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tipologia: Analitici; Id: 1472310


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Tipologia Periodico
Titolo Alessandro Pizzorno, Alienazione e relazione umana nel lavoro industriale (note)
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Pizzorno, Alessandro+++
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Trascrizione Non markup - automatica:
ALIENAZIONE E RELAZIONE UMANA
NEL LAVORO INDUSTRIALE
(Note)
IL LAVORO ALIENATO. C'è alienazione quando l'uomo non é più in rapporto con il prodotto del suo lavoro. Quando il gesto di lavoro si spezza al di qua della forma finita, né « s'informa » nell'oggetto, né é informato da consapevolezza della sua riuscita, del suo uso, del suo destino sociale.
Il gesto dell'artigiano si muove ancora in rapporto a una forma finita. La moralità professionale, «far bene il proprio mestiere », é la coscienza di tale rapporto. L'artigiano « vede » il destino del proprio lavoro, è in percepibile contatto con l'uso sociale dell'oggetto che ha prodotto, « far bene quel lavoro » ha per lui un senso. La divisione del lavoro é allora al livello della società, quindi il lavoro dà un senso al suo rapporto con la società.
Quando la divisione del lavoro passa al livello industriale, l'operaio non é piú in rapporto con una forma finita, con un oggetto socialmente reale. Egli non « vede » più il risultato del suo lavoro, non lo giudica (altri lo giudicano, strumenti « giudici » lo controllano); questo staccarsi del « vedere » dal « fare » é primo segno che é caduta ogni auto-giustificazione del lavoro: contemplare essendo ancora un riscattare in sé la pena del fare.
Resta possibile il rapporto tecnico con lo strumento, rapporto pur chiuso entro appena un segmento del ciclo produttivo, da gesto a macchina; un « sensibilità di macchina » pu? fisiologicamente e moralmente sostituire la « sensibilità di lima ». Ma quando il lavoro viene organizzato scientificamente, quando cioè la divisione del lavoro viene perfezionata fino a separare dall'esecuzione ogni possibile interpretazione del la- voro, allora anche quest'ultimo rapporto tecnico é abolito, e lavorare significa semplicemente inserire gesti in una cadenza rispettando le tolleranze.
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Non solo « l'oggetto del lavoro sorge di fronte al lavoro\ come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente » e « l'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo » (secondo quanto dice Marx); ma l'atto stesso del lavoro è messo come in penosa illimitata parentesi, che non lo percorra alcun fine dell'uomo. « Far bene il proprio lavoro » allora non pub dar senso a una vita, può significar solo, invece, aderire a un'immagine del proprio atto, quale è richiesta da altri, da un ordine.
Non solo quindi il produttore lavora per soddisfare bisogni di altri (e questa è ancora condizione dell'artigiano e di ogni lavoro diviso); non solo produce qualcosa di cui altri controllerà il destino tecnico e il destinó sociale; ma il suo gesto stesso non è deciso da lui : come non gli appartiene il prodotto del suo lavoro, così non gli appartiene il suo proprio atto. Non gli è dato di « pensare il suo lavoro ». Questa è la condizione industriale.
L'AUTOMATISMO OPERAIO. Essa sembra fissarsi nel fenomeno dell'automatismo. Il lavoro standard, ripetuto esattamente e monotonamente, in « catena » o in « linea » o davanti a una macchina della quale le braccia o le gambe dell'operaio non sono che prolungamento, e il pensiero assente. Esisteva, come monotonia e ripetizione, certo ben prima della rivoluzione industriale, ma è diventato problema, male sociale, solo in seguito ad essa; e subito, sin dai primi anni dell'ottocento studiato e denunciato, é andato per) aumentando, soprattutto dopo la seconda rivoluzione industriale, quella dell'elettricità e del taylorismo, alla fine del secolo scorso.
Nelle fabbriche l'automatismo é raramente assoluto, cioè tale da annullare qualsiasi necessità di attenzione al compito. Inoltre esso si effettua in particolari condizioni di costrizione, di sforzo, di cadenza, di durata, e soprattutto di rumore. E augurabile l'automatismo perfetto, a condizioni ideali, nel comportamento umano di fronte alla macchina, la « marcia all'incosciente » e la possibilità quindi di fantasticherie, di evasione durante il lavoro? A creare tali condizioni mirano gli psicotecnici piú avanzati, soprattutto in Inghilterra ed in Svizzera. L'operaio deve poter ascoltare la musica, parlare con i compagni (questo generalmente é possibile ai montaggi), deve poter pensare ad altro che al
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suo lavoro: alle sue faccende. Risposta d'inchiesta: «Preferisco il lavoro a nastro che mi lascia libero di pensare a quello che voglio ». Oppure altri, alla domanda: « non vi annoiate troppo a far quel lavoro ? ». «oh no! pensiamo alle nostre faccende ». Cioè tutti i giorni, per nove ore di seguito; cos'è simile fantasticare allora? Una determinata situazione personale può renderlo patologico nella ripetizione e fissazione (preoccupazioni familiari, figurazioni erotiche, e cosí via). Oltre all'esperienza di Simone Weil, si ascolti per esempio Constance Reaveley, in « Industry and Democracy »; anche lei ha lavorato a lungo in lavori parcellari: «Era come se un'idea fosse associata a un movimento della mano sulla macchina, e si riaffacciasse ad ogni ripetizione di quel movimento ». Evasioni allora, è chiaro, che non sono liberazione.
Molti invece affermano che il lavoro « parcellare » è stato per loro positivo, nel senso che ha favorito altri interessi. Lo dicono in genere i militanti politici. Mermoz per esempio afferma che solo passare dal mestiere di fotografo a un lavoro automatico, gli ha permesso di aprirsi a problemi sociali. E a qualcosa di simile si riferisce Gramsci. Parlando del taylorismo (ed analizzando il caso dell'operaio tipografo, che fa tanto meno errori quanto meno è interessato dal testo) dice che lo sforzo maggiore che possa essere richiesto da un mestiere è di lavorare astraendo totalmente dal contenuto intellettuale del lavoro. « Tuttavia questo sforzo vien fatto e non ammazza spiritualmente l'uomo. Quando il processo di adattamento è avvenuto, si verifica in realtà che il cervello dell'operaio, invece di mummificarsi ha raggiunto uno stato di completa libertà ». Ma anche qui si presuppone che l'operaio opponga al lavoro un diverso interesse, preciso e costruttivo. Precisamente quello politico. Allora si tratta di altro che di liberarsi evadendo dal pensare il proprio lavoro. Significa piuttosto ripensarlo politicamente, cioè nella sua situazione totale e più vera, e in tal modo riconquistarne coscienza e riscattarne la frammentazione (fintanto che carne e nervi reggano). È quanto, per opposto, vien confermato da Elton Mayo (che è il primo teorico delle « Human Relations »), quando mette in guardia contro le fantasticherie degli operai che non siano obbligati a fare attenzione al loro compito di lavoro : potrebbero fissarsi sulle loro rivendicazioni — ostacolo a una buona armonia fra le classi!
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L'ozio Arrivo. A simile possibilità, o speranza, di ridurre\ la posizione del lavoratore di fronte alla macchina, o a semplice sorveglianza, o a complesso di gesti « midollari » (che cioè si effettuino senza nessun intervento del sistema corticale), si ricollega anche quella dottrina che potremmo chiamare dell' « ozio attivo » (« loisir actif » dice Georges Friedmann). Quando il progresso meccanico sia tale da tagliare di molto l'orario quotidiano di lavoro, l'uomo avrà nella giornata abbastanza tempo libero da dedicare ad un'occupazione « costruttiva » diversa da quella con cui si guadagna la vita, ,e a quest'occupazione potrà dare quell'impegno tecnico e morale che non gli è piú concesso nel mestiere. Anche in questo caso si ripropone la liberazione attraverso l'evasione; pur ridotto a 4 o 5 ore (e quando? e dove?), e materialmente irrilevante, l'atto del lavoro resterebbe un atto alienato. Ma resterebbe pur moralmente fondamentale nell'equilibrio della persona, perché sempre ne determinerebbe la posizione finanziaria e quella sociale. Si « é » il proprio lavoro, non la propria « hobby ». Ma si è il proprio lavoro soltanto quando se ne possiede il destino.
IL « RUOLO » DI LAVORO. Se questo principio, o questa mira, poteva prender senso in un contesto dove lavoro significava trasformazione di materia, o di natura; può conservarlo tuttora : che da una parte, i? complesso piú rilevante di attività sociale consiste in compiti di organizzazione e di sorveglianza; e d'altra parte, alla base stessa del processo produttivo, il limite è la riduzione di ogni compito a sorveglianza o ad incoscienza, e nessun contatto più con la materia? Mentre il lavoro di ognuno tende a coincidere con un'« attesa di comportamento », cioè con l'identificazione ad un ruolo. « Work role » è la nozione principe della sociologia industriale americana, definita : la parte che il lavoratore recita (« plays ») nel suo gruppo di lavoro. Ecco la nuova destinazione del gesto di lavoro, non più nella materia da trasformare, ma nell'occhio che lo sorveglia (pur solo in metafora). Ecco la nuova moralità professionale: norma di relazione umana, «esser ben visto », « farsi degli amici », « essere in buoni rapporti con l'ambiente di lavoro ». E questi rapporti si attuano come se ognuno, dirigenti e dipendenti, recitasse una parte: si realizzano cioè in una dimensione di « personaggi ». Moreno e la sociometria hanno trovato
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il terreno ideale per diffondere la tecnica del psicodramma: le parti sono invertibili, almeno per gioco — l'operaio diventa ingegnere, il dirigente diventa operaio, e via discorrendo. Ma nessuno suppone che se pu? esser serio quel gioco di invertire le parti, é implicito che reciprocamente appaia un gioco, una « rappresentazione », quella serietà con cui si recitano le parti durante il vero lavoro?
I gesti degli uomini si disegnano allora in un universo chiuso, in funzione di rapporti sociali, gesti di attore fatti per spettatori, per adattarsi all'ambiente, alla « normalità » che esso impone, e non per trasformarlo, come pure è proprio dell'uomo col lavoro. Alle frontiere di tale universo operano le macchine. Si, le macchine trasformano la materia, ne escono prodotti perfetti, ma ecco anch'essi, analogamente, subiscono un patinato travestimento. Anche i prodotti si acconciano, attraverso la pubblicità, in personaggi. E come alle ' « Human Relations » é affidata la regia dei rapporti fra gli uomini al di qua delle macchine, le « Public Relations » organizzano il prestigio al di là. Esse si fondano sulla nozione di « servizio » : il cliente é padrone; così il lavoratore viene « aufgehebt », dialetticamente superato, nell'entità di cui pur egli deve far parte: il Pubblico, personaggio finale a chiudere il circolo. Dal quale il capitale sembra restare assente.
LE « HUMAN RELATIONS ». Su questo terreno é allora nata la dottrina delle « relazioni umane », che ha rovesciato, almeno parzialmente, l'atteggiamento tayloristico nella politica industriale. Le date d'inizio che si danno sono quelle dei clamorosi esperimenti della. « Western Electric » ad Hawthorne (iniziati nel '24 e durati in diverse riprese fino al '39); dell'opera di Elton Mayo e della scuola di Harvard di « Business Administration »; dell'inserirsi delle preoccupazioni per il « fattore umano » nell'organizzazione scientifica del lavoro. In realtà c'è stato anche altro, tutt'attorno all'industria: la crisi del '29 e il crollo del messianismo produttivistico; Roosevelt con il suo « New Deal » e il suo sorriso, quel sorriso che poi si é stampato — «keep smiling» — sul volto di tutti i personaggi della vita pubblica americana, che così entrano anch'essi nel gioco, e organizzano le campagne elettorali come campagne pubblicitarie, fedeli alle norme e ai metodi delle « Public Relations » per ottenere il successo e farsi gli amici, irritati solo quando
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questi metodi non sembrano funzionare perfettamente anche al di là dei mari. E dall'altra parte, ad avvertire dell'urgenza di « relazioni umane », nel '31 le grandi manifestazioni anti-Ford, nel '37 l'occupazione della General Motors, e le battaglie contro gli squadristi degli industriali, e il massacro del « Memorial Day », in giugno; e lo stesso anno la fondazione dei sindacati C.I.O.; e poi. John Lewis, l'unico nella fase psicologica della rivoluzione industriale.
Fatto sta che qualcosa realmente mutò, in quel periodo, nelle industrie; e i nuovi insegnamenti (che, come é noto, da qualche anno professori americani stanno introducendo anche in Italia) incominciarono a farsi pratica e norma. Per cui, dopo la fase tecnica (introduzione delle macchine) e la fase organizzativa (taylorismo) si entrava nella fase psicologica della rivoluzione industrile.
Il succo di questi nuovi insegnamenti si può formulare così: la capacità produttiva di un lavoratore è in funzione non solo dell'attrezzatura e dell'organizzazione, ma anche dell'importanza che egli attribuisce al suo lavoro. Taylor diceva che il suo sistema permetteva di « dare a chi lavora, ciò di cui ha bisogno : alto salario ». Le « Human Relations », in seguito a inchieste, studi, esperimenti, giungono alla conclusione che l'alto salario non é il solo, né il principale, dei bisogni dei lavoratori; e che egli là lavora meglio — « where he sees the purpose of his work and feels important in achieving it» — dove vede lo scopo del suo lavoro e si sente importante nel farlo.
Non che Taylor avesse completamente trascurato l'importanza del « fattore psicologico » per l'incremento della produzione. Per esempio là dove dice, con puritana ingenuità, che lui credeva che assegnandosi esclusivamente alla direzione l' organizzazione, e agli operai invece la attuazione del lavoro (alleggerito così da ogni preoccupazione organizzativa), si sarebbe realizzata una ripartizione dei compiti anche moralmente equa, ed instaurata quindi una serena atmosfera d'egua-glianza! Ma c'é soprattutto un punto, che spesso passa inosservato nelle descrizioni del taylorismo. Quando nella sua « deposizione davanti alla commissione speciale della Camera dei Rappresentanti » Taylor vien costretto dalle domande dei parlamentari a dedurre con coerenza le conseguenze del suo sistema, egli afferma che l'applicazione di questo sistema « comporta una completa rivoluzione mentale ». Consiste
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proprio in ciò « l'essenza dell'organizzazione scientifica », nell'esser convinti che grazie ad essa verrà instaurata una nuova era, nella quale il « surplus » produttivo sarà tale che ogni lotta per la divisione dei profitti (quali finora sono le lotte fra operai e padroni) diventerà inopportuna, e i bisogni di ciascuno troveranno senz'altro la loro soddisfazione. Il dovere di cooperare all'instaurazione di tale «era» sarebbe anzi uno dei due principi fondamentali dell' O.S.L.; l'altro essendo invece la « scientificità » dell'organizzazione; morale l'uno, tecnico l'altro. Un vero e proprio messianismo quindi, abbastanza coerente con la formazione puritana dell'ing. Taylor; ma coerente soprattutto con le premesse scientistiche e « sperimentalmente astratte » del suo sistema.
Non si può quindi distinguere il taylorismo dalla successiva politica di « Human Relations », dicendolo chiuso ad ogni preoccupazione del fattore morale. Piuttosto dicendo che queste preoccupazioni restavano sul piano dei principi universali, e particolarmente di quello, cosí tipicamente liberale, del « dovere per ognuno di compiere il proprio interesse ». Mentre nelle « Human Relations » esse si trasformano in tecnica di governo degli uomini, in casistica differenziata (« case-method »), e quindi in oggetto del trattamento di specialisti.
Più distintamente invece Taylor si caratterizza là dove per esempio dice: « In passato l'elemento più importante era l'uomo; nel futuro sarà il sistema ». E questa non é una una semplice formula ideologica, ma si attua col trasferire ogni residuo di conoscenza dei metodi di lavoro dall'operaio alla direzione. L'operaio deve essere privato di quell'arma che consiste nel sapere in quanto tempo il proprio lavoro può venir compiuto e qual è il modo migliore di compierlo, perché sono armi che egli usa generalmente per lavorare il minimo possibile. Questi ultimi residui di conoscenze empiriche e tradizionali, comunicate finora da operaio a operaio, debbono invece venir determinate scientificamente. L'operaio deve trasferire alla direzione ogni conoscenza, ogni iniziativa, ogni responsabilità; non gli é più accordato di « pensare il suo lavoro ». Una volta, al meccanico Shartle che gli faceva delle domande, Taylor rispose : « Non vi si chiede di pensare! Ci sono altre persone qui, pagate apposta per questo ».
Ciò é quanto ci permette anche di distinguere il taylorismo da quell'altro metodo di incremento della produzione che é lo stacano-
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vismo. Entrambi tendono ad aumentare la produzione migliorando la organizzazione nella quale l'operaio si trova a lavorare, utilizzando meglio le macchine, la divisione del lavoro ecc. Li accomuna anche la morale universalistica che entrambi presuppongono e quella specie di messianismo finale, che abbiamo trovato, anche se solo marginalmente, nel taylorismo, e che é caratteristico dello stacanovismo in quanto metodo per realizzare la società comunista. Ma mentre il taylorismo é un sistema scientifico di organizzazione, lo stacanovismo è un'iniziativa di operai per distribuir meglio fra di loro il loro lavoro e le loro macchine (iniziativa in un primo momento osteggiata da molti tecnici e ingegneri); e se Taylor é il nome di un capotecnico e ingegnere, Sta-canov è il nome di un operaio. Se per Taylor l'operaio deve esser liberato da ogni preoccupazione e quindi responsabilità e iniziativa di organizzazione, e l'operaio ottimo é quindi quello che può venir calcolato sul piano di passività assoluta; per lo stacanovismo l'operaio deve indirizzare il suo sforzo « non più soltanto ad effettuare correttamente il suo lavoro secondo le direttive che riceve dai suoi superiori, ma anche sul miglioramento del suo metodo di lavoro» (come é stato osservato dall'ingegnere francese L. M. Allain).
È inoltre da notare che mentre nel taylorismo i valori chiamati in gioco sono utilitari: la realizzazione degli interessi dei singoli; lo stacanovismo fa appello principalmente a valori politici, cioè di solidarietà con una comunità (ma non unicamente, perché gli incentivi finanziari sono anche molto forti).
***
Il taylorismo è perciò definito soprattutto da questo spogliare il lavoratore di ogni possibilità di decisione, di partecipazione intellettuale al compito che gli viene assegnato. Il lavoro tocca il limite massimo dell'astrazione: lavorare significa compiere gesti, rispettando delle norme e delle tolleranze. Viene quindi perfezionata quell'estraneità dell'uomo al proprio lavoro, apparsa con la condizione industriale, e in un certo modo costitutiva di essa. D'altra parte il taylorismo, psicologicamente, poneva ancora sullo stesso piano dirigenti e dipendenti: la massima in nome della quale si doveva regolare la condotta di ognuno era la stessa: realizzare il proprio interesse. Inoltre, certo senza
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proporselo, esso creava uno stato di fatto, per cui all'operaio era reso possibile (almeno teoricamente, ed entro limiti, come abbiamo visto, di ordine fisiologico) un eventuale atteggiamento di distacco, e in conseguenza, di giudizio, o almeno di rifiuto, della propria condizione. Era ciò che Gramsci avvertiva. Era anche ciò che molto tempo prima Sorel, senza porsi sul piano tecnico, si augurava : i padroni facciano il loro mestiere, e gli operai il loro; proprio così verrà determinato ed accelerato il moto inevitabile verso la rivoluzione ed il socialismo.
Le nuove « relazioni umane » nell'industria, invece, tendono ad assorbire totalmente la condizione del lavoratore, impegnando positivamente tutte le sue facoltà (e non soltanto quelle funzionali al suo lavoro). Infatti esse mirano a ristabilire il nesso psicologico dell'uomo con il proprio lavoro : è la personalità intera dell'operaio che esse chiamano in questione.
Ma il nesso che stringono è appunto « psicologico », cioè di consapevolezza soggettiva (« sentirsi importante »). Il rapporto del lavoratore con la forma finita del prodotto, proprio dell'economia artigianale, si è spezzato per l'introduzione delle macchine. Il rapporto tecnico con lo strumento di lavoro, quale poteva ancora sussistere ai primi passi dell'industria, è stato spazzato via dall'organizzazione scientifica,. Ciò che si vuole allora fondare e rendere soddisfacente non è più un rapporto obbiettivo con il prodotto del lavoro ma la relazione soggettiva con l'ambiente dove si lavora, cioè praticamente con i dirigenti; o d'altra parte con il cliente.
Ecco questi due movimenti nell'esempio di un tentativo un po' alla Menenio Agrippa, di riaffermare il rapporto con il prodotto (da una pubblicazione annuale della General Motors):
I nostri lavori (iobs) sono importanti
Oggi ci sono in giro per le strade oltre 15 milioni di automezzi con ingranaggi Saginaw. Circa due milioni se ne aggiungono ogni anno. Il benessere, e persino la vita, degli autisti e dei passeggeri sono nelle nostre mani — molte delle parti che noi fabbrichiamo sono vitali alla salvaguardia del veicolo. Consideriamo soltanto la parte che vien fatta nell'officina 1 (e qui segue la descrizione e il disegno di un congegno di trasmissione, e vien sottolineata l'importanza della sua fun-
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zione) ...Se questa parte cedesse, l'autista perderebbe completamente il controllo della guida.
Ecco alcune persone che sono state responsabili di questa parte negli ultimi anni: Bill Yarmuth, Fred Webster, Leo Poma (e un'altra quarantina di nomi).
La gente che usa auto con le nostre parti, ripone gran fiducia in queste persone... Tale fiducia deve essere giustificata. C'é un solo modo di fare il proprio lavoro, ed é di farlo bene.
Apparentemente allora qui il rapporto si dovrebbe ristabilire: l'operaio viene informato della portata del suo lavoro. Ma nt n é l'operaio uomo, con la sua intenzione e decisione sociale — e dovremmo dire: politica — di lavoro, é l'operaio-ruolo, che entra nel rapporto. E quest'importanza del ruolo viene accentuata all'assurdo, in un caso che riferisce il professor Hughes, dell'Università di Chicago: una, ventina di operai hanno il compito di sorvegliare un'enorme macchina, che fa tutto da sola. Il loro lavoro, perfettamente uguale per tutti 20, non richiede nessuna capacità o conoscenza, e neppure sforzo fisico, solo una certa attenzione. Malgrado l'assoluta identità dei loro compiti, fra queste 20 persone viene creata una gerarchia fittizia, di « personaggi » : chi é al posto A ha il ruolo inferiore agli altri — ma dopo qualche tempo potrà venir passato al posto B, e allora sarà considerato un po' di più — fino a quando, avvicinandosi al posto Z, potrà ritenere di accedere a una vera e propria aristocrazia operaia; pur compiendo esattamente lo stesso lavoro di quando era in A.
Non son tutte qui, certo, le «Human Relations »; né nelle manate amichevoli agli operai; né nelle visite alla fabbrica delle famiglie dei dipendenti (che costoro possano dire: «ecco, questa é la macchina che io maneggio »...). Già molto più utile è tutto ciò che serve a far conoscere a tutti, il congegnarsi dell'organizzazione amministrativa e produttiva, per esempio. E mille altre trovate ed espedienti, che servono a rendere più sopportabile ed umana la condizione operaia; che ne ha bisogno. Il loro senso positivo é nel comporsi e formularsi di un atteggiamento, di un costume, di un galateo. Ma che non diventi sistema, che non voglia impostare i rapporti di lavoro su di un piano psicologico, sul mito della « presa di coscienza », mentre questi si effettuano ancora su di un piano di potenza.
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Che un'abile politica industriale riesca a convincere l'operaio dell'importanza del suo lavoro, non muterà la semplice realtà del fatto che il lavoro del singolo operaio non é importante. Qualunque sia la coscienza che se ne possa assumere. Il taylorismo, pur con i suoi eccessi e le sue astrazioni, rispecchiava fondamentalmente una situazione reale. Convalidava in formule e sistema la già avanzata abolizione di ogni iniziativa e responsabilità dell'operaio, chiuso nell'organizzazione industriale. Ed é probabile che lo stesso stacanovismo, per quegli aspetti che attribuiscono un'iniziativa organizzativa all'operaio, sia relativo solo a uno stadio giovanile dello sviluppo industriale. Col grado attuale di divisione del lavoro é illusorio tentar di ristabilire un rapporto diretto del singolo operaio con il prodotto del suo lavoro. Non é per tali vie, di consapevolezze o persuasioni o informazioni, che si riscatta l'alienazione e ripropone un equilibrio. L'economia contemporanea non distingue più i singoli oggetti o i singoli lavoratori, distingue una classe produttrice e la produzione. E fra classe produttrice e produzione che va riallacciato un rapporto. Il quale non potrà essere ovviamente un rapporto tecnico ma un rapporto giuridico e politico. E politicamente che essere operaio é importante, non tecnicamente.
È la politica stessa, del resto, nel suo senso moderno, cioè di intervento dell'economia (del lavoro) nella vita dello Stato, che si può dire esser nata con tale funzione. Si presenta cioè a ristabilire sul piano pubblico il rapporto fra produttore e destino sociale del prodotto, quando la divisione del lavoro a livello industriale rende impossibile il precedente rapporto morale e tecnico.
Inutile dire che invece le « Human Relations » spoliticizzano la posizione del lavoratore: si, tornato a casa, nessuno potrà impedire al lavoratore di far della politica, di votare per il partito che gli pare e piace. Ma in tal modo, trasferita fuori dell'ambiente di lavoro, cioè del solo luogo dove l'individuo possa verificare la propria realtà sociale, l'opzione politica viene privata del suo mordente, isolata nei limiti dell'« opinione », cioè di un atteggiamento astratto, irresponsabilizzato, soggetto ad influenze di facili propagande, di valori costituiti; scalzato dai problemi e dalle lotte di una situazione precisa, ben conosciuta dal lavoratore.
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ALESSANDRO PIZZORNO
A questo punto l'analisi della situazione industriale si deve connettere alla situazione politica complessiva, per esserne chiarita e per chiarirla a sua volta. Né, nel nostro caso, é senz'altro dato di definire tutta questa recita ideologica come un mascheramento, o una mascherata: mentre il taylorismo corrispondeva all'assestamento della borghesia capitalista e alla organizzazione delle sue conquiste interne, le « Human Relations » corrisponderebbero al ritrarsi e al difendersi di essa borghesia, che si copre ed elude il problema grazie ad un'ideologia psicologistica. Siamo sicuri che dietro a questa scena esistano veramente delle onnipotenti « coulisses »? O che non si versi tutta in questo gioco di rapporti sociali, la realtà del sistema economico ? Ma già il porre questi interrogativi deve significare un superamento delle concezioni implicite nella sociologia industriale delle « relazioni umane ». La quale ritiene che i problemi del lavoro si riducano esclusivamente a problemi di rapporti fra le persone che lavorano; e ricompone cosí quel circolo che avevamo scoperto implicito nell'atteggiamento industriale : di persone che restano al di qua di un ambiente, senza che il loro lavoro intenda esserne la trasformazione e il superamento. Ma non é fatta di uomini che « stanno insieme », una società, bensì di uomini che lavorano insieme a trasformare la natura, l'ambiente (e a comporlo in «mondo »).
ALESSANDRO PIZZORNO
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1954 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 8
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1954 - 5 - 1 - numero 8


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