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tipologia: Analitici; Id: 1472307


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Tipologia Periodico
Titolo Jacques Howlett, I comunisti e la lotta contro il colonialismo
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Howlett, Jacques+++
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I COMUNISTI E LA LOTTA CONTRO IL COLONIALISMO
« Il colonialismo, questa vergogna del XX secolo)): questa formula, pronunciata molti anni or sono dal leader comunista Jacques Duclos, chi oggi, in un modo o nell'altro, non la riprende e fa propria? Persino un segretario di stato britannico alle colonie, A. Creech Jones, dinnanzi all'anacronistico colonialismo e alle rivendicazioni autonomistiche dei popoli coloniali preconizza (1) delle forme nuove : forme certo liberali, ma che tendono a utilizzare « i nazionalismi come altrettanti fattori costruttivi fino a quando i popoli potranno assolvere da loro stessi i compiti di governo ». Un protestante, L. Joubert, che critica (2) i metodi di colonizzazione europei, americani e sovietici, pone innanzi l'idea d'incontri umani tali « che ciascuno possa divenire il prossimo di ciascun altro ». Un- nordafricano, R. Emsalem, constata (3) anche lui che il fenomeno coloniale é « in via di dissoluzione ». Un collaboratore delle riviste Esprit e Temps Modernes, Francis Jeanson, liquida (4) tutta l'opera colonialista come quella che all'origine non é altro che « uno sfruttamento di' tipo capitalista intrapreso su larga scala e in condizioni particolarmente favorevoli per quanto concerne la mano d'opera ». Il settimanale L'Observateur d'aujourd'hui, diretto da Claude Bourdet, non s'esprime diversamente sul fondo dlella questione. Insomma, in modi assai diversi, modi freddi o indignati, e che vanno dall'appello alla ragione pratica alle «buone ragioni» degli utilitaristi o alla Ragio-
(1) « Mondes d'Orient », aprile 1951.
(2) « Le Monde non chrétien », luglio-settembre 1950.
(3) « Conscience algérienne », n. 2.
(4) « Mondes d'Orient », giugno 1951.
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ne tout-court, il processo al colonialismo si rinnova ogni giorno. Processo a proposito del quale vogliamo qui ricordare i nomi di coloro che in Francia hanno voluto sostenere con la loro autorità gli sforzi di una rivista come Présence Africaine, destinata precisamente a denunciare gli abusi del colonialismo : A. Gide, J. P. Sartre, E. Mounier, A. Camus, R. Wright, P. Naville, M. Leiris, R. P. Maydieu, P. Rivet. Ma resta il fatto che l'accusatore potente, metodico ed efficace, quello che all'occasione sa anche indignarsi liricamente (5), ma che non cessa mai d'agire, quello per cui «la vergogna del XX secolo )) non é soltanto cattiva coscienza, è il partito comunista. Esso pub servirsi, contro il colonialismo, di una base teorica solida, e i suoi militanti agiscono dappertutto, sia oltremare che nel territorio metropolitano. Nostro argomento, pertanto, saranno innanzitutto le basi teoriche del marxismo per quanto riguarda la questione coloniale; poi studieremo certi aspetti della penetrazione comunista in questo campo; ed esamineremo infine le maggiori difficoltà che tale penetrazione incontra nei paesi colonizzati (limitando tuttavia la nostra analisi, in via generale, ai soli territori di quella che in Francia chiamiamo Africa nera).
Karl Marx non ha scritto alcuna opera sul problema specifico del colonialismo; ma scrisse due articoli nella « New York Tribune » del 25 giugno e 8 agosto 1853 sulla dominazione britannica in India, articoli nei quali si trovano già quelle idee essenziali che saranno più tardi sviluppate da Lenin.
Questi due articoli, pochissimo conosciuti, testimoniano d'una presa di coscienza assai approfondita dell'infelice stato dei popoli colonizzati, che per opera dell'uomo bianco son rimasti tagliati fuori dalle loro basi sociali e culturali tradizionali : « L'Inghilterra ha demolito tutto l'edificio della società indù, senza che possa
(5) V. il bellissimo Discours sur le colonialisme di Armi C sAsxs. Ed. Réclame, Paris 1950.
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ancora scorgersi alcun indizio d'una organizzazione nuova. Questa perdita del vecchio passato non essendo stata caratterizzata dalla conquista di un mondo nuovo, l'attuale miseria degl'Indù è caratterizzata da una specie particolare di malinconia; l'Indostan sotto dominazione britannica é separato da tutte le sue antiche tradizioni e da tutto il suo passato storico ».
Un'altra idea importante espressa in questi articoli é quella del rapporto tra la liberazione dei popoli colonizzati e la rivoluzione proletaria in territorio metropolitano. « Gl'Indù — scrive Marx — non potranno raccogliere i frutti di quei semi d'una società nuova che la borghesia inglese ha sparso tra di loro, finché nella stessa Gran Bretagna la classe dominante non sarà stata scac- ciata dal proletariato industriale, o finché gl'Indù stessi non saranno divenuti abbastanza forti per scuotere una volta per tutte il gioco inglese ».
Infine Marx enuncia la legge economica che é alla base delle atrocità del colonialismo : queste atrocità « non sono che il prodotto organico dell'insieme del sistema attuale di produzione. Questa produzione riposa sulla supremazia del capitale. La concentrazione del capitale é essenziale all'esistenza del capitale stesso in quanto potenza autonoma. L'effetto distruttivo di questa concentrazione sui mercati del mondo non fa che svelare, in proporzioni gigantesche, le leggi organiche immanenti all'economia politica quali agiscono oggi in ogni città del mondo civilizzato ».
Marx riconduce in questo modo l'essenza dell'imperialismo al semplice fatto economico, e liquida con ciò implicitamente, ma definitivamente, tutte le buone ragioni invocate dal liberalismo per giustificare la colonizzazione : superiorità razziale, vocazione provvidenziale dell'uomo bianco, pseudo-argomenti scientifici tratti da Darwin (6), politica di prestigio, obbligo d'ordine morale, ecc.. .
Un'analisi dell'imperialismo é stata condotta anche da scrittori borghesi come Charles A. Conant in T he Economic Basis of Imperialism (1898) e soprattutto dall'inglese J. A. Hobson in
(6) V. PEARSON, National life from the standpoint of the Science (1900).
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Imperialism (1902). Lenin conosceva l'opera di Hobson, e, pur riprovando il suo punto di vista « social-riformista borghese », riconobbe che essa offriva « una descrizione eccellente, circostanziata, dei principali caratteri economici e politici dell'imperialismo » (7).
L'analisi sistematica dell'imperialismo, e quindi la sua condanna scientifica, Lenin l'intraprese nell'opuscolo intitolato « L'Imperialismo, stadio ultimo del Capitalismo », scritto -a Zurigo nel 1916. L'imperialismo é legato a un'evoluzione del capitalismo per cui quest'ultimo, nel XX secolo, passa dalla stadio dell'esportazione delle merci a quello dell'esportazione del capitale. Vediamo infatti, nei primi anni del secolo, stabilirsi nel mondo la preponderanza monopolista di alcuni paesi ricchi, come la Germania, l'America del Nord, l'Inghilterra. I monopoli (cartelli, sindacati, trusts) appaiono in questa fase recente dello sviluppo del capitalismo, fase che é caratterizzata anche dall'altro importante fenomeno della progressiva concentrazione bancaria. Prodottosi così un enorme eccedente di capitali, i capitalisti aumentano i propri benefici esportando tale eccedente all'estero, nei paesi arretrati. L'esportazione dei capitali é, insieme con i monopoli, una base essenziale dell'imperialismo. È così, continua l'analisi di Lenin, che prima della guerra (1914-18) i capitali investiti all'estero dai tre principali paesi (Inghilterra, Germania, Francia) ammontavano già a 175-200 miliardi di franchi, i quali, al tasso modesto del 5 0/e, dovevano fruttare 8-10 miliardi all'anno. E Lenin aggiunge : « Ecco una solida base per l'oppressione e lo sfruttamento imperialista della maggior parte dei paesi e dei popoli del mondo, per il parassitismo capitalista d'un pugno di Stati opulenti » (op. cit., p. 168).
L'imperialismo, insomma, corrisponde allo stadio monopolistico del capitalismo; e Lenin riassume così i suoi caratteri fondamentali
(7) LENIN, L'impérialisme stade supérieur du capitalisme, p. 2. Testi riuniti in: Données complémentaires à l'impérialisme di E. VARGA et L. MENDELSOHN. Editions Sociales, Paris 1950.
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1) concentrazione della produzione e del capitale a un grado tale da provocare la formazione dei monopoli;
2) fusione del capitale bancario industriale;
3) esportazione di capitali;
4) formazione di unioni internazionali capitalistiche e monopolistiche, che si spartiscono il mondo;
5) spartizione territoriale del globo da parte delle maggiori potenze capitaliste.
Ma il capitalismo generatore dell'imperialismo « agonizza », poiché, attraverso il sistema dei trusts, esso conduce alla socializzazione della produzione. A questa necessaria « agonia » del capitalismo la pratica marxista contribuisce incitando alla liberazione politica dei popoli colonizzati. In « Il socialismo e la guerra », Lenin difende il diritto dei popoli arretrati a disporre di se stessi; e Stalin, nel 1913, precisa questa politica di liberazione : « La rivoluzione d'ottobre — egli scrive (8) — ha scosso l'imperialismo non soltanto nei territori metropolitani, ma anche nei paesi coloniali e dipendenti, minando colà la sua dominazione. La liberazione del proletariato è per sua essenza universalista, e il proletariato non pub liberarsi senza con ciò stesso liberare i popoli oppressi ». V'è del resto, continua Stalin, più di un'analogia tra il proletario e il colonizzato : l'uno e l'altro si trovano in una posizione di dipendenza, l'uno e l'altro producono ricchezza senza tuttavia goderne, l'uno e l'altro appartengono alla classe oppressa.
Così « la Rivoluzione d'ottobre inaugurato un'epoca nuova,
l'epoca delle rivoluzioni coloniali nei paesi oppressi del mondo, in alleanza con il proletariato, sotto la direzione del proletariato ». La leggenda secondo cui il mondo sarebbe diviso in razze inferiori e razze superiori, in neri sfruttati e in bianchi sfruttatori, questa leggenda é rifiutata in blocco. La teoria staliniana afferma che « i popoli non europei affrancati, tratti sulla via dello sviluppo sovietico, non sono meno atti dei popoli europei a far progredire la cul-
(8) 11 carattere internazionale della Rivoluzione d'Ottobre, Pravda 5, 7 novembre 1927.
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tura e la civiltà in ciò che la cultura e la civiltà hanno di veramente progressivo ».
Qual é il processo di liberazione dei popoli oppressi? Bisogna partire dalle due tesi seguenti (9). Da una parte, la lotta rivoluzionaria condotta dai popoli oppressi contro l'imperialismo è il solo mezzo che essi hanno per liberarsi dall'oppressione e dallo sfruttamento : la crisi del capitalismo nascerà da questi movimenti di liberazione. D'altra parte, un fronte comune di lotta contro l'imperialismo dev'esser formato dai movimenti proletari dei territori metropolitani e i movimenti di liberazione dei territori coloniali; la vittoria non sarà possibile senza questo fronte comune, e questo fronte non potrà formarsi senza l'appoggio dei movimenti coloniali di liberazione da parte del proletariato metropolitano. Quest'appoggio deve consistere nella rivendicazione, nella difesa e nell'applicazione di quella parola d'ordine che è data dal diritto delle nazioni a separarsi e ad esistere come stati indipendenti. Altri~tnen-ti, sarebbe impossibile di organizzare l'unione e la collaborazione delle nazioni in una economia mondiale, unica base materiale della vittoria del socialismo.
Partendo da questa base teorica, Stalin denuncia due errori politici : da un lato « lo sciovinismo metropolitano » di coloro (i socialisti) che non vogliono appoggiare la lotta condotta dai popoli colonizzati per darsi uno stato; e dall'altro la tendenza, presso i popoli colonizzati stessi, a confinarsi nel loro quadro strettamente nazionale, nel loro particolarismo. Lenin — citato a questo proposito da Stalin — aveva ben visto il legame dialettico che unisce queste due posizioni apparentemente contradittorie : nei paesi oppressori, gli operai difenderanno la libertà di separazione dei
paesi colonizzati, ché «senza di ciò non v'è internazionalismo )); nei paesi colonizzati, per contro, bisogna lottare « per l'indipen-
denza politica della nazione e per la sua unione con gli altri stati ». In ogni caso, bisogna lottare contro i ristretti punti di vista nazio-
(9) STALIN, Conferenze sui Principi del leninismo fatte all'Università di Sverdlov (aprile 1924).
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nalistici, contro l'isolamento e « per la subordinazione dell'interesse particolare all'interesse generale ». Per gli uni, dunque, lotta per la libertà di separazione; per gli altri, lotta per la libertà d'unione. «Nella situazione qual è, non può esservi altra via verso l'internazionalismo e la fusione delle nazioni » (10).
Stalin fissa con precisione e buon senso gli obbiettivi da perseguire per condurre i paesi colonizzati all'eguaglianza; bisognerà studiare la situazione economica e la cultura, sviluppare questa cultura, sviluppare l'educazione politica e associare quei popoli alle forme superiori dell'economia; bisognerà infine, organizzare la collaborazione economica tra i lavoratori delle nazioni arretrate e quelli delle nazioni progredite (11). Nel 1925, Stalin lancia la parola d'ordine : « Bisogna proletarizzare le regioni coloniali », cioè svilupparne l'industria, creatrice d'un proletariato forte e cosciente, capace di trascinare le masse. Nelle zone d'influenza capitalista, gli stessi imperialisti sono condotti a sviluppare l'industria dei paesi da essi dominati, avviando così la liquidazione delle antiche strutture sociali e aiutando, loro malgrado, l'ascesa del proletariato. Così la crisi rivoluzionaria guadagna terreno nelle colonie.
Quali che siano i processi che hanno condotto a queste crisi nei vari paesi colonizzati, non si pub dire che, dal 1925 in poi, gli avvenimenti abbiano smentito i dottrinari della rivoluzione comunista. Attualmente, nei paesi colonizzati (sia d'Africa che d'Asia), noi stiamo infatti assistendo non già soltanto a un risveglio dei nazionalismi, ma alla loro violenta affermazione. V'è un'idea, d'altra parte, che s'è ormai bene affermata, ed è quella della fine dell'epoca coloniale almeno nella sua forma classica. Come osserva
(10) LENIN, Bilan de la discussion sur le droit des nations d disposer d'elles-mêmes, citato da J. STALIN, in Le Marxisme et la question nationale et coloniale, p. 187. Editions Sociales, Paris 1950. V. anche, STALIN, Des taches politiques de l'université des peuples d'Orient, dove si denunciano due deviazioni possibili per quanto concerne la questione coloniale: 1) il semplicismo che non tiene conto delle particolarità proprie a ciascun popolo; 2) il nazionalismo che le esagera.
(11) De la façon de poser la question nationale, 1921.
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uno scrittore che non pub esser sospettato d'obbedienza comunista (12) : « Non è più il tempo in cui si poteva discutere dei meriti o dei demeriti degli imperialismi. Quali che siano le nostre idee su questo argomento, siamo obbligati a riconoscere che l'imperialismo è una formula tramontata ».
C'è una vasta zona sulla quale la stretta imperialista è ancora potente, e nella quale, d'altra parte, le esigenze liberatrici sono ancora sporadiche ed inefficaci : é l'Africa Nera francese (Africa Occidentale Francese, Africa Equatoriale Francese). È certo tuttavia che la dottrina comunista, — in quanto mette l'accento sulla liberazione degli sfruttati — trova in queste regioni l'adesione, se non delle masse contadine che, prive corne sono d'informazione, mancano dell'attrezzatura intellettuale necessaria per accedere alle ideologie occidentali, almeno di una parte dell'élite operaia e intellettuale. Quanto all'opera che il partito comunista effettivamente svolge in questi paesi, è difficile precisarla. Evidentemente, il partito ha laggiù i suoi osservatori e i suoi militanti, ma questi non possono agire che nella misura in cui riescono a passare inosservati, poiché l'Administration d'Outre-Mer, oltre a guardarsi dall'inviare in colonia della gente sospetta di appartenenza al P. C. o di viva simpatia per esso, provvede sempre con sollecitudine a rispedire in territorio metropolitano coloro che, riusciti a passare attraverso le maglie della rete, manifestano poi laggiù troppo apertamente le loro opinioni (come accadde qualche tempo fa, nel Senegal, a un insegnante, il quale fu letteralmente « prelevato » da casa sua e rispedito in aereo a Parigi).
Nel territorio metropolitano, per contro, l'attività d'informazione svolta dal partito comunista è assai intensa; essa riguarda, tra l'altro, gli abusi dell'amministrazione, lo sfruttamento delle masse indigene e il loro basso livello di vita, la mancanza di libertà
(12) V. ANDRÉ JULIEN, Impérialisme économique et impérialisme mondial, in « Chemins du Monde: Fin de I'ère coloniale? », 1948.
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individuale, le questioni culturali. Degli spunti polemici che la situazione dell'Africa Nera offre a questa propaganda, ci si può fare un'idea esaminando le severe critiche rivolte alla situazione stessa da osservatori anche non impegnati politicamente. Così, J. A. Noon (13) nota che « gli europei, appropriandosi di vaste porzioni del continente, hanno limitato la quantità di terre di cui gli agricoltori indigeni possono disporre, ed hanno così costretto larghe masse indigene ad accettare ogni specie di lavoro senza possibilità alcuna di protestare per l'irrisorietà del compenso ». William Top (14) ci informa dei minimi salariali ufficiali (e la maggior parte dei lavoratori è realmente retribuita secondo questi minimi) stabiliti nei vari centri per una giornata lavorativa di otto ore : Dakar, Fr. 165; Bamako, Fr. 90; Conakry, Fr. 114; Abidjan, Fr. 100; Niamey, Fr. 60; Lome, Fr. 95. Questi minimi, come si vede, decrescono a misura che ci si spinge nell'interno del continente; essi non concernono, d'altra parte, che il lavoro stabile, e dei minimi ancora più bassi sono talvolta fissati per il lavoro stagionale. (A Parigi, alla stessa data, il minimo salariale garantito era di Fr. 696 per una giornata di otto ore, in ragione di Fr. 87 all'ora). William Top conclude che « la condizione di quei lavoratori è quella del miserabile », (( l'insicurezza é totale ... Il debolissimo tasso dei salari consente ai lavoratori non specializzati delle città di parare appena alle necessità più urgenti. Questo proletariato vive miseramente in baracche e in tuguri; non ha incenti-ri per un lavoro assiduo; e perde inoltre anche quella sicurezza che gli era fornita dalla solidarietà tribale ... ». Notiamo, d'altra parte, che questi africani salariati non sono ancora che una minoranza; nel Senegal, per esempio, su una popolazione che si faceva ammontare nel 1950 a 2 milioni di unità (tra cui 30.000 europei), non ci sono che 71.300 salariati (impiegati, operai specializzati, manovali; cifre del 1947); nella Guinea, su una popolazione di 2 milioni, 44.000 salariati; nella Cóte d'Ivoire, su 2 milioni, 80.000 (1947);
(13) La mécanique des bas salaires en Afrique Noire, « Présence Africaine », n. 13, 1952.
(14) La valeur du travail des salariés africains, « Présence Africain », n. 13, 1952.
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nell'A.E.F., su 4 milioni, 150.000 (1949). Il resto della popolazione, che vive della terra, in un certo senso é ancora più esposto agli abusi dei coloni e dell'amministrazione (requisizioni, lavoro forzato).
Perché questa miseria? domanda il comunista. Il suolo e il sottosuolo africani sono dunque così poveri? Gl'indigeni così incapaci? Niente affatto. Cosa son venuti dunque a fare i bianchi in questi paesi? Nient'altro che a far danaro il più rapidamente possibile, per poi andarsene. Ciò che loro importa non è, perciò, di organizzare la produzione e di sviluppare razionalmente le ricchezze del paese. Come scrive il prof. Jean Dresch : « L'economia africana è ancora soprattutto un'economia di tratta » (15). L'europeo si contenta di drenare i prodotti, di ammassarli, e quindi di trasportarli dalla costa in Francia. In cambio, egli introduce nel paese degli oggetti fabbricati : cotonate, chincaglieria, sigarette, alcoolici, biciclette, ecc. Queste operazioni s'effettuano in comptoirs e in centri d'immagazzinaggio che appartengono a potenti società metropolitane : la C.F.A. (di Marsiglia), i cui comptoirs dominano la zona che s'estende da Dakar al Congo Belga; la S.C.O.A. (società commerciale dell'Africa occidentale, con interessi che fanno capo a Lione e in Isvizzera); le società bordolesi Maurel & Prom, Peyrissac, ecc., e le filiali del trust Unilever. Una delle conseguenze di questa « economia di tratta » è che le società commerciali interessate reinvestono una parte ridottissima dei loro benefici : ciò che esse cercano sono dei profitti immediati senza importante impiego di capitali, ed è per questo che la produzione industriale é così debolmente sviluppata in A.O.F. e in A.E.F. « Dei 27 miliardi di franchi investiti da privati nell'Africa Nera prima della guerra — nota il Dresch — ben 10,5 miliardi erano investiti in imprese commerciali, contro 4,9 miliardi nelle piantagioni, 3,383 in imprese industriali, e appena 2 nelle miniere n (16).
(15) V. Le colonialisme économique en Afrique Noire, « Le Musée Vivant u, n. 36-37, Paris 1948.
(16) Les trusts en Afrique Noire, « Servir la France n, aprile 1949.
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Del resto, laddove esiste, l'industrializzazione non é concepita che in funzione dei bisogni metropolitani, e non come fattore d'arricchimento e di liberazione della colonia.
Nell'Africa Nera, insomma, tutto é sacrificato all'esportazione, e nessuna accumulazione di capitale è possibile. « Le condizioni per l'accumulazione di capitali necessaria allo sviluppo dei trasporti, delle comunicazioni e dei lavori pubblici, non esistono, talmente il paese dipende dal capitale esterno e dai servizi e dai mezzi tecnici importati» : tale é la conclusione del « Rapporto sulla situazione economica dell'Africa » pubblicato nel 1951 dall'O.N.U.
Per comprendere la questione culturale quale si pone nell'Africa Nera, e qual é vista dal comunismo nella sua denuncia di certe forme dell'oppressione colonialista in questo campo (17), dobbiamo porre in luce il carattere particolare che assume colà il colonialismo francese. Questo pub certo, all'occasione, assumere delle forme aggressive, ma la sua forma più generale é quella paternalista : forma non meno pericolosa delle altre. Il pregiudizio razziale, per esempio, non ha assunto nell'Africa Nera francese quegli aspetti patologici che ha potuto avere ed ha ancora negli U.S.A. Ma v'è una sufficienza occidentale che non val meglio, in fondo, della psicosi americana. Educato da sempre all'idea della sua incontestabile superiorità (superiorità di diritto divino o superiorità in nome della Ragione, perché la Ragione é bianca e il trascendente ha i colori temperati dell'Ile-de-France), il bianco europeo ha per troppo tempo votato il negro al prelogismo, alla mentalità primitiva. Di questo atteggiamento resta ancora qualcosa : l'uomo bianco colto non sa che condiscendere. Quanto all'uomo della strada, esso conosce il negro attraverso una iconografia tramontata ma vivace
(17) V. PAUL VERGES, La question culturelle dans les pays coloniaux, «La Nouvelle critique », marzo 1950.
(18) Stalin, nel 1929, dichiarava che: « la politica di assimilazione é assolutamente esclusa dall'arsenale del marxismo-leninismo, in quanto politica antipopolare e controrivoluzionaria, in quanto politica funesta ». Le Marxisme et la question nationale et coloniale, Editions Sociales, 1950, p. 260.
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che fa del Noir l'emblema sognato delle colazioni al cioccolato (« Y a bon Banania! ») o l'archetipo della sentinella-di-colore-fedelissima (« N'avancez pas, y en a sauvages! »), o ancora il buon figlio sottomesso del missionario barbuto. A questo proposito, basta sfogliare i numerosi « bollettini » (« La Voix du... » , « L'Evangile en... ») editi dalle Missioni. Si veda per esempio quella « Voix du Congolais » che nel numero di maggio-giugno del 1946 insegnava ai suoi lettori « come vivere sotto l'occhio dei nostri dirigenti »
La semplicità e la modestia sono le qualità del civilizzato. Se vogliamo guadagnarci la stima dei nostri dirigenti, dobbiamo restar semplici e modesti ». Lo stesso bollettino pubblicando (marzo-aprile 1947) una nota di cronaca sugli « evoluti », ornava l'articolo con una fotografia rappresentante una decina di giovani negri su uno sfondo di piante grasse, e sotto la dicitura : « Un bel gruppo di evoluti di Léopoldville ».
C'è un mito del negro che ossessiona le coscienze dei borghesi francesi. Io non credo che, tra costoro, l'idea del negro susciti aggressività; essa non scatena tempeste affettive simili a quelle suscitate dagli ebrei e dagli staliniani; ma questi ultimi, almeno, sono presi sul serio : li si teme, li si invidia, e se alcuni vorrebbero vederli morti ciò significa che essi esistono. Il negro, ed è questa la sua maggiore disgrazia, non esiste veramente; come le cose sensibili dell'universo platonico, le quali non esistono che in quanto partecipi delle idee, sole reali, così il negro non ha che un'esistenza relativa alla bianca Idea. Ê un'ombra, e noi siamo il sole. Ne segue che, se il comportamento del negro non s'inquadra nelle categorie del nostro intendimento, non si tratterà d'impotenza nostra, ma di assurdità sua : non saremo noi ad essere accusati d'incomprensione, ma lui ad esser qualificato di « primitivo ». (Bisogna tuttavia osservare che diversi occidentali di mente più aperta hanno superato questo razionalismo dommatico, e lo stesso Levy-Bruhl, nei suoi Carnets, abbandona onestamente la sua idea circa il carattere prelogico della mentalità primitiva; ma quest'idea s'é ormai molto radicata presso il gran pubblico).
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Date le condizioni di dipendenza dell'africano, si capisce che la teoria ufficiale dell'« assimilazione » venga respinta dai più coscienti, e che i comunisti, dal canto loro, non vedano in essa niente altro che una mistificazione. Il contatto tra popoli diversi— scrive Aimé Césaire — é fecondo in se stesso, ma è funesto e impossibile nel quadro della colonizzazione, poiché colonizzare non è civilizzare, ma « cosificare », ridurre a oggetto, a cosa : assenza di contatti umani, « rapporto di dominazione e di sottomissione che trasforma l'uomo colonizzatore in sorvegliante, guardaciurma, aguzzino, e l'uomo indigeno in strumento di produzione » (19). Per il colonizzato in posizione di dipendenza, dunque, non potrà mai trattarsi di « assimilare », ma di essere assimilato, al che egli si rifiuta con tutte le sue forze.
I comunisti si oppongono anche alla nozione di « négritude », sviluppata da J. P. Sartre in uno studio intitolato « Orphée Noir » (20). Uno dei leaders del Rassemblement Démocratique Afri-
(19) AIMÉ CÉSAIRE (deputato della Martinique), L'impossible contact in « Chemins du Monde» n. 5, 1948.
(20) Prefazione all'Anthologìe de la nouvelle poésie nègre et malgache de langue française di L. S. SENGHOR, P.U.F. 1948. Ecco lo schema di questo importante studio di Sartre:
Postulato fondamentale: il negro, proprio in quanto è negro, è « votato all'autenticità », e nelle sue rivendicazioni non potrà non tener conto della propria qualità di negro. Di qui i caratteri della sua presa di coscienza: urna presa di coscienza di razza, fondata mono sui caratteri obbiettivi della sua situazione (contrariamente a quanto accade per il proletariato bianco) che su certe qualità della sua anima: la « négritude ». Così il negro, negato dal bianco nella sua essenza più profonda, si vede costretto ad opporre al bianco stesso una più giusta visione della propria soggettività. E questa soggettività che si manifesta nella poesia negra; ed è la « négritude », ormai pensata più che vissuta — poiché il negro è passato per l'Inferno del mondo bianco, e non coincide più con se stesso — ad ispirare certi temi eternamente ricorrenti nella poesia negra: tali sono il tema dell'esilio, quello dell'Africa lontana, e quello — correlativo — del Ritorno al Paese Natale. Il canto dell'Esilio del poeta negro è quello di tutti i suoi fratelli oppressi.
Sartre cerca quindi di avvicinarsi all'essenza più profonda di questa « négritude ». Essa è, innanzitutto, un certo atteggiamento affettivo nei riguardi del mondo; è « l'essere-nel-mondo del negro ». Più precisamente, essa è comprensione per simpatia (un po' come l'intuizione bergsoniana, ma ben più violenta), ed è comprensione per amore: «Il Negro testimonia dell'Eroe naturale D. Essa procede dai misteri del sesso.
Essa è anche Passione; sebbene anti-cristiana, la « négritude » è un modo doloroso di caricarsi di tutte le sofferenze umane, ed è attraverso questa esperienza del dolore che la coscienza negra s'inserisce nella storia: nel passato, attraverso il suo passato di schiavitù; nell'avvenire, quando, in un rifiuto della sofferenza, nella rivolta, essa
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cain (R.D.A.), partito politico della Côte d'Ivoire simpatizzante con il P. C. F., Gabriel d'Arboussier, parla di questa nozione di <c négritude » come d'una « pericolosa mistificazione », d'un « mero tentativo di divisione » che ha per risultato di « giustificare il rifugio in una contemplazione estatica » (21). Anche un africano, Albert Franklin pensa che (( la négritude considerata come Essenza Negra é una pericolosa mistificazione », e vede nella teoria sartriana un mezzo per « separare i negro-africani dal fronte unito degli oppressi contro gli oppressori » (22). Da parte dei marxisti, la teoria in questione é evidentemente combattuta nella misura in. cui essa pub avere un'influenza pratica, nella misura in cui certuni possono servirsene per giustificare i loro atti politici.
In via generale, i comunisti affermano che la liberazione culturale dei popoli coloniali dev'essere realizzata nel quadro generale della loro liberazione nazionale, la quale a sua volta secondo Stalin, é « una parte del problema generale della rivoluzione proletaria, una parte del problema della dittatura del proletariato ». La questione culturale deve « essere considerata nel quadro della lotta antimperialista », e per conseguenza la cultura dei popoli colonizzati dovrà essere « una cultura nazionale quanto alla sua forma, antiin-perialista e democratica quanto al suo contenuto » (23).
Per quanto riguarda la questione dell'insegnamento nell'Africa Nera, i comunisti denunciano la politica seguita dal governo, che nel lontano 1906, per bocca del Congrès des Colons Algériens, già si precisava in questo modo : « Il Congresso, considerando che l'istruzione degli indigeni fa correre all'Algeria un vero pericolo, tanto dal punto di vista economico che da quello della sicurezza del gruppo francese, auspica che l'istruzione elementare degli indigeni
si propone un futuro e una meta. E allora che il cantore negro diviene un militante. Ma non un militante della « négritude », poiché Sartre mostra come questa giunga a superare se stessa per aprirsi sull'uomo: sull'uomo aldilà del proprio colore, nero o bianco.
Dunque la « négritude » è superamento, è amore, ed é per questo che, infine, essa è poema.
(21) «La Nouvelle Critique », n. 7, giugno 1949.
(2Z) « Réflexion sur Orphée Noir » in « Présence africaine »: Les Etudiants vous parlent, n. 14, Paris 1953.
(23) PAUL VERGES, articolo citato.
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venga soppressa » (24). E lo stesso Vincent Auriol dichiarava nel 1949: « C'è probabilmente bisogno di tecnici, c'è bisogno di diplomati, ma non createne troppi. C'è anche bisogno di capi-operai, ma non soltanto di gente che, avendo un diploma e non un impiego, sarebbe forse un elemento di agitazione » (25).
Le cifre ufficiali rispecchiano assai bene questa situazione. Se ïl piano d'investimenti per l'oltremare, nel 1946, prevedeva un 25% per la parte sociale, di cui il 10 % per l'insegnamento, nel 1949 queste cifre sono cadute rispettivamente al 18 e al 5%, il che, tenendo conto del calo del potere d'acquisto del franco dal 1946 al 1949, significa che i crediti per l'insegnamento sono stati ridotti nel 1949 ad un sesto di quello che erano nel 1946. Questa era dunque la situazione mentre, sui 17.000.000 di abitanti dell'Africa Nera francese, c'erano appena 100.00 bambini a scuola (26).
Parlando della questione dell'insegnamento nell'Africa Nera, non bisogna trascurare la parte importante che hanno in questo campo le missioni cattoliche. Lo sforzo dei missionari in tale campo é certo, ma non bisogna attenderci da costoro che contribuiscano all'emancipazione politica degli africani, e neppure alla loro emancipazione intellettuale. Si tratta innanzitutto di evangelizzazione : e se degli onesti cristiani, qualche volta, levano la voce contro abusi troppo sfacciati, nessuno di loro osa mettere veramente in questione le basi stesse del sistema coloniale. Se ne trovano ancora, anzi, di quelli che, partendo da Aristotele e da San Tommaso, lavorano a dimostrare che « l'istituto coloniale risponde a una tendenza naturale e a un'esigenza della natura sociale dell'uomo », che « esso ha radice nel diritto naturale dell'uomo », (( ha fondamento in un certo bene comune », e « consiste nel diritto della Metropoli d'esercitare un'autorità, e nel dovere della Colonia di sottomettervisi P. I cristiani amano parlare ai negri d'un arricchimento della persona umana che si opererebbe nella Chiesa loro, ma amano molto meno — o non amano affatto — pensare che questo arricchimento
(24) Citato da Maghemout Diop, in « Présence Africaine », n. 14, p. 169.
(25) L'Echo d'Oran del 31 maggio 1949. Citato da Paul Verges, articolo citato.
(26) PAUL VERGES, articolo citato.
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possa cominciare a realizzarsi concretamente mediante un cambiamento delle strutture economico-politiche che fanno degli Africani dei colonizzati. Che cosa é più importante rispettare: la persona umana o l'autorità costituita? Troppo spesso i cristiani sacrificano quella a questa. Troppo spesso l'idea dell'ordine é preposta a quella della giustizia. È forse la giustizia, per non dir niente della carità, che presiede ancora alla divisione dei bianchi e dei negri sui banchi delle chiese d'Africa ?
Abbiamo esaminato alcuni problemi sui quali fa leva la critica comunista al colonialismo nell'Africa Nera. Possiamo ora osservare che questi tre fattori — 1) il forzoso stato di dipendenza delle masse indigene, 2) il loro basso grado di istruzione, 3) la debole industrializzazione del paese — costituiscono altrettanti impedimenti che rallentano la penetrazione comunista tra gli Africani. Il solo paese dell'Africa Nera francese in cui sia esistito un partito politico apparentato a quello comunista é la Côte d'Ivoire. Il partito in questione é il già citato R. D. A. (Rassemblement Démocratique Africain), il cui leader, Felix Houphouet, è un uomo potente e di grande prestigio morale nel suo paese. Ma nel 1947 i coloni, sostenuti dall'Amministrazione, cominciarono a provocare degli incidenti in serie che condussero ad arresti e a processi contro i militanti del partito, il quale fini per smembrarsi (27).
Oltre a questa attiva vigilanza del capitalismo, ed ai tre « fattori di rallentamento » già menzionati, esistono altre importanti ragioni che spiegano la lentezza della penetrazione comunista nell'Africa Nera. Le strutture sociali antiche hanno ancora una radice molto forte nella coscienza africana. Nell'africano — ci dicono gli etnografi — l'idea del lavoro é legata a quella del prestigio : « Lo sforzo di chi coltiva, e quello di chi danza in occasione d'una cerimonia religiosa, non sono molto differenti, poiché dal corretto a-
(27) V. Les Temps modernes, novembre 1951. D.O.C., Le procès des 400 noirs de Côte d'Ivoire.
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dempimento di questi compiti così eterogenei risulterà per colui che li adempie uno stesso beneficio: godere del prestigio dell'« uomo buono » che ha saputo nutrire il prossimo coltivando o che ha saputo, danzando, suscitare delle forze che tendono anch'esse ad assicurare la sussistenza della collettività » (28). Non v'è, per il negro-africano, un individualismo del lavoro; egli lavora per il proprio gruppo, per la propria famiglia. Nel suo proprio ambiente, dunque, il lavoratore non è un individuo alienato da se stesso, che abbia da opporsi a qualcuno che lo impiega o che lo sfrutta : egli rende un servizio alla sua famiglia, e magari a tutto il villaggio o a tutta la tribù. Su questo piano, il « valore-lavoro » é calcolato il più sovente in alimenti, distribuiti dal capo dei lavori (29).
Certo, queste osservazioni riguardano delle popolazioni ancora preservate dall'influenza europea; ma non può dirsi che queste strutture antiche, questa antica concezione del lavoro, siano completamente scomparse neppure tra i lavoratori della costa. William Top osserva che il sussistere degli antichi costumi, la solidarietà familiare che provoca il ritorno dei lavoratori dalle città ai loro villaggi all'epoca dei raccolti, limitano fortemente lë possibilità d'una estesa proletarizzazione dei lavoratori.
Questa proletarizzazione é assai importante per l'avvenire politico del paese; e la parte principale, in essa, dovrebbe essere assunta dagli operai dell'industria. Pierre Naville che ha studiato la struttura della popolazione africana dal punto di vista della trasformazione della popolazione attiva in popolazione salariata del tipo europeo (30) dà le cifre seguenti: nell'A.O.E. (cifre del 1947) la popolazione africana salariata é di circa 213.000 unità nelle principali industrie (miniere, trasporti e industrie di trasformazione). E questo il nucleo essenziale della nuova classe operaia, sebbene esso non rap-
(28) MICHEL LEIRIs, Modes d'expression de l'idée de travail. Si tratta dei Dogons di Sango (Sudan). « Présence Africaine », n. 13, p. 82.
(29) La notion africaine de travail di J. CL. PAUVERT, « Présence Africaine », n. 13. J. Cl. Pauvert, insiste anche sulle concezioni religiose che sono intimamente legate alla nozione africana del lavoro.
(30) Données statistiques sur la structure de la main-d'oeuvre salariée et de l'industrie en Afrique Noire, in « Présence Africaine », n. 13.
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presenti ancora che lo 0,2 % della popolazione totale. Per l'A.E.F. e il Cameroun, i salariati costituirebbero lo 0,3% della popolazione totale. La classe operaia africana, e in particolare i lavoratori dell'industria, non costituiscono dunque ancora che una piccola minoranza, e non ci si deve pertanto attendere che essi possano esercitare per ora una funzione politica importante. Non si deve neppure, tuttavia, dimenticarne l'esistenza: Pierre Naville ricorda a questo proposito l'esempio della Cina, che, con i suoi 400 milioni d'abitarti, non contava prima del 1940 che 2 milioni di lavoratori dell'industria.
Questa classe operaia africana non ha ancora raggiunto, probabilmente, un alto grado di coscienza di classe. L'attuale debolezza del suo sindacalismo è la prova migliore di questa mancanza di organizzazione professionale dei lavoratori. È chiaro che l'Amministrazione non incoraggia il raggruppamento sindacale di questi ultimi, ed anzi lo ostacola con decreti come quello del 17 agosto 1944, il quale riconosce, certo, la libertà sindacale, ma esige che i dirigenti possiedano dei certificati di studio che, a quanto abbiamo già visto circa l'organizzazione dell'insegnamento, risultano piuttosto problematici. La stampa specializzata è quasi inesistente. Ecco la ripartizione dei lavoratori per affiliazione sindacale, quale risultava nell'A.O.F. nel 1948 (31) :
Settore Pubblico Settore Privato Totale
C.G.T. 18.500 24.000 42.500
Autonomi 2.500 15.000 17.500
C.F.T.C. 1.500 7.000 8.500
C.G.T.-F.O. 1.000 1.000
Un totale, dunque, di 69.500 lavoratori sindacati su una popolazione di 232.000 salariati e su una popolazione complessiva di 16.000.000 di abitanti. Nell'A.E.F., su 190.000 lavoratori salariati
(31) PIERRE NAVILLE, Notes sur le syndicalisme en Afrique Noire, «Présence Africaine H, n. 13.
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nel 1949, non più di 8.000 erano sindacati. Quanto ai programmi rivendicativi dei sindacati africani, essi riflettono — osserva P. Naville — due tendenze assai nette : in base alla prima, si esige la parità di trattamento con gli europei e l'accesso agli stessi diritti; in base alla seconda, si esige piuttosto il riconoscimento di diritti specifici degli africani, indipendentemente dalla situazione dei bianchi. Delle due tendenze, la più forte è la prima. Così la Con f érence des Travailleurs d'Outre-Mer della C.G.T, che ha avuto luogo a Parigi nel 1951, ha chiesto l'estensione ai territori africani degli statuti applicati in Francia a tutti i dipendenti dello Stato, come pure l'uguaglianza tra lavoratori europei e lavoratori coloniali per quanto riguarda le assicurazioni infortuni, gli assegni familiari e la Previdenza Sociale.
E certo che il capitalismo europeo, necessariamente condotto a industrializzare i paesi d'oltremare, non potrà neppure impedire lo sviluppo del sindacalismo africano, la sua organizzazione e il formarsi della nuova coscienza delle masse proletarizzate come classe sociale. Quale che sia dunque l'attuale debolezza della classe operaia africana, pub dirsi che si va precisando un avvenire in cui essa potrà pretendere al suo riconoscimento in quanto tale.
Diciamo, per terminare, che nella preparazione di questo avvenire non si dovrà trascurare lo sforzo di una élite intellettuale africana che é certo ancora giovane e poco numerosa, ma forma una minoranza illuminata, molto compresa delle proprie responsabilità verso il paese e il popolo africano. Questa gioventù si istruisce nelle ,università del territorio metropolitano, conseguendovi i principali diplomi; se una parte di essa si prepara a dedicarsi, una volta tornata in Africa, a professioni liberali su un piano borghese, un'altra parte mette in primo piano il perseguimento di un ideale politico francamente rivendicatore e liberatore. Tra gli studenti africani della metropoli v'è completa unanimità sulla questione della lotta contro il colonialismo, ma, per quanto concerne i metodi di questa lotta, esistono due correnti (32): la cor-
(32) DAVID DIM', Etudiant africain devant le fait colonial, in «Présence Africaine », n. 14, Paris 1953.
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rente nazionalista e la corrente progressista. I progressisti, raggruppati nell'associazione degli studenti R.D.A., non separano la propria lotta da quella del proletariato mondiale e del partito che li rappresenta. I nazionalisti, senza sconfessare certe posizioni comuniste, si preoccupano tuttavia di porre in risalto certe differenze del loro atteggiamento di fronte al fatto coloniale. In un articolo il cui titolo è già un programma: u L'unica via d'uscita: l'indipendenza totale. Il solo mezzo: un vasto movimento d'unione anti-imperialista » (33), Maghemout Diop esprime nettamente queste distinzioni: l'unanimità circa l'anti-imperialismo non impedisce ai comunisti e ai popoli coloniali di avere atteggiamenti differenti di fronte al capitalismo. Gli obbiettivi immediati non sono gli stessi. Per i comunisti, la lotta essenziale è quella contro il sistema capitalista. Per
i popoli colonizzati, é quella contro l'imperialismo. In altre parole, mentre i comunisti preparano la rivoluzione sociale che conduce al comunismo, i yopoli coloniali mirano innanzi tutto alla rivoluzione nazionale.
In regime coloniale « la rivoluzione sociale non può in alcun modo essere anteriore alla rivoluzione nazionale ». Se dunque è vero che i popoli coloniali sono gli alleati naturali delle masse proletarie del mondo, è anche vero che molti africani distinguono accuratamente gli obbiettivi immediati dei primi da quelli delle seconde, e insistono sul fatto che l'alleanza in questione non dev'es- sere una dipendenza. Un pratico esempio di armonizzazione delle due tendenze, fuori dell'Africa Nera francese, è dato dal leader della Gold Coast, il dott. Kwane N'Krumah (34), la cui opera
(33) « Présence Africaine », n. 14.
(34) GEORGE PADMORE, The Gold Coast Revolution. The struggle of an african people from slavery to freedom. Un partito nazionalista denominato United Gold Coast Convention (U.G.C.C.) nacque tra gli intelletuali negri delta Costa d'Oro nel 1945; ma esso non seppe riunire le masse popolari e indirizzarne a fini pratici il malcontento finché, nel 1947, il posto di segretario generale non fu assunto dal dort. N'Krumah, di ritorno dall'Europa. Nacquero però anche, all'interno del movimento, dei dissensi che portarono alla sua scissione (1949) ed alla costituzione della sua ala sinistra in un nuovo partito, il Convention People's Party (C.P.P.), sotto la guida di N'Krumah. Il C.P.P. mise in programma la lotta per l'autonomia immediata del paese e invitò il popolo alla disobbedienza civile e alla non-collaborazione, ciò che portò all'incarcerazione
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è al centro delle discussioni tra le giovani élites di cui dicevamo. Ma queste discussioni, e il prestigio di quell'opera esemplare, non superano il ristretto cerchio di quei giovani intellettuali attualmente tagliati fuori dal loro ambiente. L'avvenire dell'Africa Nera francese potrà dunque esser segnato dalla loro presenza, ma é sulle basi determinanti dell'industrializzazione e della lotta sindacale che quest'avvenire sembra prepararsi più sicuramente.
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dei suoi capi. Ma la base tenne fermo e, alle elezioni del 1950, il successo del C.P.P. fu cosí vasto da preoccupare il Colonial Office, che fu costretto a liberare N'Krumah — ormai divenuto eroe popolare — ed a tollerarne la presenza alla presidenza del governo della Costa d'Oro.
 
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Data pubblicazione Anno: 1954 Mese: 5 Giorno: 1
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