3,6 no 9 P.M. - 1 3,5 3,2 3,4 no 10 F.S. - 1 3,2 4,8 3,8 no 11 C.G. si 1 2,2 4,0 2,2 no 12 M.V. - 1 2,1 3,3 2,8 no 13 F.G. - 1 3,0 3,0 2,8 no 14 F.C. si 1 2,8 3,2 2,3 no 15 S.V. sì 1 3,0 3,0 3,5 no 16 P.A. - 1 3,0 3,0 3,5 no 17 N.G. - 1 2,5 6,0 3,2 no 18 P.A. sì 1 3,0 2,1 2,1 no 19 S.G. - 1 2,5 3,0 3,0 no 20 R.P. - 1 2,5 3,0 2,3 no 21 S.S. - 1 3,5 3,5 2,5 no 22 P.F. - 1 4,5 3,5 1,8 no 23 M.F. - 1 5,0 3,2 3,2 no 24 V.C. - 1 2,0 1,7 2,0 no 25 M.S. sì 1 7,5 2,2 2,2 no 26 P.I. - 2 3,0 4,0 2,6 no 2,0 3,0 2,5 27 L.G. - 1 3,5 2,5 3,2 no 28 M.F. - 1 3,5 2,5 3,2 no 29 C.I. - 1 3,0 5,0 5,0 no 30 F.P. - 1 2,6 3,2 3,5 no 31 F.A. - 1 3,0 3,0 2,6 no 32 M.A. - 1 3,5 3,5 3,8 no 33 P.G. - 1 3,5 2,7 3,0 no 34 F.C. - 1 4,0 2,7 3,0 no 35 S.D. - 1 4,0 2,5 3,0 no 36 C.G. - 2 5,0 2,5 2,5 no 3,0 2,5 2,5 no 37 L.N. - 1 2,5 3,0 3,5 no 38 - D.P. - 1 3,0 3,5 3,8 no 39 P.A. - 1 2,2 2,2 2,5 .. no 40 P.G. - 1 4,5 4,5 3,5 no, v v W.C. Acqua H O á. 4 4 no no 2 1 no no 2 2 no no 8 2% no no 7 3 no no 5 2% no 110 3 21/z no no 5 2 no no 2 2 no no 6 no no 2 2 no no 3 1% no no 5 2 no no 7 3 no no 4 2 no no 3 2 no no 11 5 no no 1 1 no no 4 2% no no 2 2 no no 3 2 no no 6 3 no no 4 2 no no 4 2 no no 2 2 no no 3 3 no no 3 2 no no 7 2 no no 2 2 no no 1 1 no no 4 no no 6 2 no no 5 2 no no 9 5 no no 7 2 no no 6 2 no no 4 2 no no 4 2 no no 4 2 no no 4 2 no no 141 PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO o altezza; m = abitabile; letti (Ip.) = letti a una piazza. 3 l 1 1 I 1 2 1 1 4,4 aFt v á 5. 3a 36 3 3a 2a 2 3 3 I 1 1 1 2 1 1 1 la 2a 1 2 1 1 3 Numero dei figli Scuola 1 1 1 4 41 1 4) o 2 4 1 mo `r:, Ó 4 T1 2 2 1 26 1 1 i 1 1 1 2 1 2a 51 46 48 — 36 4a 2 1 1. 1 1 2 1 1 1 2 1 2 2 1 Padre Madre casal. mend. parruc. casal. lavand. casal. casal. camer. casal. lavand. casal. casal. casal. casal. casal. lavand. lavand. casal. casal. casal. casal. casal. camer. cas. lav. lavand. casal. casal. casal. Professione casal. casal. casal. casal. casal. casal. casal. casal. casal. casal. tratf. netturb. traff. traff. inval. traff. portant. mil. traff. cenc. manov. traff. petrusin. cene. cenc. cene. cene. cene. traff. cene. cene. traff. traff. traff. traff. cent. cene. traff. traff. traff. falegn. traff. traff. manov. Tot. anni scuola Scuola nonni pat. Carcere volte tot. 2 1 • 5g 5 2 25g 4 3 6m 2 6 3 5 6a 2 95g — 1 lm 3 — I 17m 5 E r; 2 1 16m 2 — 1 6g — 1 7a 4 3 2a 1 — 2 5a — 4 3m 5 2 8m ? 3 ? 1 4 — 1 la. 9 4- 7 2° — — 26 48 — la 3a 38 56 46 36 142 Fam. L. P DANILO DOLCI } N. 1 Stanze y a W.C. z N. L 1. h. V a 41 P.M. - 4 7,5 3,5 3,0 In 8 5 no 3,0 4,0 3,0 m 3,0 4,0 3,0 m 3,0 4,0 3,0 m 42 C.P. 2 4,5 2,5 3,0 m 9 4 no 3,0 2,5 3,0 m 43 P.V. 1 3,5 2,7 2,5 no 2 2 no 44 L.A. I 3,7 3,5 4,0 no 7 2 no 45 C.C. si i 3,7 3,0 3,5 n0 3 2 no 46 F.G. 1 3,5 4,0 3,5 no 3 3 no 47 T.S. 2 3,0 3,5 3,0 no 10 3 no 3,7 3,7 3,0 no 48 L.R. 2 3,5 2,7 3,5 no 5 3 no 3,5 3,7 3,5 no 49 S.R. si I 4,0 4,0 3,7 m 8 2 I/ no 50 L.G. 1 5,5 2,5 3,0 no 6 2 no 51 M.G. 1 0,8 20,9 3,0 no 3 2 no 2 52 P.M. I 3,5 2,0 3,0 no 5 2 no 53 F.C. i 3,0 2,0 3,0 no i 1 no 54 C.V. I 3,0 2,5 2,8 no 4 2 no 55 A.A. 4,5 3,5 3,0 no 7 3 no 56 B.C. 1 2,7 3,5 3,0 no 1 1 no 57 T.G. 2 4,0 3,0 2,5 no 7 3 no 3,0 4,0 3,0 no 58 S.C. 3 3,5 3,6 3,5 no 5 3 no 3,0 3,5 3,5 no 3,0 3,5 3,5 no 59 S.G. si 2 3,5 3,5 3,2 no 5 5 no 1,5 4,0 3,2 no 60 C.P. 2 2,7 3,2 2,9 no 5 3 no 2,7 3,2 2,9 no 61 A.R. 1 grotta 2,2 x 2,8 no 7 2 no 62 I,.N. 1 3,0 4,0 3,5 no 8 2% no 63 M.A. I 3,0 3,8 3,5 no 6 2 no 64 P.G. i 4,5 3,5 3,0 no 6 2 no 65 C.D. 3,5 4,0 3,2 no 7 3 no 66 A.G. i 3,0 3,0 3,0 no 2 2 no 67 C.G. 1 3,0 3,0 3,0 no 3 2 no 68 A.V. 1 4,0 4,0 3,5 no 7 2% no 69 A.G. Si 1 3,8 3,5 3,2 no 1 1 no 70 P.A. 2 1,8 2,5 2,5 no 8 3 no 3,8 3,5 3,2 no PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 143 , Tot. anni scuola Professione Numero dei figli Scuola Madre M p -o u ca-uÑ o R+ ' a~+ ß, 0 ó o b Carcere Scuola nonni volte tot. pat. Padre la 2a 4a la 4a 2a 4a
tubista cenc. • cenc. traff. traff. forn. • traff. manov. traff. garz. marmista inval. calz. vinaia casal. casal. casal. camer. - parruc. camer. casal. camer. camer. casal. lavand. casal. casal. lavand. casal. casal. casal. casal. 2 2 2 1 1 2 • 3 1 3 3 1 1 2 2 3 1 2 1 2 2 2 2 1 1 2 1 1 1 2 2 1 1 1 4 1 1 2 1 1 1 2 4 3a 9 14 2 7 5 4 14 11 5 10 5 2a 5a 5a 6 1 20g 1 ? 4 2a 3 3m 1 1m 2 la 7m ? 6m 1 3a — 12 — 6 7 2 1 5m 2a 3a 31 6 3 7 1 2 1 1 1 1 3 2 2 inval. cenc. lavand. cenc. camer. cenc. lavand. cenc. camer. camer. cenc. camer. netturb. casal. traff. lay. 3 1 1 5 2 1 J Acqua no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no 144 DANILO DOLCI N. Fam. L. P. Stanze N. I. 1. h. co :8 R 71 C.M. - 1 4,0 6,5 4,0 no 72 G.M. - 1 6,0 3,0 3,5 no 73 F.C. - 1 6,0 3,0 3,5 no 74 M.P. - 2 3,0 2,5 3,0 no 2,0 3,5 3,0 no 75 G.F. - 1 5,0 3,0 3,5 no 76 X.Y. - 1 5,0 3,7 3,5 no 77 RV. - 1 4,0 4,3 4,0 no 78 T.F. - 1 5,5 3,5 4,0 no 79 S.D. -- 1 5,0 3,5 4,0 no 80 S.G. -- 1 3,8 4,0 2,5 no 81 F.A. - 1 3,0 3,2 2,9 no 82 C.G. - 1 3,5 3,5 3,2 no 83 M.T. - 1 3,5 3,5 3,2 no 84 M.G. - 1 4,5 3,5 3,2 no 85 O.S. - 1 5,0 3,5 3,0 no 86 I.F. - 1 3,5 3,5 3,5 no 87 X.Y. - 1 2,5 3,0 2,2 no 88 N.G. - 1 3,1 4,0 2,2 no 89 L.P. sì 1 3,0 3,7 2,7 no 90 L.R. - 1 2,5 2,5 2,4 no 91 A.B. sì 1 3,5 4,0 3,0 no 92 X.Y. si 1 4,0 5,0 3,5 no 93 O.A. - 2 2,5 3,0 2,1 no 2,5 2,8 2,0 no 94 B.A. - 1 2,5 4,5 2,3 no 95 S.G. - 1 3,8 2,8 2,1 no 96 N.M. - 1 5,0 2,8 2,3 no 97 F.G. - 1 3,2 3,8 3,5 no 98 F.S. - 1 4,5 3,0 2,6 no 99 C.G. - 1 2,7 4,0 2,7 no 100 C.A. - 1 4,5 2,2 2,6 no 2 5 9 7 5 8 10 9 7 8 4 7 6 8 2 3 4 3 4 3 7 4 5 3 7 7 5 6 4 3 2 2 4 2 2 4 2 2 2 3 2 3 2 2 2 2 3 2 3 2 2 3 2 2 2 2 2 no 3 no 4 no 2 no W.C. no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no Acqua no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no no nò no no PAGINE DI,UNA INCHIESTA A PALERMO 145 Professione ' Numero dei figli Tot. anni scuola Carcere volte tot. Scuola Casi tifo nonni pat. Padre Madre da O a 3 da 3 a 6 asilo no da 6 a 13 scuola no oltre i 13 Padre Madre casal. — — — _ calz. cucit. 1 1 1 D — 2 crom. casal. 1 2 1 1 — 1 a 1 — — usciere , casal. 5 5a — 15 — — traff. casal. 1 2 — — 3 — — 1 traff. casal. 2 1 1 1 1 — 25 8 — — traff. casal. 3 1 3 3a — 11 — — traff. casal. 2 2 25 4a 12 — — traff. casal. 1 3a 3a 6 — — traff. casal. 2 1 — — -- — traff. camer. 2 3a — 3 3 11m — — traff. casal. 2 1 2 — — 7— — traff. lavand. 1 1 2 — — 1 1 ? — — cenc. casal. 2 1 2a — 2 — — casal. 2traff. traff. casal. 1 35 — 3 — — aiuto- fabbro casal. 2 45 — 4 4 ? — — casal. 2 — — — — traff. casal. 1 1 — — — - — — traff. casal. 1 — — — — — giard. casal. 4 — — 11 — — bracc. casal. 2 3a — 3 — — traff. casal. 1 2 — — — — — casal. 2a 7 — — traff. casal. 1 2 1 — — — — — 5 casal. 1 3 D 5 — — lava- scale 1 1 3a 3 — — traff. casal. 2 2 — — — ? ? — 25 1 traff. casal. 1 — 2a 2 2a — traff. casal. 1 — — — — — 146 DANILO DOLCI Tre sole famiglie hanno padre e madre che sappiano leggere e scrivere. Dei loro genitori, solo due coppie sapevano leggere e scrivere. Andando di questo passo (calcolando 30 anni ogni generazione), solo tra 3000 anni tutti gli sposi di qui non saranno piú analfabeti. ANTONIA R. « Io, mia sorella e quattro picciriddi e lo zio mio dormiamo qua nella grotta. Stiamo testa e piedi. Se si sveglia uno, si svegliano tutti. Ci avemu un nutricheddu, certo scennemu se fa acqua. Se uno si curca, aggranca a dormire sempre cussi; aggranca e si stinnicchia e dice l'altro: — Aspetta che mi metto buono. — Chiddu in fondo dice: — Lassami mettere lu pede. Quattro a li pedi e quattro al capizzo. D'estate fa caldo, si piglia la segatura dal mastro d'ascia e si mette in terra e si dorme anche in terra ». Ridono intorno, con maliziosi sottintesi negli occhi, anche alcuni bambini mentre un vicino aggiunge che ogni tanto, traballando il letto, c'é qualcuno che deve stringersi ad un altro. Intanto ci hanno buttato addosso da sopra, per isbaglio, dell'acqua calda e ora pioviggina fitta fitta della terricciola. Un blocco di qualcosa, in testa. « Dormiamo con la porta aperta per respirare meglio; d'inverno la chiudiamo. Pure me soru cun so maritu, s'accurcano cu nuatri. Ma i masculi si curcano vestuti, sono tanto educati. Cu li picciriddi... Di giorno stiamo tutti fora. Cuciniamo ca fora, sotto la scala, che quandu piove semu riparati chiù assai. È dodici anni che mi infilai dintra sta grotta che prima serviva di rifugio. Poi c'é venuta me soru. Dodici anni. Vogliono la buona uscita. Ventimila lire, venticinquemila lire. Uno povereddu d'unne l'have? Venivano a vedere comunista, signorine. Una volta mia nipote cur-cata docu la fotografaru e stu ritrattu sul giornale giunse a Roma e Napoli. Appizzato in pubblico. Poi ci furono le votazioni e l'appizzaru ancora. Ma ca semu, ca semu arrestate. Ci ho un quadro di Santa Rosalia, ci accendiamo ogni giorno i lu- PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 147 vini. La pregamu e per una casa ci promettemu due viaggi. Se mi fa levare da sto fango, due viaggi a Monte Pellegrino, scalzi, a pedi in terra, con le torce in mano fino a Monte Pellegrino. È bello. Bellissimo. C'é Santa Rosalia, tutta curcata, con tutto l'oro in testa. Che bellu veru! Nuatri ci facemu la promessa : — Santa Rosalia fammi stare bona, fammi capitare una casa. — Vede che bella! e ci fa vedere un'immagine nuova che comincia ad ammuffirsi. « Have un rinale d'oro, un rinale pieno d'oro. Le scarpe tutte d'oro. Che bella. Bastone d'oro. Sono promissioni che dipende come nescono di bocca. Se uno sta bono, ci porta le promissioni lá in capo: la vesta, orologi, piccioli, diecimila lire, collana, braccialetti. Ci hanno venuto a scrivere tutti i partiti: democrazia cristiana, comunisti, repubblicani, monarchia, e tutti dicono: — Dobbiamo fare fognature a questo cortile. — E più di cento anni che é così. Ci fanno vedere che tutto il mondo é nostro, poi niente. Più vampa c'é, più disperazione. — Nun dubitasse signora, nun dubitasse. — Magari signorine sono venute. Assai. Quando fu delle votazioni. Ma niente dunanu. Avìanu a acchianare i comunisti e invece acchianaru i parrini. Ma niente dunanu, né chisti né chiddi. Chissa nica ebbe lavaggi di sangu, febbre, intossicazione al sangue. U picciriddu puru, ci ficimu u vutu. Di Santa Rosalia, allu picciriddu. Se stava bono. E é misu lu votu ora a Santa Rosalia, siccome me soru lava in qualche cucinedda. La più grande ha nove anni. Sprovvista, la picciridda, putemu mandarli mai a scola? Me cugnatu e me ziu nesciunu matina matina, e vanno fora sulla ferrovia; per fare i bisogni, c'è la ferrovia. Invece noi sei, nel rinale tutte cose. E poi buttiamo fora. Me cugnatu e me ziu, pezzantini. Nésciunu di notte con la cesta e raccogliono. Vedono un mucchio di immondizie e la scartano. C'è l'immondizia che la sera buttano fora i signori, le camerere che fanno la pulizia. Vannu per le strade e dove ci sono le immondizie, cogliono stracci, ossa, vetro, buccie di arancio, buccie di limone, scarpe rotte, pane secco, 148 DANILO DOLCI e fanno la giornatedda, meschini. Poi le vendono e le pulisce chi le compra. Vengono alla mattina. C'è quando piove e non escono e si sta morti di fame. Per riempire una cesta ci vuole certe volte mezza nottata, certe volte un'ora, dipende dalla provvidenza di Dio, dalla provvidenza che manda Santa Rosalia. Quando la cartella é piena, vengono a casa. Se é poco, si possono accucchiare solo 100 lire, tornano fuori ancora. Possono guadagnare 300, 400 lire. Quando have la cesta in collo, certe volte ci sono le guardie: — Cosa portate in quella cesta! — Risponde: — Stracci, ossa vetro... — E ci rispondono loro, le guardie: Buttalo a terra -- per vedere cosa c'è dentro. Poi le guardie fanno così che coi piedi scalìanu li stracci, per vedere se ci sono cose losche, con le lampadine tascabili. Quando le guardie non ci garbizzano, o che vogliono tornare dentro, dicono: — Favorisce con noi, che domani se ne parla e va a "Casa. — Dicono loro. Di guardie ci sono che dicono: — Lascialo andare — e c'è quello che insiste, che fa l'arrugante. Quando é già dentro la, ci stanno tre giorni per prendere informazioni. Tre giorni per chiedere in Palermo stesso. Se uno è delinquente, che tipo é una persona. A tempo che stiamo tre giorni chiusi, un pezzo di pane così. Quando uno deve fare due o tre mesi, al carcere, gli danno anche carne, una volta alla settimana, ora non lo so se di piú. Ci hanno ora anche la radio ogni stazione. Invece quando sono per tre giorni, c'è un pezzo di pane e un formaggino. Minestra niente; anche se la famiglia vuol fare entrare la minestra nella carta velina, non la fanno entrare. Dopo tre giorni, posato su una tavola, le informazioni sono bene: — Andate fuori. — E si busca il pane di nuovo un'altra volta. Succede dopo due o tre mesi la stessa canzone, in un'altra pattuglia, e si va a passare di nuovo questo capriccio: informazioni, carta d'identità. Se il padre di famiglia porta la cartella vuota, i bambini piangono: — Papà u pane, voglio u pane. — Certo queste cose si sanno. E il papà per non sentire piangere i bambini va a fare una passeggiata e poi torna, tanto per svariare il cervello. Certe volte la moglie dice: — Chissi stannu PAGINE DI UNA INCHIESTA. A PALERMO 149 piangendu: come facemu? — Il marito, certo, che deve fare, che non s'affida ad andare a rubare. Per questo ci vuole quello nativo. Certe volte ci donano a credenza. Aspettamo che Santa Rosalia ci fazza la grazia. Di illuminarci il cervello alle teste grosse ». IGNAZIO P. «Qui nel Cortile Cascino (via D'Ossuna, cortile Grotta), non abbiamo mai lavorato nessuno nei cantieri perché non abbiamo avuto mai lavoro. Siamo tutti cenciaioli in generale, i maschi; le donne, lavandaie. Qualche giovane qualche volta ha trovato lavoro per qualche tempo, qualche cantiere: ma quando, dopo poco, lo lasciavano a spasso, tornava a fare il cenciaiolo che almeno era quasi continuo. Circa sett'anni fa, circa cinque persone morirono qui di tifo: come infatti siamo stati esiliati nel cortile dai carabinieri, che il cortile era infettivo: nessuno doveva uscire. C'era la sporchezza, fango, rifiuto di pozzi neri; ci sono le donne che al mattino i rifiuti corporali li buttano sulla ferrovia vicina, ma certe donne buttano li davanti nello spiazzo che fa il posto di concentramento dell'acqua morta. (A tempo d'inverno vengono i pompieri, tanto si alza l'acqua e il fango: ma i pompieri dicono che non c'é niente da fare: tirano solo fuori un po' d'acqua, la succhiano dal fondo delle case e vanno via). Questo tifo pidocchiale che é venuto, é venuto più di una volta: un'altra volta sono morte due persone, di tifo, e ammalate diverse decine di bambini. Soprattutto i bambini, morivano di tifo. Quando ci hanno esiliati i carabinieri, che nessuno poteva uscire fuori, ci portavano da mangiare nelle caldaie. Quando venivano i carabinieri ad avvisarci che portavano da mangiare, sonavano la tromba. E ci venivano centinaia di persone con le latte, queste che ci mettono la conserva, pentole e così, e ci mettevamo in coda, in riga come i militari. Ci davano da mangiare perché non potevamo uscire a andare a lavorare. Per i bisogni corporali andavamo sempre, per forza, nel cortile o, se c'era qualche carabiniere buono, ci lasciava andare sulla ferrovia. 150 DANILO DOLCI Nel mangiare, poi, c'era una specie di medicinale per disinfettarci i corpi: e doveva essere purgativo perché tutti i millecinquecento, maschi e donne, avevamo il corpo sciolto (diarrea). Il tifo, per forza doveva venire: perché le sporchezze erano trappe, le case sono strette, senza l'acqua, e ci stanno anche otto, dieci, e anche più persone per stanza: piccole celle. Qualcuna con pavimento di terra, e certe sono grotte. In tante case per sedersi usano pietre o latte di conserva. Pidocchi a quintali. Quando sono morti quelli là, erano pieni di pidocchi che facevano paura. Sono venuti a portare delle polveri disinfettanti e le buttavano dentro le abitazioni, sulle strade, e anche andavano gli uomini e le donne così, vestiti, e ci aprivano la camicia e quelli ci buttavano la polvere dentro. Anche quest'inverno passato c'é stato la pioggia potente e si sono riempite parecchie case e sono venute delle autorità a guardare e, se ne sono andate via. La gente mettevano sui carrettini materassi, cuscini, quei pochi stracci che avevano, e andavano in giro a cercare abitazione, con gente di altri quartieri, presentandosi alla legge. Tutti questi fuori di casa, l'hanno riuniti tutti e l'hanno portati nelle stanze vuote del mercato. Centinaia di persone messe tutte assieme: come si mettono i cavalli in scuderia. Gli uomini in un posto, le donne dall'altro. Dormivano a terra, con soltanto qualche coperta. Sono stati qualche quattro o cinque giorni. Insistevano per avere qualche abitazione. Gli regalavano 1500, 2000 lire ogni famiglia e rimandavano da dove erano venuti. Perché dice che case non ce n'erano. Noi uomini alla mattina, tutte le mattine, chissà da quando (mi ricordo, anche la buonanima di mio padre) andiamo a fare i nostri bisogni corporali sulla ferrovia. Certe volte vengono i Metropoli di servizio e ci danno la multa: 2500 lire. Dobbiamo pagare a caro prezzo pure fare i servizi corporali. Le donne fanno a casa sua nella stanzetta. I bambini fanno o in giro o sulla ferrovia: sei mesi fa c'è andato sotto il treno un piccolo di cinque anni di alcune case più sotto. A duecento metri dalla Cattedrale, dal centro di Palermo. Oltre i cenciaioli e le lavandaie, alcuni non fanno nulla, alcun i fanno le bandierine con l'immagine di Santa Rosalia, poche fanno le prostitute ma in altra parte di Palermo, perché li siamo troppo stretti: per non essere viste dal vicino di casa. PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO' 151 La maggioranza dei bambini non va a scuola. Giocano nel cortile, nella puzza. Quando hanno dodici, tredici anni, le ragazze si cercano subito di sposare. Si sposano fra noi stessi del cortile, tra cenciaioli, tra piccoli cenciaioli e piccole lavandaie. Sono ritornato da prigioniero l'8 ottobre '44. Circa un mese di viaggio. A casa ho trovato la famiglia mezza morta di fame. Allora non ero sposato. Quando sono arrivato a Palermo, si sono presentati due amici miei, mi hanno chiesto se lavoravo, e io ho risposto che non lavoravo. Mi hanno portato con sé a trasportare un po' di legna che era abbandonata tra le macerie. Si é presentata una signora e mi ha domandato cosa facevo io lì, che era stato bombardato. Si sono presentati i carabinieri e mi hanno invitato di venire con sé. La signora diceva ai carabinieri che ci avevano portato via la mobilia di casa. Pere. a me non m'hanno trovato nulla. Il maresciallo mi ha interrogato e mi ha detto se avevo documenti: il giorno proprio prima ero venuto da militare. Io mi trovavo sprovvisto di documenti e il maresciallo mi ha mandato in carcere. Io non ero stato mai arrestato nella mia vita. Circa cinque mesi che ero io al carcere, mi hanno fatto la causa. E mi imputarono per tentato furto, e mi hanno condannato à dodici mesi: non ci avevo avvocato che non avevo da mangiare né per me né per la famiglia. Allora poi mi sono appellato. E mi hanno tolto sei mesi. Così io sono diventato delinquente per la legge. Così io mi sono macchiato le carte. Quando sono uscito dal carcere, per fortuna non ci sono stato mai più. Ho sofferto molto, perché il mestiere che faccio non guadagno una somma da poter soddisfare la famiglia. Quindi è necessario che mia moglie deve andare a persona di servizio. Ho avuto la febbre maltese per diciotto mesi. Sono analfabeta come quasi tutti quanti noi. Alla mattina mi alzo alle sette, sia d'inverno che di stagione. Piglio il mio carrettino, andando in giro gridando per la strada. Compro ferro vecchio e oggetti usati e stracci. Il ferro è poco di prezzo: tredici lire al chilo. Quindi nessuno vende a questo prezzo. I soldi per comprare me li da il padrone; anche la carrettina è sua: la paghiamo 50 lire al giorno. Ci sono giorni che si guadagna 300 lire, settimane intere che non si guadagna nulla. Qualche volta può capitare di guadagnare 1000 lire o, qualche colpo, di più. Questo mestiere, arrivato a mezzogiorno, non vende più nessuno. E finita la nostra pe- 152 DANILO DOLCI ranza. Tutti nel cortile facemo lo stesso: in tutto saremo duecento. Il posto di concentramento di stracci e ferro e rame, a Palermo, é-proprio questo. Si comprano le bucce degli aranci, dei mandarini, dei limoni, a 10 lire al chilo. E si rivendono al magazzino. Il magazzino li rivende a 16, 18 lire, alle fabbriche di essenze. Molti dei bambini vanno in giro a raccogliere cicche per la strada: le sbucciano e le vendono. Ma non li spendono loro: li danno in aiuto alla famiglia. Ci sono gente che lavorano nei cantieri, gente bisognosa che non può comprare sigarette vere, comprano dieci, venti lire di questo tabacco, per risparmiare. Vanno, questi piccoli, al centro della città, in via Libertà, al Massimo, dove passa la popolazione. Se le guardie l'acchiappano li portano al Malaspina, la casa di correzione. È proibito, é vergognoso: capiscono che è uno smacco per loro stessi. Quando piove non si lavora: in quasi tutto l'inverno si lavora pochi giorni. Nell'inverno si va da quello della pasta, o quello del pane, per fare un po' di credito. E poi giriamo da una bottega ad un'altra perché uno solo, una volta può fare credito: 1000, 1500 lire. La gente del cortile nel pomeriggio, stiamo sulla strada al passaggio a livello, con la speranza di guadagnare qualche lira, perché li ci sono i punti di concentramento dei magazzini, e qualcuno può portare un po' di ferro, qualche cosa. C'é chi gioca a caste; c'é chi va alla cantina; c'é chi sta al sole, se non ha soldi. Si parla, nella cantina, di ferro, di rame, della vita della giornata, confortandosi l'uno con gli altri. Io domando a quello: — Quando hai guadagnato? — E lui dice, secondo: — 500, niente, poco. — E ci consoliamo fra noi altri. Questa storia é nata da eredità. La mia famiglia é in questo posto da 110 anni. Quando noi ci ritiriamo senza nulla, nella maggioranza delle case capitano liti. — Cosa vai a fare per la strada? — dice la moglie — nessuno ti chiama? — Risponde il marito: — Se sono sfortunato che non mi chiama nessuno, che cosa ci posso fare... — sperando che il giorno dopo si possa guadagnare qualche cosa. Se passa un'altra giornata la stessa, la facciamo a cazzotti, marito e moglie. È un cortile cieco: noi siamo al corrente solo del mestiere. Nessuno si interessa di quello che capita fuori del cortile, tranne quando ammazzano qualcuno nella città. PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 153 La religione non conta qui dentro, perché la maggioranza sono compagni (io mi devo iscrivere alla D. C. Non per darci il voto ma per poter fare le cose mie) però, a tempo di votazione, viene il prete e qualche borghese, offrendo qualche coppa di pasta, con la speranza di avere il voto. Vengono, la maggioranza, la Monarchia; hanno fatto i tesserini, lasciavano l'indirizzo che dovevano andare a prendere un chilo di pasta. La maggioranza c'è chi ha paura e vota per il partito che loro ci dicono. Paura che il partito sapesse che non han votato per lui. La maggioranza non va in Chiesa, non c'è domenica né giorni di festa. La domenica c'è il pensiero come svolgere per pater apparecchiare la tavola con qualcosa da mangiare. E un rione difficile. Una volta sono venuti due persone per far fotografie e uno di qui, ubriaco alle dieci e mezzo di mattino, monarchico, ha sdraiato le mani d'improvviso e ci ha acchiappato la macchina fotografica, che non vogliono che facciano fotografie. E quelli là, meschini, si misera in paura che si spezzava la macchina fotografica di 80.000 lire. Chi ci ha otto figli, chi sei, chi dieci: é l'unica delizia avere figli. E l'unica delizia della povertà. Due tre volte ci son venuti i preti in questo quartiere, per insegnare la dottrina ai bambini : mancavano due mesi alle elezioni. Noi abbiamo pulito alla meglio e ammucchiata e spianata della terra. Dopo due o tre giorni sono venuti a fare un cinema di Madonne e santi. Poi hanno visto che il cortile era troppo sporco e i bambini erano indiavolati e non ci potevano badare e sono scomparsi dalla circolazione. I bambini gli dicevano parole sporche: Stronzi, ci rompete la minchia, all'ora delle elezioni vi presentate — é scomparso il cinema, é scomparso tutto ». GINO O. ' « lo nacqui come? Mia madre era una donna che si interessava di uscire documenti, era spiccia-faccende, dopo essere restata vedova di un calzolaio. E frequentava gli uffici del Municipio, per l'attività che essa faceva. Li conobbe mio padre, il quale era un impiegato al Municipio. Mía madre era una bella donna e quello incominciò a farle la 154 DANILO DOLCI corte: non dicendo per) che era sposato, promettendole di sposarla. Mia madre gli si diede. Nato io, nel 1912, non potevo avere il nome. Mia madre non si sentì la forza di abbandonarmi e mi diede il suo nome. Ricordo solo che giocavo 11 in mezzo a la strada e qualche volta, ricordo, vagamente, mia madre mi lasciava in consegna a qualche vicina per andare a lavorare. Poi, per la spagnola, mia madre s'ammalò e morì. Non si presentò nessuno perché mia madre era considerata armai..., e io sono rimasto íl figlio del peccato di cui . nessuno voleva interessarsi. C'era un mio fratello, figlio del primo padre, il quale era promesso sposo. E fui consegnato alla famiglia della fidanzata. Li in quella casa vi era un giovane il quale andava a borseggiare. E cominciò a insegnarmi a me, prendendo una borsetta da signorina, che si diceva in gergo ladresco «mag-ghia appendente », che io dovevo « sbacchettare », cioè aprire. Lui stesso mi insegnava il modo: il frontino, il mezzo frontino. Che cos'è il frontino? Io dovevo andare avanti un cinque, sei metri dalla donna destinata al borseggio. Poi dovevo ritornare di scatto per prenderla di fronte. Arrivato all'altezza della borsa, alzavo il braccio sinistro e con la mano destra, passata sotto il gomito, facevo scattare la molla o il bottone, che in quei tempi si usava il bottone nelle borse; e c'erano quelle che si aprivano scorrendo, come certe valige: bisognava essere specializzati in tutti i tipi di aperture. Dunque, prima si apre, e poi si torna col mezzo frontino, infilando la mano nella borsa e prendendo il portafoglio o quello che c'era. Quando si era già avviati, c'è un altro problema, quello dell'omertà del bambino che doveva essere provato, prima di essere affittato a borseggiare. Qualcuno di questi adulti, che veniva pure da questa carriera diceva: — Questo è un bravo ragazzo che non parla — e lo portava in giro per le città d'Italia. Io per la prima volta fui ingaggiato da un certo B. La prima volta ero timido, mi veniva come d'andare al gabinetto. Per me era una cosa paurosa, temevo che quello se ne accorgesse e mi desse botte. Da solo non era capace: ma c'era l'altro e mi dava coraggio. Io non volevo dimostrarmi un timido, un vile, e non essere ingaggiato. I soldi poi lui li portava alla famiglia dove stavo, una parte, perché li mangiavo e dormivo. A me,. non mi dava mai la soddisfazione di sapere quello che si trovava dentro i portafogli: apriva PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 155 lui. Potevo riuscire due o tre volte al giorno. E lui faceva da palo, quello che sta per non far vedere alla gente che passa. Nella strada dove io abitavo, quasi tutte le famiglie avevano un bambino avviato alla mia stessa strada. Via S. Agostino, Cortile Catarro, Cortile Salaro (Scalilla), e quasi in ogni strada intorno, vi era o un borsaiolo o un centro di insegnamento di borsaioli. E la cosa ancora continua, lì e a Ballar) e altrove, ma è meglio non essere troppo precisi se no li vanno ad arrestare tutti: gli fanno più male, invece di aiutarli e dargli lavoro. Che non si ripeta come alla calata del Mori: era suc- cesso che per sanare il male, mettevano in galera pure Dio. Se c'era qualcuno che s'accorgeva dell'operazione, in questo rione,' nessuno parlava, anche i proprietari dei negozi: si poteva star sicuri di poter scappare, quando «s'attuzzolava », che significa: era scoperto. Ci sono anche ora « le squadre » addette per il borsaioli, ci sono gli agenti cosiddetti specializzati, ma non hanno nessuna specializzazione. Allora ce n'erano famose, capitanate dal terribile Sciabbica che ora è in pensione e che ora, per istinto, ancora privatamente va in cerca... — Un altro famoso capo squadra c'era — lu Signorino —, perché era tutto impomatato. Sciabbica correva come una lepre. Mi ricordo ancora che « scennevo », (mettiamo io ero « apparan-zato » con te, e « scendevamo » vuol dire andavamo a « lavorare »), ed all'angolo della via Sant'Agostino con via Maqueda (dove era il centro « di lavoro » delle varie « paranze », vicino a tutte le vetrine e i negozi) veniva « la squadra ». E mi accorsi che era capitanata da Sciabbica. Avvertii subito i compagni, facemmo un dietro-front e ognuno di noi fuggì nei vicoletti. Io corsi a scattafiato fino a casa, che bastava essere preso per rimanere in carcere a disposizione, minimo tre giorni. Arrivai a casa tutto spaurito che mi spaventavo solo al pensiero che mi avesse riconosciuto. Quando si arriva di corsa a casa, quelli di casa non sanno se si arriva di corsa con « u surci », il bottino, o se si é « attuzzu-lati ». Bisognava riprendere fiato per spiegare la cosa. Questa é la vita che conducono, ancora, tutte « le paranze» : soprassalti, spaventi, esaltazioni, la tema d'incontrarsi sempre con la squadra. Che ogni mattina, come escono « le paranze », cos]. escono le squadre. Quelli che abbiamo detto, sono addetti al borseggio ,delle donne, 156 DANILO DOLCI « l'amínule ». Poi ci sono altre « paranze » che operano in direzione « d'u vascu », l'uomo. In che cosa consiste « u sciàmmaru »? Un giovane, spesso dell'età dai dodici ai quindici anni (che sia ben alto d> arrivare con il gomito, allargando il gomito destro o sinistro, a seconda dov'è il portafoglio) passa vicino a quello addocchiato e ci allarga « u sciàmmaru », cioè la mezza giacchetta dalla parte del portafoglio, perché l'altro veda se c'è « u surci ». Se c'è questo poggia la mano destra,. o sinistra, a seconda dov'è il portafoglio, sulla spalla del. giovane appa-ranzato il quale ripete la prima operazione, allargando la giacca, mentre l'altro si passa la mano sotto l'ascella e acchiappa « u surci ». Questo fatto avviene con una certa facilità quando l'uomo viene a trovarsi in mezzo a una certa confusione, che pue, essere una carrozza che lo scansa o una bicicletta, quattro persone. E spesso questa can-fusione viene creata dagli stessi apparanzati: in questi casi quattro o cinque. La prostituta, diventando più vecchia, cerca di lavar scale, magari nello stesso locale dove per vent'anni ha venduto le proprie carni; cos' questa gente stanca della galera, cerca nell'operazione di prendere la parte meno rischiosa: e da li nascono i pali, gli intrammezzi, che è tutta la tresca. Poi c'è « a nona », che è quello che prende di petto l'uomo o lo prende dietro le spalle, facendo finta che vuol passare. Poi si fanno le parti tra tutti se il colpo riesce. Ognuno secondo l'opera prestata : « a nona » prende quello che vogliono dare gli altri. La parte uguale viene divisa tra il ragazzo e quello che ha preso il portafoglio. « A nona », nella paranza, viene considerato un avventizio. La maggior parte dei borseggiati sona dei contadini, venuti dalla provincia o per entrare in una clinica o in cerca di lavoro a per fare la provvigione, e portano i risparmi della loro fatica. E poi vanno ricercati « i far-daioli »: quelli che vengono dalle Americhe, dopo aver lavorato laggiù per molti anni: questi spesso hanno « u surciu abbuzzatu » : pieno di soldi. Poi ci sono gli specialisti per gli autobus, ché non sono tutti capaci di fare una cosa. Qui la difficoltà sta nell'alzare, soprattutto d'inverno, quando c'è il cappotto, per sfilare dalle tasche dei calzoni. Fino a dodici anni, sempre la stessa cosa. Tante volte per far « lavorare » bene i piccioteddi, gli promettevano che li avrebbero portati ai casini. I ragazzini si facevano le seghe in comune, ognuno per conto PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 157 suo, una specie di gara a chi godeva prima. « Calava u' duce »: che a quell'età non c'era ancora sperma. Una specie di estasi. Una volta ci hanno portato in quattro in camera da una donna che dedicava le sue opere particolarmente a questi bambini: essa si gettò nel letto supina; il più grandicello, appunto perché tale, ci andò sopra proprio, e gli altri più piccoli, contemporaneamente, lei ne masturbava uno e gli altri due facevano da sé, incitati dalla scena, toccati da essa stessa. Facevano, tenendole un piede, palpandole le cosce, le natiche. Lasciamo stare queste cose che ripugnano, che altrimenti dovrei dire che certe volté a chi faceva la spia lo inculavano per sfregio, ecc. ecc. A dodici anni (c'era una specie di mercato), uno sapeva che ero capace ormai di borseggiare: e quindi venne a parlare con la famiglia e si rimase d'accordo che giravo con lui. Le mie prime esperienze, di più alto livello, sono cominciate: siamo andati anche in continente. Che si faceva? La stessa cosa. Solo a ricordare fa male. Certe volte si faceva « l'appiccico ». Io fingevo di essere un bambino scappato di casa e l'altro, con una cinta in mano, fingeva di cercarmi da tre giorni: mi, vedeva, fingeva di volermi cinghiare, io mi ripavaro abbracciando i ginocchi di uno che prima ci eravamo assicurati che avesse « u surci » ne « la culatta ». Io gridavo, gli stringevo i ginocchi gridando — perdono —, e chiedendo aiuto a quell'uomo. Quello si impietosiva, si chinava cercando di proteggermi dalle busse, e intanto l'altro gli sfilava il portafoglio. Perché io fossi messo a conoscenza che l'operazione era riuscita, vi era un segnale convenzionale: mi faceva « a resta »: raschiava con la gola. Allora io mollavo. Spesse volte eravamo accompagnati da una carrozzella da nolo, con il vetturino che già sapeva, per precauzione nel caso si fosse scoperti. Una volta in corso dei Mille, qui a Palermo, all'altezza del Mulino Pecoraro, mi vedo venire un uomo che portava una decina di fiaschi vuoti. E ci gettammo per l'operazione. Questo, mentre l'altro gli stava sfilando il portafoglio, se ne accorse. E allora, fingendo che gli stavano cadendo i calzoni, pregò un altro curioso che passava, di reggerci i fiaschi: e prese la rivoltella e incominciò a sparare. Noi tutti impauriti ci buttammo subito sulla carrozzella e fuggimmo. Che poi la gente credeva che fosse un rapimento di una ragazza, come di costume. Che da Palermo e Napoli, si girava. Si stava in albergo, ci si do- 158 DANILO DOLCI veva vestire bene. Si diceva di essere commercianti. A Milano, Torino: tutta mezza l'Italia ho conosciuto. Una volta il mio apparanzato era in possesso della tessera di giornalista. E tornavamo ogni tanto a Palermo, alla base. Una volta, in una città, eravamo in tre, abbiamo incontrato una donna che poi portammo all'albergo. Io avevo un quattordici anni, gli altri erano maturi. Prima ci andarono gli altri, per ultimo io ci passai la notte e questa mi ha fatto raccontare cosa facevamo. La mattina dopo, questa é sparita senza farsi pagare. E ci siamo accorti, quando la polizia ci ha arrestato, che la polizia sapeva tutto quanto io avevo raccontato alla donna. Li s'era a farci da « nona » un brigadiere dei carabinieri, palermitano come noi, che conoscevamo. Perché abbiama pensato che la donna era una spia? La polizia insisteva nel voler sapere da me se il brigadiere, che poi hanno fatto maresciallo, era dei nostri, come io nel... m'ero lasciato scappare. A quindici anni sono stato proposto per il riformatorio di Santa. Maria Capo a Vetere, provincia di Napoli. Uno di quelli con i quali lavoravo, dispiaciuto che dovessi essere rinchiuso, mi accompagnò sulla nave (ma incognito, la guardia non sapeva niente), quasi fino a destinazione. E sul treno mi porse un medicinale da strofinarmi negli occhi, perché fossi riformato alla visita al Riformatorio. Cosa che feci, perché anch'io volevo starmene libero e ormai mi piaceva girare l'Italia. Difatti dopo Otto giorni fui riformato: ma ancora oggi agli occhi mi é rimasta un po' di congiuntivite cronica, per quello. Tornato a casa, ripresi a gironzolare per l'Italia. In questo periodo riportai due condanne di venti giorni e trenta, segnate ma non scontate perché minorenne. Un giorno fui arrestato a Roma, e da quella questura ebbi fatte le pratiche per essere rinchiuso, questa volta nell'Istituto Vittorio Emanuele III,. in provinzia di . Mantova. E qui fu la mia prima esperienza « rivoluzionaria ». Ci davano botte, il Direttore faceva cose che é meglio non. dire; bastava che noi giocassimo a tamburello quando lui dormiva, durante il giorno, per buscarci due o tre giorni di cella. Andavamo in cucina di notte a scassinare per prendere del pane, o nell'orto per me-Ioni o pomodori. Abbiamo deciso di denunciarlo: scrissimo una lettera al Podestà del comune, nella quale denunciavamo i sopprusi ricevuti, sottoscritta dai piú grandicelli, e a sorte toccò proprio a me consegnarla. PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 159 nelle mani del Podestà. È andata a finire che il Direttore, quando son tornato, mi ha puntato la rivoltella addosso, ma lui poi é stato costretto ad andarsene. Tre anni sono stato 11: vita di recluso, si pub immaginare. Si sacrificava certe volte una parte del pane per cambiarlo, coi contadini che venivano 11, in sigarette fatte a mano. Strada lunghissima fino alla scuola e tutta la gente che diceva: — Povarin, povarin, daghe un pezo de pan, una gota de vino —. Che cosa ci avevano di educatori quelli là non si sa: se il primo lasciava tutto alla legge dell'anarchia, quell'altro voleva fare andare dritto tutto e invece andava tutto storto. Non si sa se andava peggio prima o peggio dopo. Li ho incominciato dalla terza, per finire alla sesta elementare: mi han portato li perché sapevo un po' leggere per conto mio, avevo quasi la barba e ero came il padre dei bambini del paese, che erano mischiati insieme nella classe. Mi ricordo ancora che il primo giorno di scuola c'era il maestro che aveva disegnato un triangolo alla lavagna e diceva: — L'area del triangolo si trova moltiplicando la base per l'altezza e dividendo... —, e mi domando: — Tu laggiù l'hai capito? — Io non avevo capito niente ma gli dissi di si. Dettava: — O cavallina cavallina stoma, virgola —, e io scrivevo — virgola —; e poi: — Tu fosti buona ma parlar non sai, punto —, e io scrivevo — punto —. Avevo diciott'anni quando frequentavo la sesta; e perché anda- vamo a baciarci in mezzo le aiole, vicino la scuola, con la nipote del Podestà, mi cacciarono dall'istituto. Non ho appreso così nessun mestiere, tranne un pa' di agricoltura li: a me cittadino 'mi insegnavano cose di terra. Andavo a piantare citrioli a piazza San Pietro? Poi son stato tre anni a Roma. E li imparai a fare il barbiere. Non mi ero dimenticato le vecchie amicizie, ma già incominciavo _a cercare una via nuova. La questura voleva che io stessi a Palermo, io invece volevo stare a Roma, dove il Tribunale mi aveva dato una madre adottiva. E la questura di Palermo, per risolvere ia difficoltà dell'avanti e indietro, mi infilò per due anni all'isola, al confino a Pantelleria. Anche di questa esperienza meglio non dire: era una corruzione continua. Come si salva un cristianu docu? Come si salva? Basti dire che certi bambini del paese venivano a dire: — Ti fazzu nescere u latte se mi dai una lira —. Mi vergogno a dirle certe cose. Siccome il ca 160 DANILO DOLCI sino era fuori limite del confino, c'era uno che era arrivato ad essere geloso della propria cagna. Ma non ci si crede se non ci si va. Questa era secondo loro l'opera di redenzione. Ventidue anni avevo quando sono uscito. Soldato non l'ho fatto, di leva, in conseguenza di quella congiuntivite cronica. A Roma subito un'altra volta. Lavoravo da bar- biere. Lavoravo, a casa, amicizie, cose normali. In questo periodo capivo che dovevo staccarmi da tutto il mondo nel quale avevo vissuto: e sentivo la necessità di crearmi una famiglia, per avere degli affetti e per avere delle responsabilità. Un uomo che non sente di avere delle responsabilità, dove va a finire? E sono venuto a Palermo, come per nostalgia di rivedere i posti dov'ero da piccolo. Ma ora andavo al Caffè delle Rose, andavo a passeggiare sotto l'orologio del Massimo, dove si davano l'appuntamento tutti i, gagarelli borghesi. Io diventando barbiere... Al Capo ci andavo, ma come un forestiero. Se incontravo qualche vecchia mia amicizia gli dicevo: — I soldi che si possono guadagnare e spendere in un giorno, si pagano con anni di galera. Invece di andare a letto col soprassalto se viene Sciabbica, si dorme tranquilli se u pane è buscatu —. Ma ancora non c'era una chiarezza della soluzione : era soprattutto stanchezza delle sofferenze passate. Siccome sentivo il bisogno di crearmi una famiglia, e facendo il barbiere non riuscivo a mettere a parte qualche soldo pel corredo, una volta pregai un mio conoscente di trovarmi un lavoro più renditizio. Questo parlò con un pezzo di novanta, il malandrino, vecchio e paralitico, che comandava dal di fuori una fabbrica del cemento, disponendo a suo piacimento l'assunzione o il licenziamento degli operai. Come manuale, li lavoravo come una bestia da soma, ora alla fornace ora traspl,rtavo pietra rotta con una roncola di ferro. Io non ce la facevo; per sfuggire il lavoro andavo tre, quattro e anche cinque volte alla latrina; quando la cosa venne a conoscenza del pezzo di novanta, mi cacciarono fuori dicendo ch'ero lagnusu. Sempre per guadagnare i soldi occorrenti per il matrimonio, ho fatto il rappresentante di cera, il battitore: vendevo statuine, stoffa, orologi «d'oro» eccetera. Finanche lo spicciafaccende, e ho imparato malamente il parrucchiere. Malgrado tutti questi mestieri non sono riuscito mai a accucchiare i piccioli pel matrimonio. La mia fidanzata, che PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 161 vedeva nel matrimonio la soluzione oltre che amorosa anche economica, mi voleva lasciare. In questa sua decisione io- vedevo la fine di tutti i miei sacrifici e proposi di fuircene. Ce ne fuggimmo a Roma. Mi trovai così senza una casa propria e senza lavoro. Intanto alcuni a Palermo dicevano: Meschina, sta picciotta si consumò. Si pigghiò unu ca nun have travagghiu —. Andammo ad abitare in casa della mamma adottiva, che fu l'unico mio conforto. Malgrado la sua povertà ci dava da mangiare. Ci sposammo con la semplicità da poveri. Poco dopo mia moglie s'ammalò, la ricoverammo all'ospedale, io continuavo a non lavorare, le difficoltà aumentavano di giorno in giorno, andavo spesso a letto senza mangiare perché non avevo soldi, andavo a trovare mia moglie all'ospedale a mani vuote. Era assai umiliante per me, non mi sentivo uomo, marito; un giorno che mi fu possibile portarle un'arancia, mi parve giorno di festa. Un'arancia. Che cosa é un'arancia? Eppure per me era tutto. Mi sentivo isolato da tutti, andavo da un barbiere all'altro per avere lavoro: niente. Volevo andare a trovare qualche mia vecchia conoscenza per rifare quell'altro « lavoro »: la paura di lasciare mia moglie solo mi teneva. Incontrai un giorno un mio amico che borseggiava: mi regalò cinque lire che mi servirono per mangiare due giorni e portare qualche cosa a mia moglie. Mia madre, che comprendeva la mia intima lotta, una sera mentre a tavola mangiavo un piatto di minestra, mi disse: — A Gi', stai attento a quello che fai. Ricordate che adesso ci hai moje e nun poi fa' quello che te pare, speciarmente che quella na regazzina —. Quel consiglio mi rasserenò e, pare, mi portò fortuna. Pochi giorni dopo trovai lavoro in un barbiere napoletano guadagnando 25 lire la settimana oltre le mance dei quali il padrone teneva conto, altrimenti avrebbe dovuto darmi 35 lire. Mi sentivo finalmente felice. Poi mia moglie usci dall'ospedale e siamo andati ad abitare alla Marinella, in casa di una mia cugina. Ogni tanto andavo a trovare la mamma adottiva e, ora che lavoravo e avevo qualche soldo, cercavo di aiutarla ché suo marito era stato facchino di quelli numerati alla stazione e adesso viveva con una percentuale che gli davano i vecchi compagni di lavoro. Non aveva nemmeno la soddisfazione di un sigaro o di un bicchier di vino, la vita gli era diventata un tormento, ed io in riconoscenza di quanto avevano fatto per me, cercavo di accontentarlo 162 DANILO DOLCI e, qualche volta, quando litigavano lei e lui, perché lui si era trattenuto qualche coserella di nascosto, cercavo di metter pace: a settant'anni ancora costretto a fare le marachelle. Durante la settimana raschiava tutto il tartume che c'era intorno a la pipa per metterlo in bocca e sentire qualcosa del gusto del tabacco. Quando veniva un po' ubriaco, al sabato, mi strofinava in faccia i baffi umidi e mi diceva: — Povero fijo —. Poi abbiamo litigato con la cugina e siamo venuti a stare a Palermo. A Palermo (mio padre lo conoscevano, me l'additavano; conoscevo anche mio nonno al quale chiedevo qualche nicheletta per la strada), venni senza niente, solo biancheria. Fui costretto ad andare a parlare a mio padre. Siccome avevo avuto pochi contatti, non lo sentivo questo affetto di padre: ma la necessità mi costrinse a parlarci. Egli permise che io e mia moglie andassimo ad abitare in casa sua. Egli era sposato, con figli. La moglie non ci accolse con entusiasmo ma, siccome comandava il marito, dovette per forza accondiscendere. Mio padre viveva una vita misera. Era stato cacciato fuori dal Municipio perché era socialista costituzionale. Nei primi giorni, siccome avevo qualche risparmio che mi avevo portato da Roma, ero io che davo da mangiare a tutti. Faceva anche lui lo sbrigapratiche siccome là in municipio aveva gli amici. Ricordo che una sera, io ancora non ero rincasato, le mie sorelle brontolavano perché non c'era niente da mangiare, quando arrivai io. Mia sorella mi disse: — Gino, u papà have i piccioli e nun vole accattare u mangiare —. Allora mi rivolsi a mio padre per accertarmi. Mio padre mi confermò si di avere i soldi, ma erano relativi ai documenti di una cliente. La sua rettitudine mi meravigliò, conoscendo io quali erano una gran parte degli spicciafaccende a Palermo: imbroglioni e truffatori legati agli uffici dei tribunali, nelle preture, dappertutto. Se tu vuoi un documento falso, attraverso questi si riesce ad averlo. Ho dovuto poi uscire di casa da mio padre, perché sua moglie, la sera mentre eravamo coricati su due materassi per terra, ci tirava i sassolini. Per farci credere che nella casa c'erano gli spiriti. Difatti una volta mia -moglie voleva uscire per il gabinetto, e mi disse tremando: — Gli spiriti ci sono in questa casa, Gino —: le avevano buttato sassolini. Una sera gli spiriti ce li feci io a sua moglie: nella stanza dove dormiva mio padre e moglie, c'era un altarino da dove ci veniva la luce PAGINE DI UNA INCHIESTA. A PALERMO 163 di un lumino dentro la stanza nostra. Allora una sera che arrivavano sassolini, presi una scarpa, la tirai sull'altarino e si spense tutto e gri- dando io: Gli spirdi, gli spirdi! andai sul letto de la signora madre, avvolto in un lenzuolo e cominciai a menarle pugni in testa. L'indomani facevo il tonto: — Ma che ci su li spirdi? Me ne vaiu allora —. E me ne sono andato. Mi presi un salone in affitto. Certe volte si poteva perdere un cliente solo perché non lo si aiutava a mettersi il cappotto; o perché non gli si era tirata la giacca dietro, di sotto il cappotto. Quando veniva qualcuno per abbonamenti, li scrivevo in un apposito registro. Gli si dice: — Il suo riverito nome —, oppure: — Vossia, come si chiama? Il cliente lo si perde anche per delle piccole mosse, un pelo scordato o un altro barbiere che gli fa più salamelecchi. (Il barbiere romano mi faceva l'orario preciso; e invece quando lavoravo dal napoletano, più meridionale del romano, ci toccava stare a lavorare fin dopo che chiudeva il barbiere dirimpetto: e quello faceva lo stesso, e non si andava a casa che alle dieci). In casa di mio padre avevo visto un giorno una fotografia di una giovane vestita per bene, e gli chiesi: — Chi è quella lì? — E lui disse: È tua sorella, che sta in casa dello zio. Ero venuto poi .a conoscenza di dove abitava quella mia sorella, figlia della mia stessa madre, di sette anni più grande di me. E, per trovarla, ho dovuto fingermi uno che portava notizie di un suo zio da Roma. Per quella preoccupazione della società borghese, la quale non trova la forza di assumere le proprie responsabilità, e quindi cerca di camuffare tutto, anche gli affetti della famiglia (se mio padre avesse avuto il coraggio di dire subito: — Questo é mio figlio —, cosi come fece mia madre, io non sarei stato eccetera e eccetera), ho dovuto avere un appuntamento con mia sorella in una altra casa e non in quella di mio zio, dove lei stava. Non appena entrato, mio cugino ci presentò. Ci sedemmo in un sofà e restammo lì alcuni minuti senza parlare. Io mi trovavo impacciato: dovevo incominciare io a parlare o lei? Poi mi incoraggiai e le dissi: — Ma perché stai dallo zio e non da papà? — Perché lo zio é senza figli e mi vuol bene e mi ha fatto studiare come papà. Ma perché sei stato tanto lontano? Papà mi ha detto che avevo un fratello ma non mi aveva detto mai dove si trovasse questo fratello —. E anch'io ho saputo, diventato 164 DANILO DOLCI grande, d'avere una sorella. Poi mi chiese che scuola avessi fatto, che religione praticavo, se ero fascista, ché allora c'era il fascismo. Io risposi che avevo fatto la sesta, e che non avevo mai approfondito il problema religioso e politico. E mi fece alcuni discorsi sulla religione e sul fascismo, e si meravigliava che non fossi cattolico e fascista. Lei era laureata in lettere. Io alla sua meraviglia risposi che, se avessi avuto la tutela che aveva avuto lei, probabilmente avrei avuto la fortuna di diventare fascista, cattolico e laureato come lei. Questo affetto di sorella io non lo sentivo. Borghesemente si dice che ci sia la voce del sangue. Io non la sentivo sta voce. E me ne andai indifferentemente, rimanendo d'accordo che ci saremmo rivisti. Difatti ci siamo rincontrati: e una volta, mentre andava a rinnovarsi. la tessera del partita e volle essere da me accompagnata a piazza Bo-logni, alla sede del fascio. Mentre camminavamo mi avvertî che se avessimo incontrato un uomo bassetto, io mi sarei dovuto allontanare, essendo questo il fidanzato e avrebbe potuto sospettare (e anche non voleva che si sapesse che eravamo fratello e sorella). E non ci siamo visti piú. Ci siamo rivisti finita la guerra, quando mori mio padre. E frequentavo casa sua. Io era già comunista, ora. Mi invitò poi, una volta, in occasione della festa di Natale, a cenare a casa sua. Mi presentai puntualmente; mentre si preparava il pranzo, sonarono alla porta: erano parenti di mio cognato (ché ormai lei s'era sposata). Mia sorella tutta preoccupata mi disse di mettermi in disparte per non farmi vedere. Io me ne sono andato e non ci sono tornato piú. La prima ragione, perché ero diventato comunista, stava racchiusa nelle sofferenze che avevo passato: comunismo voleva dire, per me, vita nuova e per tutti, lavoro per tutti e redenzione, quindi non più Sciab-bica, perché se c'é lavora, non c'é ladri, tranne che per i cleptomani. Questo nell'idea, ora ti dico il contatto fisico come è stato. Io avevo il salone, si viveva d'intrallazzo, io vendevo le sigarette di contrabband • che mi venivano fornite direttamente da una guardia di finanza. Io la cosa la facevo senza scrupoli perché si può dire che la facevano tutti i saloni. Mangiavo bene così, mentre intorno c'era fame. Un giorno volevo organizzare una dimostrazione contra l'affamamento: l'ho organizzata. Mi appartai nel retrobottega, scrissi MI manifesto nel quale finivo: — Viva Stalin, viva Roosvelt, viva il Comunismo siciliano. PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 165 Raccolsi soldi per stamparlo, comprai la colla, e fécimo per conto nostro il partito Antifascista d'Azione: e nella nostra intenzione era quello di dare bastonate ai fascisti. Con l'aiuto di alcuni altri miei conoscenti, li andammo ad incollare nelle vie e distribuirli ai passanti, nei centri della città. Un giorno, mentre ero intento a far la barba, si fermò davanti al salone una lussuosa macchina americana. Io credevo si trattasse di un cliente di riguardo e dissi a mía moglie di prendermi un asciugamano pulito. E invece erano ufficiali americani, venuti per arrestarmi sotto l'accusa di aver trasgredito al manifesto di Alexander. Mi hanno dato: — Lei non conosce il manifesto di Alexander? — Io non conosco niente, la gente muore di fame —. E mi hanno inviato al tribunale militare, il quale mi ha dato un anno con la condizionale. Dopo alcuni giorni é venuto al salone un maestro di scuola, il quale mi ha invitato, per quello che avevo fatto, ad andarlo a trovare dove avevano sede le riunioni dei socialisti. Perché ancora non avevano il permesso di organizzarsi pubblicamente. Ho frequentato alcune riunioni. Un giorno si doveva votare un ordine del giorno che non condividevo e sono stato rimproverato per il mio modo di esprimermi. Avevo presentato la domanda d'iscrizione, ma siccome mi ero stufato, perché si facevano sempre discussioni e io volevo agire, non sono andato più alle riunioni. Poi ci fu l'autorizzazione e aprirono la sede. E rifrequentai. Organizzai una dimostrazione dei barbieri e in questa occasione conobbi un comunista il quale mi disse che il mio posto era nel partito comunista. Io non trovai nessuna difficoltà e mi iscrissi al partito: 1943. Ho cominciato subito ad essere responsabile di una cel-lula di strada. Poi di una sezione. Leggevo con piacere, perché oltre ad apprendere la dottrina del partito, soddisfacevo una mia esigenza di studio che avevo avuto sempre. Organizzavo delle letture in collettivo, con degli operai: abbiamo incominciato col « Materialismo storico e dialettico » di Marx. Ci sforzavamo a capire, mesi e mesi. La storia del partito bolscevico, « La città del socialismo » di Gramsci. Da questo libro ho tratto un insegnamento che mi ha servito: la società é come un treno di tanti vagoni, alla testa del quale c'è una locomotiva di tipo moderno, mentre gli altri vagoni rappresentano le fasi della società passata, con tutte le sue strutture, con tutti i suoi difetti. Il viaggio viene DANILO DOLCI difficile perché questi vagoni sono scarcassati; ogni tanto cade una vite, cade uno sportello. Per cui é necessario, per aggiustarli, la collabora• zione di tutti quelli che sono sul treno. E quando tutto é messo a punto, si viaggia speditamente verso la città del socialismo. M'ero fatto una cultura marxista, e continuavo a lavorare da barbiere. Siccome questo mestiere, specie a Palermo, non é tanto redditizio e io ormai ero padre di quattro bambini, cercavo di evadere, far qualche altra cosa. Un giorno parlai ad un compagno qualificato il quale mi propose di andare a fare il fattorino alla Federbraccianti. Ed io accettai. In questo periodo la direzione del partito aveva indetto un corso politico per corrispondenza, al quale io partecipai. So io quale sforzo facevo e quale impegno mettevo nello studio, perché avevo coscienza che più mi sarei educato politicamente, piú avrei dato al partito. E ` in questo studio, ricordavo ancora una volta un detto di Gramsci il quale in un suo libro dice: -- Istruitevi, perché la rivoluzione é rivoluzione di uomini. La società ha bisogno di uomini nuovi, consapevoli —. Studiavo alla luce di un lumina, per risparmiare Ila luce. E un giorno mi venne il dubbio che non sarei stato buono a niente, e che il mio studio non avrebbe approdato a niente, anche perché, per lo studio che facevo, incominciavo ad avere una forma di esaurimento nervosa. Scrissi alla direzione della scuola, a Roma al Partito, per chiedere un consiglio se valesse la pena di continuare, e avevo anche il dubbio che la rivoluzione non sarebbe venuta entro il termine della mia vita. Mi hanno risposto che il solo fatto che io studiassi in quelle condizioni era un fatto positivo, e che la storia non si doveva misurare con la vita di un uomo. Un giorno mi sentii congratulato da un compagno perché avevo risposto bene ai temi finali: il sedicesimo su quattromila. Poi mi hanno messo a lavorare nel Comitato Direttivo e quindi condividevo la responsabilità del lavoro, in direzione dei contadini. La prima volta che andai a tenere una riunione in un paese di provincia, i contadini attendevano il responsabile in prima persona. Trovai la stanza addobbata a festa. Quando videro che ero io, mi dissero : — Ma comu; tu venisti? Avia a venere P... —. E io ebbi la sensazione che si fosse creato il mito uomo e fin da allora mi sforzai a dire ai contadini che non ci sono, nella lotta di classe, interessi particolari, e quindi l'uomo si perde di fronte alle masse. Specie quando PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 167 questo non sa interpretare questi interessi. Me ne tornai contento perché quella deferenza che mi aveva accolto quando arrivai, s'era mutata in affetto e in simpatia perché, malgrado non sapessi ancora esprimermi in termini tecnici, avevo saputo parlare un linguaggio da uomo che aveva lottato per il diritto alla vita. E li c'è la redenzione: in principio avevo lottato solo e per me... Mi inviarono al Congresso nazionale della Federbraccianti a Mantova, nel '49: e li ho avuto la sensazione viva che i contadini siciliani, che in quel momento si accingevano ad occupare le terre dei baroni, non erano soli nella lotta, ma con tutta la classe operaia italiana. M'é venuto da piangere quando una popolana leccese, salita sul podio, scusandosi di non sapere l'italiano ha detto: — Fino quando nun ci dannu la terra, fino a quando li picciriddi mie tengono li piedi scalzi, io non mi stancherò mai di lottare assieme alla mia compagna e non m'importano le bastonate della polizia —. Poi sono tornato e subito andato a Marineo, dove c'era in corso la lotta per l'occupazione delle terre. Trovai li un compagno il quale aveva generato una confusione da non capirci piú niente, e l'indomani alla testa dei contadini mi portai sul fondo che occupammo. In quell'occasione ho ricevuto una lezione dura, dal punto di vista pratico: perché mentre io, con la lettura dei kolcos in Russia, invitavo i contadini alla coltivazione collettiva, essi invece procedevano allo spezzettamento e alla lavorazione individuale. Si preoccupavano di delimitare la loro porzione, con una cinta, delle pietre, le redini del mulo, come quando sul treno si precipita la gente all'occupazione dei posti, buttando cappelli, borse, giornali. A me la cosa sembrava strana e chiamai un contadino, dicendo che la cosa non era giusta; e questo mi rispose — Scusami compagno Gino: se io lavoro il terreno col mulo, e quello lo lavora solo, all'ora del prodotto io n'ho a pigliare più assai. La sera prima, quando si decise di occupare la terra (noi cerchiamo di non dare la sensazione di essere noi che organizziamo, ma di andare sul posto per sentire quali sono le esigenze vive, e aiutarle a riuscire), i contadini ci dissero che dovevano essere tutti all'alba in un punto. Difatti ci trovammo li, noi per i primi i dirigenti, e via via venivano tutti gli altri contadini, con i muli, con le zappe, bambini, giovani. 168 DANILO DOLCI Quando arrivammo noi era quasi scuro, poi andava allalbando e man mano venivano i contadini. Camminando parlavano, chi pensava già al futuro raccolto, un'allegria continua, una contentezza come se si fosse già sul posto a lavorare. Era emozionante vedere come alcuni contadini, i quali erano reduci dalla guerra di liberazione, si facevano avanti per prendere loro la direzione dell'operazione. E mi si facevano attorno. Qualcuno guardava se veniva la polizia. Ci siamo incamminati verso il feudo: era un mare, non si capiva niente, non ho la sensazione di quanti ettari era: cielo e terra. La strada era lunga, non si arrivava mai. Quando siamo arrivati, per paura che sul posto ci fossero mafiosi nascosti, v'era una specie di promontorio, e li ci fermammo a discutere se conveniva andarci tutti assieme o a quattro a quattro. Intanto che discutevamo, il capo della sezione locale se ne é andato solo, dentro il feudo. E così noi anche preoccupati per lui, solo, andammo tutti. E qui quello che ti dicevo prima: uno mette la cinta, l'altro le pietre, l'altro un pezzo di canna. Ognuno prendeva per conto proprio. Il terreno i proprietari, credendo di fare i furbi, l'avevano fatto arare pochi giorni prima per dire che non era incolto. E intanto i contadini cominciarono a « rifundere »: spaccare i blocchi di terra. La giornata passe) così, a lavorare. A un certo momento ci sedemmo a gruppi, a mangiare pane e formaggio e qualche contadino aveva portato un po' di vino. Ma la mattina avevamo visto sbucare da lontano un uomo, vestito da mafioso, con gli stivaloni, la giacca e la coppola di velluto («coppole di seta, coppole di velluto, m'hai dato appuntamento e 'un sei venuto...») e i calzoni alla cavallerizza. Schioppo sulla spalla. Dice: — Che facete? Cu vi ci purtau ca? — Io ci andai incontro e ci dissi che in virtù della legge Segni-Gullo, occupavamo le terre. Ce lo dissi in modo gentile, che dietro le pale di ficurinni se ti tira una scoppiettata chi la vede poi? Iddu se n'andò. Verso sera se ne venne un'acqua terribile che arrivato al paese, in. casa di un contadino m'infornarono i panni. Noi ce ne eravamo andati PAGINE DI UNA INCHIESTA. A PALERMO 169 ma due vollero rimanere attaccati alla terra: non volevano muoversi. E i . carabinieri, quando questi rimasero soli, vennero ad arrestarli. Non so con precisione come siano andate a finire le cose perche la sera, stessa, tornato da li, andai a Montelepre, per l'occupazione del feudo vicino e poi li mi misero in galera. Nello stesso tempo anche i contadini di Cinisi, Carini, Partinico,. Terrasini e Montelepre si agitavano per avere le terre del Piano degli Aranci. Si stabili che io dovevo andare a visitare questi comuni per rendermi conto di cosa avveniva. Intanto era stato organizzato un comizio a Carini dove avrei dovuto parlare io. Siccome nella piazza v'era la festa del Santo Patrono, si decise che avrei parlato dentro i locali della Camera del lavoro che trovai affollatissima. I pressi della Camera del lavoro e le vie vicine erano perlustrati dai gruppi di carabinieri, tra questi anche quelli della C.F.R.B. (Comando Forze Repressione Banditismo). Seppi che si voleva a qualunque costo evitare l'occupazione del feudo. Partii per Terrasini, visitai Partinico e da qui a Monte-lepre. Ovunque mi portavo, ovunque leggevo chiaramente nel volto dei contadini la loro contentezza per l'approssimarsi della realizzazione di un loro sogno secolare: « un pizzuddu di terra ». È difficile descrivere il mio stato d'animo di quei momenti. Montelepre era a quel tempo al centro dell'attenzione internazionale ed &a mi trovavo a Mon-telepre, centro del banditismo. Alcune volte pensavo che trentasei capi contadini, in Sicilia, erano già caduti sotto il piombo dei sicari. Chissà... Eppure avevo commesso delle imprudenze: da Montelepre ero andato a Carini, assieme a un contadino, a piedi, prendendo in mezzo le trazzere. Una volta da Par-tinico a Montelepre. Tu capisci? Neanche durante la guerra di liberazione avevo pensato a questo, forse perché li il nemico lo avevo di fronte; qui invece da un momento all'altro mi poteva capitare di ricevere una schioppettata da dietro un palo di fichidindia. Una sera mentre parlavo nella Camera del lavoro di Montelepre é venuto un carabiniere che mi invitò a seguirlo in caserma perché mi voleva parlare il maresciallo. Ci dissi che ci sarei andato appena finito. Vi andai, una ventina circa di contadini mi vollero accompagnare. Il maresciallo, che già mi aspettava, ostentando una certa calma, mi invitava a sedere — Mi scusi se I'ho disturbata. Sa, qui é una zona pe- 170 DANILO DOLCI ricolosa ed è nostro compito sapere chi sono i forestieri. Scusi, ma lei che cosa è venuto a fare a Montelepre? Senta, non creda che io ce l'abbia con la camera del lavoro, anch'io sono operaio, anzi le dico di più: ho conosciuto personalmente a Torino la moglie di Togliatti... ». Quando me ne andai trovai i braccianti che erano rimasti fermi ad attendermi. Durante quest'altra mia esperienza mi accorsi quanta fosse lontana, dalla mente della stragrande maggioranza dei contadini, la vera funzione del sindacato. Quasi che questa fosse per loro un'opera esclusivamente assistenziale. Pochi comprendevano che non era solo la lotta economica che bisognava fare, ma era necessario parallelamente condurre la lotta politica per dare all'Italia un governo veramente nuovo. Sono tornato a Carini, dove c'era il coordinamento. Siccome tutta la zona era perlustrata dai carabinieri, ci preoccupavamo come dovevamo riuscire ad andare sul fondo senza farci arrestare. Era chiaro che non potevamo andare tutti in massa, altrimenti saremmo stati scoperti e arrestati. Siamo stati a discutere due ore nella camera del lavoro, tutti i dirigenti della zona, per pensare a tutte le trazzere, i sentieri, come conveniva meglio per non farci scoprire. Io ascoltavo perché non conoscevo la zona. A un certo momenta decisero che ci saremmo partiti a gruppi di quattro, di cinque, fingendo di andare a zappare. E fissandoci un appuntamento a Case Nuove, e quando saremmo stati tutti là, a bandiere al vento, saremmo andati a Sagana, e di li scendere alla Piana degli Aranci al feudo. Siccome dovevano venire anche dagli altri paesi vicini, i responsabili andarono ad avvisare. Io rimasi a Carini e l'indomani all'alba andavamo a topoliare (bussare) casa per casa: — Turi. Arrisvegliati, che emu a ghire alla terra. Nun ne vuoi terra? La terra!!!... E par- timmo, così a gruppi. Incontrammo una pattuglia di carabinieri ma questi s'ingannarono. Non ti posso dire quanto io abbia sofferto per la strada, per la montagna, con la gamba sciancata (mi son ferito quando sono andato volontario per la guerra di Liberazione). Tante volte mi reggevo alla coda del mulo, e una volta mi buttai per terra che credevo di non farcela piú. Arrivammo verso le sette. Attendemmo. Via via venivano gli altri: trecento circa. Aprimmo le bandiere e partimmo verso Sagana. Appena PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 171 arrivati vicino alle case, scorgemmo da lontano un altro gruppo di contadini con le bandiere: erano di Partinico. Ci unimmo e ci baciammo. Ma intanto s'era schierata in un piazzale la C.F.R.B.: si fece avanti un ufficiale e ci disse cosa eravamo venuti a fare. Dicemmo la verità, eravamo venuti a occupare il feudo. Questo ci voleva distogliere, minacciandoci: — La legge, la galera... — Intanto un maresciallo s'era diretto in un gruppo di contadini che tenevano le bandiere: uno teneva la bandiera italiana, un altro la bandiera rossa. -- Abbassi queste bandiere! Qui non siamo comunisti — disse il maresciallo: — Via la bandiera rossa, questa non é italiana. — C'era il pericolo di cadere nella loro provocazione, come seppi poi era avvenuto a Bisaquino, che per via della bandiera era successo un pandemonio: ci sono stati feriti nella polizia e nella popolazione. Si pattul — non ci facevano paura con tutti i loro mitra al collo —che le bandiere sarebbero state appoggiate al muro, ma non chiuse. E intanto l'ufficiale cercava di prender tempo dicendo che a Montelepre c'era il Prefetto che stava parlamentando con i contadini e mettendosi d'accordo che il terreno lo avrebbero dato senza bisogno di occuparlo. Aspettavamo che venissero i contadini, di Montelepre, e ci mettemmo a giocare a « lignicedda ». Si attese, si attese, questi compagni non venivano. C'era qualcuno che diceva di cominciare ad andare a occupare il terreno. Si mandò uno incontro, a vedere cosa succedesse a Mon-telepre. Intanto che si attendeva, si vide da lontano sulla strada qualcosa che si faceva sempre più distinguere. Qualcuno diceva già: — Compagni, compagni che arrivano. — Invece era una massa di carabinieri che luccicavano da lontano per le armi e le mostrine. Altro che compagni: armati fino ai denti, mettici quattro erre. Che per loro eravamo tutti banditi. E forse i banditi intanto stavano guardandoci da qualche pizzo col binocolo, a godersi lo spettacolo. Erano arrivati con degli autocarri. Poi ci presero tutti e ci fecero entrare in un cortile grande, dove c'era una vecchia galera dei Borboni. Il maresciallo si mise su un tavolino (che li avevano il loro comando), e ci fecero mettere in fila, per comune, e mi dissero a me: — Lei in quale comune si mette? — Io ci dissi: — Io essendo dirigente, mi metto da parte, li rappresento tutti. — Cominciarono coi nomi, la paternità, lit DANILO DOLCI lei è stato denunziato, stia attento per un'altra volta. Poi ci portarono tutti nel piazzale antistante alla caserma e li l'ufficiale improvvisò una specie di comizio dicendo di stare attenti che queste cose la legge non le permette. Lo interrompemmo dicendogli di fare il carabiniere e non i comizi. Intanto i contadini non se ne volevano andare che avevano visto che noi, tutti i dirigenti, non ci lasciavano andare, e capirono che eravamo arrestati. Intanto tutta la polizia li cacciava coi mitra: — Via. Avanti. Andatevene. — Allora perché non nascessero provocazioni, noi stessi dicevamo ai contadini: — Avanti, itevinne alle vostre case. Ritorna la staffetta intanto, mentre i contadini se ne vanno, e dice che avevano accerchiato Montelepre e per quello i contadini non avevano potuto venire. Quello che era tornato era un tipo in gamba, setten trionale, che non aveva paura né di banditi né di carabinieri; li arringò e li condusse all'occupazione del feudo. Ma poi glie lo hanno tolto. Intanto a me e gli altri ci condussero vicino a dei camion che erano sullo stradale. Intanto arrivò una macchina, l'ufficiale si fece sotto e fece tanto di saluto: doveva essere il Prefetto. Dopo che la macchina andò via, subito ci ordinarono di salire su due camion e ci condussero alla caserma dei carabinieri. Quando poi si accorsero che gli altri erano andati sul feudo, ci portarono al carcere, all'Ucciardone (dove poi hanno avvelenato Pisciotta con una tazza di caffè, senza che poi nessuno fiatasse) e ci denunciarono per nientepopodimeno « istigazione a delinquere, tentata occupazione di terre ». Nel carcere stavamo tosi stretti, in una cella per quattro, che non si poteva camminare in duq,; tra buliolo, dove si faceva tutto, e minestra, c'era una confusione di odori... Dopo sei mesi, appena uscito dal carcere (dove avevo intanto potuto approfondirmi nello studio delle questioni sociali; avevamo costituita la cellula « Sagana » e abbiamo fatto qualche reclutato), ritornai alla Federbraccianti, alla mia attività normale. Quando é venuto Eisenhower in Italia per ispezionare le truppe, la popolazione aveva inscenato una dimostrazione contro la guerra. Io mi trovavo in piazza Massimo, perché volevo partecipare anch'io. Ad un dato momento non so cosa é avvenuto, una confusione, ho visto spingere una donna su una camionetta e l'Onorevole Colajanni che, PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 173 qualificandosi come deputato regionale, cercava di dissuadere la polizia ad arrestare quella donna. Si è gridato: — Viva la Sicilia. Viva il Parlamento Siciliano — credendo che stessero arrestando Colajanni. E successo un parapiglia. Cominciò la solita girandola della celere e mi sono sentito afferrare per il collo da un scelbino. Pur mostrando il mio distintivo (lo porto «abusivamente », la galera c'è, perché è un mio diritto: lo Stato mi passa la pensione di guerra ma l'Associazione mutilati non mi vuole iscrivere perché ero pregiudicato: e adesso, a dir questo, voglio vedere se sono anche capaci di levarmi la pensione), mi hanno bastonato buttato sulla camionetta e ci condussero alla Faletta dove trovai uomini e donne arrestate, provenienti da Piana dei Greci dove era stato ammazzato Damiano Lo Greco, un contadino che dimostrava pure per la pace. Sono stato undici giorni in camera di sicurezza, poi portato al carcere e deferito alla commissione per il confino di polizia. Nel carcere appresi il valore che aveva « l'Unità » che, malgrado la galera, mi teneva in contatto col partito. Anzi, un giorno, aprendo la pagina, vedo che c'era un articolo sotto forma di lettera aperta, sottoscritta da tutti gli organismi di massa e da alcuni deputati, nel quale si diceva: — Chi è Gino O.? —E li la mia biografia e il maturarsi della mia lunga redenzione alla testa delle lotte per la libertà e per la pace. Se non ci fossero stati i compagni a difendermi, sarei andato sicuramente per cinque anni al confino. Nella commissione per l'ammonizione, c'era il Prefetto il quale voleva sapere cosa stessi facendo in mezzo la folla. Anzi, mi disse apposta : Nella folla mancano i portafogli. — Io mi sentivo come male, umiliato. Intorno a me, in un ambiente di gran lusso, sentivo i profumi di alcuni paltò posati sui divani di velluto e delle sigarette di lusso. Insiste, indicando il mio paltò che avevo comprato sulla bancarella della roba « americana)): — Come, lei porta questo cappotto di lusso? Fui ammonito per due anni (non potevo far più attività politica perché non potevo più andare nei paesi, secondo il regolamento di polizia. Dovevo forse andare dai marescialli e dirgli: — Sono un ammonito che debbo fare una riunione ai contadini? — Anzi, in quel tempo ritengo che il partito mi tenesse a quel posto per un senso di solidarietà, perché non mi perdessi). Cercavo continuamente di sfuggire il passato 174 DANILO DOLCI e loro insistevano invece per inchiodarmici. Quando tu arrivi li, loro cercano di reclutare il loro cliente: spie, confidenti. A me capitò che continuamente venivo chiamato al Mandamento, ora per una scusa, ora per l'altra. Una volta il Commissario mi disse: — Tu (ero ,già padre di cinque figli) mai sei stato in carcere? — gli risposi: — No. — Allora lui mi promise che mi avrebbe fatto togliere l'ammonizione. Poi mi mandò a richiamare, e aveva sul tavolo il mio incartamento: — Come, mi dicesti che non c'eri stato mai carcerato e invece... -- Ma io ci dissi a Vossia che non ero mai stato carcerato politico. — Prese una posizione paternalistica: — Ma perché non ti fai l'affari tuoi. Tu non sei nato per la politica. Ognuno nasce per la sua strada. Cercati tin lavoro... — Me lu dicesse Vossia soccu avissi a fare. — Mettiti qualche posto di fichurinni, di... — Ma se mancu mi vulite dare la licenza perché sono pregiudicato! E m'ammunistivu. — Ma tu la vuoi l'ammonizione. Se fai una vita tranquilla, e mi porti qualche notizia... A me solo direttamente... Senza parlare con nuddu... A Palermo dicono: — A tia pensu! - piuttosto mi sarei ammazzato, piuttosto che fare il cioccolattaro. A Palermo, per dire a uno « spia », ci si dice «cioccolattaro ». I cioccolattari sono una specie di associazione, delle ganghe, costituite abitualmente da pregiudicati, quattro o cinque. Prendono un centinaio di cioccolatti, dentro ci mettono dei bigliettini con scritte delle cifre che vanno da 10 a 500, a 3000, a 4000, 5000. Questi cioccolattini numerati si aggiungono ad altri trecento circa normali. I cioccolattini con dentro un bigliettino da 500 o 5000, hanno sulla carta fuori, segnati dei puntini impercettibili che solo i zaraffo (il compare) sa. I cioccolattari vendono i numeri come gli arriffatori. Prima, per attirare la gente, fannu u trippiu: i buffoni, come certi arriffatori in coppia: si danno schiaffi, fanno Bragalone, fanno nascere l'uovo dal cappello. Chi vince ha il diritto di pescare, a sorte. Quando la vendita fredda, interviene il compare; finisce sempre che la gente prende i cioc-colattini o vuoti o con le cifre basse: 100 lire, 200. Le cifre alte le prendono i compari. Se per caso dovesse capitare che uno del pubblico prende il cioccolattino con il biglietto delle 5000 lire, il cioccolattaro fa uscire il numero dal doppio fondo. PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 175 A Palermo saranno circa duecento cioccolattari. Siccome questo é un gioco d'azzardo, é una truffa « alla americana », non potrebbero farlo, pubblicamente come lo fanno, se non fossero confidenti della polizia. Fanno anche i giochi con le carte (« chistu perde e chistu vince »); e i ditali con la pallina. Quasi ogni rione ha suoi cioccolattari. C'é qualche ex malandrino che era il terrore del Capo e dell'Albergheria che oggi é al servizio della Questura. Le autorità invece di aiutare questi uomini nel lavoro e nell'elevazione loro, approfittano del loro stato di soggezione, di quello — come lo chiami tu — complesso di colpa di quello che son stati nel passato, e buttano piú sotto. Almeno quando sono così detti « uomini d'onore », hanno un certo prestigio, sia pure nella malavita; dopo, divenuti pure dei traditori, perdono anche il legame con le vecchie amicizie, schifati da tutti. Il rapporto fra le autorità e tutta la gente che campa e non campa, é l'elemosina, il paternalismo : quando c'é. Chi ci ha bisogno, per esempio i venditori di mussu o milza, di avere per forza la merce da uno, perché ce n'é poca, lo considerano come un loro piccolo Dio: che basta che questo gli levi la partita, per morire dalla fame. Questi poveracci poi votano dove dice questo piccolo ras; votano per la partita, che a loro glie ne frega della politica, in genere. Qui ci si infilano i mafiosi per portare voti dove dicono i ras. Ma la mafia é un'altra cosa: quando a una bottega ci fanno uno scasso, questi si interessano nei diversi quartieri del ricupero della merce del loro protetto. Il proprietario poi ci paga « un pizzu : i picciotti vonno mangiare ». Adesso faccio di nuovo il barbiere ambulante, che ho sei figli e il partito é povero e non ha la possibilità di stipendiarmi. Ho alcuni clienti già fissi che ci vado a casa secondo i giorni stabiliti, per? solo con questi clienti non potremmo vivere. Siccome sono conosciuto soprattutto nel rione Capo, la gente mi chiama, quando passo con la borsa, e mette sulla strada una sedia e dell'acqua in un catino su uno scalino; e tiro a stento la vita. Lo strazia é questo, che certe volte la mattina, quando esco di casa, mi faccio il conto che quel giorno dovrei guadagnare certi soldi. Vado da uno, gli faccio la barba, pensando già alle 50 lire e poi, finito, lui 176 DANILO DOLCI dice: — Domani ce li dugnu. — E capita spesso. E da quello che cade malato come li prendo piú? Dopo sedici anni, quasi, di matrimonio, non sono riuscito ancora ad avere il mobilio necessario. Fino a pochi giorni fa abitavo in un locale al terzo piano: in quattro metri per due e mezzo ci stavamo in otto persone. Poi la casa si é lesionata e ci hanno portato qui in queste scuole, con altre diciotto famiglie; le altre sono andate alla Feliciuzza. Adesso tra cinque giorni devono incominciare le scuole e non sappiamo dove andare a finire. Mensilmente vado a revisionare il tesserino della disoccupazione: in nove anni precisi non sono mai stato chiamato da questo ufficio a fare un giorno di lavoro. E pensare che dipendo dall'ufficio collocamento dei mutilati, che c'è una legge obbligatoria dell'assunzione. Ieri sono andato a revisionare il tesserino: scena come le altre volte. Ho consegnato il mio tesserino all'agente addetto a questo servizio. Questo, poveraccio, fa come un forsennato: deve da solo esplicare il servizio per il quale occorrerebbero, al giudizio di tutti, da quattro a sei agenti, Il lavoro massacrante lo rende esasperato, ha i nervi a fior di pelle. (Quando io ero bambino ero considerato un essere pericoloso e quelli della polizia mi scacciavano, mi perseguitavano senza nessuna comprensione: ora mi accorgo che io, diventato adulto, comprendo il loro dramma, li considero dei lavoratori sfruttati da questo Stato. Quando ero piccolo e vedevo le guardie, ero come il coniglio di fronte ai fari dell'automobile; oggi invece quando l'incontro mi fanno pieta : sono ancora allo stesso punto, non hanno fatto nessun passo in avanti: hanno la stessa mentalita). Confusione immensa, la gente è accalcata talmente da dare l'impressione d'essere l'uno sopra l'altro. — Zitti, per favore! — L'agente chiama: — Mazzola, Ganci, Di Maggio. — Presente! — Non c'è. — Tenga, la passi giù in fondo. — Scusi, é il mio? No. — Intanto in mezzo la folla si brontola: — Che schifo, ma che razza d'ordine c'è? — Ci vorrebbe una bomba. — Stia zitto altrimenti lo arrestano come quello dell'altro giorno. — Le donne sono in mezzo agli uomini. Un giovane, nella confusione, pomicia: con la mano in tasca accarezza la vicina. Piove, ci si vorrebbe riparare dentro l'ufficio. Si spinge. Dal di dentro si respinge e la guardia grida: — Indietro! — Si insiste per entrare. Un invalido si fa largo coni gomiti. — Documenti? Scusi lei dove va? — PAGINE DI UNA INCHIESTA A PALERMO 177 Minasola! Minasola! — Il portone si chiude, si riapre. — Scusi ha chiamato Geraci? — Per favore il mio tesserino. — Venga domani. — Ma io sono ammalato. — Che cosa posso farci io? È una torre di Babele, non un ufficio di collocamento. Certe volte rifletto che son trascorsi quarantadue anni di vita senza aver approdato a niente. Però penso che parte dei miei anni li sto spendendo per agevolare gli altri, perché altri non siano costretti a fare le mie esperienze. Poi, ritengo di vivere per un obbligo verso la mia famiglia, verso i miei figli, verso il partito, che ritengo sono state le lotte, le esperienze del partito che mi hanno reso uomo nuovo. Spesso la mattina, quando mi alzo prima di andare a lavorare, vado al lettino dove dor- mono due dei miei bambini e, baciando il più piccolo, penso che almeno lui ha le carezze e i baci che io non ho avuto. — A qualcosa servo anch'io — mi viene da pensare anche se mi rimane... Questa mia vita passata così e che a un certo momento mi dava una specie di complesso di inferiorità nei confronti degli altri, malgrado questa mia nuova concezione della vita, è affiorata qua e là in certe occasioni. Specie quando bisognava avere la forza politica e morale di fare trionfare alcuni princìpi di democrazia interna del partito. Ad esempio. Ero responsabile provinciale degli Amici dell'Unità. Un giorno, durante la penultima campagna elettorale, entrando nella stanza adibita a mio ufficio, non trovai più né tutto il materiale del mio lavoro né il tavolo, niente. Andai a trovare tutto vicino al gabinetto, alla rinfusa. Cercai di sapere perché e non mi fu possibile saperlo. Seppi solo che cosí aveva disposto uno dei dirigenti. Ho avuto una specie di collasso e rimarginavo ancora... Avevo dei dubbi: ero o non ero? Poi in un'altra sezione lavoravo ma andavo di peggio in peggio fin che un giorno fui chiamato dal compagno B. Il quale con argomenti e con modi fraterni mi ha ridato fiducia nel lavoro e nella mia persona. Dopo aver sentito che lui ancora mi stimava, siccome é il maggiore responsabile, ah!..., mi sentii rinascere. Se io dovessi continuare a lottare, misurando questa mia forza con le cose che vedo e con alcuni uomini che mi girano attorno, mi scoraggerei spesso. Ora ho imparato che spesse volte la verità è come una bottiglia con dentro olio e aceto: se tu la agiti continuamente, questi due 178 DANILO DOLCI elementi si confondono; il momento in cui ti fermi, l'olio, che per me rappresenta la verità, viene a galla, per forza di cose deve venire a galla. Con questa fiducia, pur guadagnandomi il pane, continuo insieme agli altri ad operare per il bene della collettività. Ogni qual volta si presenta un'occasione di una lotta che interessi un determinato cortile, o una famiglia, mi trova pronto. Leggi che cosa ci ha scritto un compagno in questi giorni: « ...desidero ringraziare te e tutti gli altri compagni per ciò che avete fatto per farmi passare meglio i miei mesi di noia che ho passato a Palermo. Ringraziarvi per l'esperienza politica che mi avete dato modo di acquisire (e che vi prometto di farne buon uso), ringraziarvi per la indimenticabile cena che mi avete offerta prima di venirmene via; ringraziarvi infine per tutte le gentilezze e le cortesie che avete usato per me e per i miei compagni militari. Non vi dimenticherò mai. E quando sarò vecchio e mi prenderò i miei nipotini sulle ginocchia, invece di raccontar loro delle meravigliose favole di fate e di maghi, racconterò loro dei bravi compagni palermitani che lottavano per una Sicilia più bella, più progredita e libera dagli sfruttatori che la dissanguano. Racconterò loro dell'accoglienza fraterna che avete fatto ad alcuni compagni che venimmo dalla lontana Emilia ». DANILO DOLCI
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