Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: 126 FRANCO CAGNETTA I RICORDI DI ZIU ANZELU ZUDEU (ANGELO IL GIUDEO), PASTORE, CACCIATORE DI TESORI IN ORGOSOLO Mi chiamo Floris Angelo fu Carlo, nato ad Orgosolo il 1867, pastore. Questo é stato il mio primo mestiere. Ma il mio mestiere prefe- rito é stato, e sarebbe ancora, se l'età me lo permettesse, quello di andare a cacciare tesori. In tutta Orgosolo e campagna, tesori ce ne devono stare: a bizzeffe. Si dice, infatti, che in questo paese la prima popolazione fu Mongola e vi fu capitale con tante ricchezze: un milione di anni prima di Gesù Cristo. Ci sono qui tante torri dette Nuraghi che sono state abitate dai Signori. E i Signori non possono stare, e tanto meno vivere, senza i tesori. Ci sono grotticelle dette Domus de janas che devono essere state le case di certe antiche Signore. E come donne e Signore tesori di certo ne devono avere avuti. E pure lasciati nella casa. Ci sono pietre che sono dette Sepolturas de sos Gigantes. E per esser giganti, di tesori ne devono aver presi ed avuti: se no non si capisce che stavano a fare i giganti. Anche se il nostro paese é stato sempre povero e misero, per latitanti — grazie alla giustizia — é stato sempre ricco e grandioso. Questi latitanti tesori ne devono avere fatti: e come i peli delle pecore. Ci devono essere qui monete d'oro e di argento, perle, rubini e diamanti. In certi libri di storie ho saputo tutto questo. Me li avevano dati a leggere un prete e un soldato che queste cose le cercavano, e pure le sapevano. In campagna di tanto in tanto si trovano di certe pietre che devono essere preziose se i forestieri se le pigliano e le portano a Cagliari a museo e officina. Si trovano monete di pasta. E vasi di pietra. Ma, con tanti signori, ce ne deve pure essere stato qualcuno che ce li aveva d'oro.. Il tesoro dei ricchi e dei latitanti deve stare sepolto in"qualche parte: grotta, bosco o casa. Non resta che cercarlo per cambiare condizione. INCHIESTA SU ORGOSOLO 127 Ma prima voglio raccontarvi come era la mia condizione di pastore di Orgosolo, ai tempi miei. E voi direte che è meglio cercare tesori. Da quando ero nato, io, povero pastore orgolese, più che di uomo ero figlio di bosco e di pecara. In quell'età in cui avevo più bisogno di padre e di madre ero dovuto andare solo, infatti, in bosco; e quando avevo più bisogno di essere curato e nutrito, dovevo invece nutrire e curare qualche pecora che mi dava da mangiare. Come é orfano e figlio di patrigno e matrigna il pastorello! Quando era il tempo, il giorno di S. Andrea ossia 10 novembre, sino a S. Dionigi, 25 maggio, bisognava stare straniero in terra estranea. Andavo in Baronia, in terra di Nuoro, a territorio di Oristano: lontano per pagare a un signore il volere lavorare, e un poco d'erba. L'inverno, con il suo crudo si avvicinava. E veniva allora il tempo dei nostri peggiori patimenti. Pastore, piccolo o grande, andavo scalzo e nudo. Portavo un vestito che adesso descrivo. Avevo addosso tre o quattro pelli di pecora non conciate, legate a fili, e tenute per un buco ai bracci. Si diceva, sa mastruca. Sopra, un sacco di orbace nero con cappuccio: sa lapitta. Di sotto avevo una camicia bianca — e quando sporca nera — tutta arricciata. E i pantaloni larghi a mezza gamba, bianchi. Mutande niente: non se ne portavano. Ai piedi avevo sas peddes: un pezzo di pelle, la più dura parte di muflone, di cinghiale, di bue, di cavallo — che si teneva sotto i piedi; e una striscia lunga lunga non conciata, di bue, di volpe, di gatto, lo teneva stretto a gamba. I capelli li avevo lunghi a riccioli, a boccoli, a Nazzarena, con pezzi di lardo oppur di olio porcino nella testa. Era contro i pidocchi. Si tagliava solo nel carcere e: Tosau ses era un malaugurio. In testa avevo sa berritta, ossia berretto nero a calze, sardo. Quando pioveva io tutto mi bagnavo, e non c'era il cambio. Dovevo asciugarmi al fuoco o al sole. E, all'asciugarsi, le pelli al piede non conciate si indurivano e si facevano come ferro, impedendo di camminare, così che bisognava correre al fiume per ammorbidirle. Mi portavo addosso tutta la casa. E per 200, 300 chilometri, o piú. Letto: per terra. Cuscino: una pietra. Una pelle di pecora o di bue vuota, stretta alle zampe, per portare il latte. Per fare formaggio due 128 FRANCO CAGNETTA o tre vasi di sughero: sos malunes. Allora si riscaldava il latte con pietre arroventate. Poi questo é sparito e abbiamo avuto caldaie di rame. C'era pure qualche forma in legno di perastro per far formaggio, qualche fune e qualche mazza. C'era pure qualche oggetto di pastore come sa muria, ossia mazza per agitare il latte; su corcariu, ossia cucchiaio di corno e sa leppa, coltello. L'acciarino. E poi un archibugio, sempre questo, magari anche due. Il mangiare veniva quando veniva. Non c'erano ore di pasto e dure leggi, come a Fonni. Si mangiava ad avere tempo, fame. E man, giare, in primo. Di paese portavo qualche provvista di sale. E vino. Partito, non c'era né pane, né grano. Poco ce n'era o niente. Niente si comprava. Né si voleva. C'era solo latte cagliato, sa frue: a rotta di collo. Quando non potevamo più di questo latte inacidito prendevamo qualche pezzo di formaggio fresco e si arrostiva. Formaggio duro poco: se ne andava tutto per pagare il prezzo del pascolo. Carne ogni tanto ne buscavo: sempre pecore. Quando si poteva, sparando, buscavo anche un cignale. E ogni tanto si uccideva un agnello. Non come ora che ci pensano tanto. Questa carne era quasi sempre di pecora che moriva per conto suo: era carne che oggi i pastori dicono guasta. Ci aveva polmonite, malattia di intestini, carbonchio la pecora. Ci sono pastori antichi, come ziu Naniu Mina, che di questa carne gli piace ancora, e di più dell'altra: non mangerebbero che questa. Pipata, zigarro, poco si usava. O niente. Ben presto la neve cadeva e tutto sul pascolo stava, ora, un mantello bianco. La nostra casa, una grotta o una quercia bucata. Tutto il verde spariva per un mese, due. Allora il bestiame cominciava a tremarsi di freddo, e pure affamato. Correva a cerca di steli, di fronza, come anime dannate. Pecore si morivano nei precipizi chiusi per neve; nella piana si svenivano, pigliavano convulsione e il bianco mantello li copriva. Mi ricordo l'annata 1893 che vedevo il suolo, tratto a tratto, pieno di infelici cadaveri di pecore. Non c'era difesa che con il tagliar i rami e far fuoco, a volte incendiare tutto il cespuglioso e un bosco intero. Notti e notti restavamo all'aperto abbracciati con le pecore. Quando la pioggia cominciava e la neve spariva, gridavamo di gioia come i INCHIESTA SU ORGOSOLO 129 matti e cominciava primavera. Ma pur pericolo c'era ancora, ché il danno era stato brutto, e, in camminare, uccidevamo le erbe nuove e frescamente tenere, con danno. Veniva il periodo dolce, a noi amico, di acque e frasche. Ma presto veniva l'estate e, alla stagion di fuoco, la piana, per il bruciare, faceva orrore. Il sole, da noi si chiesto, da ora ci colpiva. Morivano k erbe. L'acqua si ritirava. Le pecore iniziavano a girar le teste, a cadere; ed il pastore si faceva triste e cominciava ad esser stanco. C'erano venti che portavano non il fresco ma freddo gelato. Cioè mali nuovi. La macchia e il bosco, per niente, se ne andavano in fiamme. E noi, mischini, con le pecore impaurite, scappavamo timorosi del nostro avere. E si saliva al paese, ad Orgosolo. Da S. Dionigi, 25 maggio, a S. Andrea, 10 novembre, c'era il pascolo comune, gratis. Era quello il tempo di famiglia, giusto e dolce. Si stava in casa, si lavorava, le mogli facevano i pastori nuovi. Poi presto tutto passa ed il fumo della terra ci diceva, maledetto! che è tempo di scendere e, vicino, nuovo tempo di neve. Le malattie di pecore erano molte. Ne ho conosciute troppe. E sempre. C'era la pecora zoppa, sa mussida ossia malattia di mammelle, il verme al cervello, sas ranas ossia malattia di fegato. La volpe. Sola difesa il coltello, il fucile, e qualche parola di fatturzu, ossia fattura e cioè sas presuras. In nome de Babbu mannu e de sos margianos torrimus bonos contos manzanu (*). Si usavano pure certi sacchetti, sas punzas, con qualche erba, o parola, o dente di serpe. Si metteva alla collana. C'era una malattia come una mela sul cervello, con tanta acqua che si faceva e bisognava levare piano piano quell'acqua col coltello, senza che l'animale morisse. C'era qualche specializzato o majariu ossia mago per questo. Il mio lavoro era lungo e sudato come quello dei pastori: il mungere, il formaggio, i1 castrare, il tosare, l'uccidere, il pulire. Non parliamo della guardia, giorno e notte, che era una tortura, contro le volpi, (*) In nome del gran Padre e delle volpi / ne terremo buon conto domani. 130 FRANCO CAGNEITA l'aquila e quella bestia più astuta e più di numero che é sempre iI ladro, tra noi. Fuor che i frutti di latte, formaggio, lana e carne (che pur ci ba- stavano in famiglia) il commercio era triste e quasi nulla si vendeva. Tutto era a cambia merce. Per andare a vendere qualche chilo di formaggio bisognava andare sino a Macomer e a Siniscola. E non si aveva neppure un soldo, ma 2 o 3 centesimi. Tante volte per abbuscare qualche soldo, al fine di comprarmi qualche zigarro o arma pure, mi é capitato di andare di casa in casa in tutto il vicinato e, dopo pure un mese, non sempre ci riuscivo. I rapporti tra noi pastori erano buoni e ci volevamo bene piú di adesso. C'erano omicidi, come adesso, per un odio, e per vendetta. Dieci o quindici all'anno. Ma questo é sempre stato. L'amicizia più universale del bestiame era ad Orgosolo che il padrone, ossia su mere dava a tenere il gregge ad un altro pastore o su cumpanzinu e questo a fine d'anno dava a lui la meta dei frutti, e si prendeva la meta del gregge poi cresciuto. C'erano pastari ché lo davano ad un terzo. I peggio trattati erano i servi, sos terraccos. Io lo ho fatto tanti anni. Ma il servo é tale fino a che, col suo coraggio, non si leva da questa schiavitù. Ci aveva solo un abito ogni anno, o due, dal padrone, e non prendeva in corpo che sa frue, e botte di fune e di cinghia. Certo i servi rubavano ai padroni e rubavano assai. Ciò che ci spingeva al furto era che dovevamo vivere senza frutto. Quando ero servo con gli altri servi ci invitavamo sempre, e a turno, a mangiare tutto alle spalle del padrone; e in belle notti, mangiando, si faceva tra noi qualche discorsetto di astronomia, o, attorno al fuoco, si pensava a che ancora, e bene, poter rubare. Anche i soci rubavano al padrone: e col mangiare solo sulla parte sua, e col diminuire il gregge a divisione finale. I padroni, poi, con tutti insieme noi, servi e soci, andavamo a rubare a gruppi in territorio di altrui, ossia a bardana. Ma di questo dirò più tardi, perché per ora voglio dire come cominciò a piacermi di cercare i tesori. E ho cominciato piccolo, all'età di 12 anni. Una volta, a 12 anni, ero servo porcaio di tale Serafino Manca, in INCHIESTA SÜ ORGOSOLO 131 Locoe. Stavo in un posto, « Orgoi », dove srdice che c'era un paesotto distrutto. Un giorno trovo un mattone, lo sollevo, e trovo due monete. Non di oro. Macché! Di pietra. Viene il padrone. E capita con un uomo molto vecchio, Battista Dejana, detto su Gre-h-u. Vado incontro e faccio vedere le monete. Ziu Battista Gre-h-u, che era molto vecchio, e ai suoi tempi aveva fatto la scuola spagnuola, sapeva leggere le scritture antiche: piglia le monete e dice: — Questa é di unu Duca che ha abitato in d'una grotta a monte Orulu. E questa é di unu Conte che stava in d'una stalla a Orgoi. Dunque, come sapeva tutto e con tutti era amico, ritornando in cammino in paese, dice che aveva un suo compare che possedeva un grande Libro del Comando, per comandare a tutti gli Spiriti e cercare su ussorgiu ossia tesoro. Dice: — Vado a questo compare e lo convinco a dare il libro, senza dir niente. Ci metteremo a cercare. Che il tesoro c'é. Appuntamento il venerdì. Quattro o cinque giorni dopo, quando aveva già il libro in mano, andiamo a cercare il tesoro e con mio fratello Antonio, che é venuto, tutta' la notte prima non abbiamo dormito. Il giorno fissato andiamo io e lui, il padrone Manca, e quel Battista Gre-h-u, che si era portato con sé pure un ragazzo, dicendo che era orfano, poveretto, e che si poteva tirare su con una piccola parte di tesoro. "`T' La sera restiamo a Orgoi. E come é nera notte, il ragazzo nuovo tiene il libro ed io un ramo acceso per fare luce a ziu Battista Gre-h-u, che leggeva, e tutti gli altri cominciano a zappare. Quando leggeva il libro io sentivo: « Io ti comando in nome di Dio, 'ustu est su veru, di stare lontano di me dal Diposito di Artiglieria e da tutta la Compagnia, lampu de unu boja, Tu sei angelo perduto, et cussu est pro unu omine bonu ». Quelli zappavano. Tiravano fuori mattoni. 132 FRANCO CAGNETTA Mattoni, mattoni. All'improvviso si sente un punto duro. Corriamo tutti e zappiamo: Era una pietra di mola di mulino, spezzata a due. E forse, pure, la ha rotta qualcuno di noi a piccone. Qua non si é trovato niente. E il vecchio ha detto: — Saltiamo dal confine del territorio di Orgosolo a quello di Olie- na. Forse 11 ci avremo più forza. — Poi ha domandato: — E le monete dove le avete messe? Se le aveva prese un fratello del Manca padrone, Giovanni Antonio. — No. No. No. Dice che servivano per spinzare, cioè messe a terra tutta la terra si frantumava in tante monete. Dunque il caso è successo che, non avendo moneta, non abbiamo trovato il tesoro. Io rimasi a custodia dei majali e gli altri se ne tornarono. Mi metto a cercare e trovo solo pietre. Mattoni e mattoni. Nella distrazione mi ho perso due maiali pure. Erano due o tre mesi che cercavo. La storia di s'ussorgiu, ossia tesoro, si sa nel paese di Oliena. E ziu Battista Gre-h-u organizza una combriccola con quegli olianesi. Ha pensato: Quelli di Oliena sono meno soggetti a1 diavolo tentatore di quelli di Orgosolo. Così ci avranno piú, forza. Vanno un'altra sera. Ed io vado a vedere. Ma mi hanno scacciato. Si sono messi a scavare e si dice che hanno trovato solo mattoni. Mattoni e mattoni. Trovano pure il resto della mola rotta, che era 11 rimasta. Ma a me la passione di cercare era ora venuta. Ci dovevano essere monete d'oro e d'argento, perle, rubini e diamanti. Una volta eravamo in tanti pastori. Si parlava di un tesoro lasciato dai Latitanti in una grotta del Sopramonte. Chi diceva che era mille anni fa, chi diceva che era di Orgurui, un Latitante del 1825. La grotta era, si pensava, sotto a « sa pruna ». Parliamo un poco la notte, attorno al fuoco, e decidiamo di andare in quattro o cinque. C'era unu ziu, un certo Antonio Flore, e dice di INCHIESTA SU ORGOSOLO 133 andare soltanto a sera tarda: a quell'ora l'anima di .Orgurui dormiva e non bisognava svegliarlo. Appena fa scuro, il giorno dopo, andiamo in silenzio, e scalzi. La grotta c'era, nel punto saputo, e l'ingresso era nascosto da frasche. Entriamo e incominciamo a camminare. Si andava avanti sotto la luce di un ramo di ginepro acceso. E ci venivano incontro, col farci paura, le nostre ombre. Si sentiva lontano un rumore di acqua: ma poteva essere pure quel brigante che era troppo vecchio e gli colava il naso. Andavamo muti, a cuore in bocca. Dopo dieci, quindici minuti doveva cominciare id posto del tesoro. C'era un fiume sotterraneo, ma piccolo piccolo, e bisognava traversarlo. Poi c'era una grotta che bisognava infilarsi ad uno ad uno a terra, e la grandezza era solo per un cane. Va avanti un certo ziu Puligheddu col ramo acceso in mano ed entra per primo in una stanza. Poi, ad uno ad uno, abbiamo cercato di entrare. Il secondo, che era quel ziu Antonio Flore, che abbiamo detto, ad un tratto si mette a gridare: — L'oro! L'oro! Aveva visto luccicare, vicino alla parete. Corriamo insieme. Quelli che erano rimasti indietro strisciavano nel- la buca del cane pur facendosi male, e sague; ma sono entrati. — L'oro! L'oro! Ed era l'oro certamente. Arriva primo ziu Puligheddu, e stende la mano. — Ahimé! — dice. La sua mano era tutta bagnata. D'acqua. Non di oro. Ci stavano al muro come certi bastoni di pastore, in pietra, che venivano dall'alto e dal basso. Ed un vecchio ha detto, poi, che si chiamavano: le statue di natura. Alla luce del ramo acceso erano luccicate ed a noi era sembrato l'oro. Qualcuno si é messo a piangere. E siamo usciti tutti fuori. Più d'uno era convinto .che si trattava di vendetta: Orgurui il Latitante, padrone del tesoro, ci aveva voluto allegrare prima, facendocelo vedere, e poi, per dispetto, lo aveva trasformato in pietra. Siamo 134 FRANCO CAGNETTA usciti prima di mezzanotte, perché se il morto si svegliava ci poteva pure uccidere. Ma, per questo, non mi dovevo scoraggiare. Il tesoro doveva trovarsi. Dovevano esserci di monete d'oro e di argento, perle, rubini, e diamanti. E mi succede un'altra storia. Una volta capita a Mamoj ada uno straniero. Io stavo li, di passaggio, con le pecore. Ero in strada, e quello mi riconosce dal vestito per orgolese, e dice: — Nell'orgolese c'è un Nuraghe che si chiama Lollové ed é sopra il Sopramonte. Io abitavo come capraro in localita vicina. — Beh — dice quello — a pochi passi c'è il tesoro. Nel primo punto che penetra il sole la mattina lá c'è il tesoro. Basta sterrare. E si trova. Combiniamo e insieme siamo andati a questo antico Nuraghe. Dopo un giorno di cammino, avanti l'alba, siamo arrivati vicino, e nel punto più alto per vedere dove penetrava il sole. Col cuore in gola. Dopo, quando arriva il sole, scorgiamo il punto che penetra e ci buttiamo tutti e due in fretta, per non perderlo. L'apertura del Nuraghe era troppo stretta, ché un po' crollata. Finiamo di demolire e arriviamo nell'interno — parete circolare rossa, tutta di pietra — e nel punto che il sole ci aveva voluto indicare. Cadiamo in ginocchio. Ma poi proviamo a scavare ed, in quel punto, togliamo pietre e rimuoviamo terra. Si trova una nicchia, come una piccola grotta, tonda. Ed, entrati, troviamo al centro di una stanza molto piccola una pietra quadrata: proprio al centro. La solleviamo, e c'era una buca che poteva entrare un uomo: era il tesoro! _ C'e ? Non c'é! Macché! Proprio niente! Cerchiamo un'ora: Niente! Allora abbiamo pensato che, se ricchezza c'era, se l'era già presa qualcuno. E portata chi sa dove. Oppure che il sole non era quello che ci voleva bene, un Padre, e bisognava venire in altro tempo. INCSUESTA STS ORGOSOLO Come ho fatto. Ce ne andiamo e tante volte, ogni tanto, tornavo da solo per anni ed anni. Dopo un giorno di cammino arrivavo a quel Nuraghe. Oggi non esiste quasi più perché io solo l'ho demolito. E questa storia si conclude così. Nel paese é cominciato a sapersi che io cercavo i tesori, e trovavo solo pietre. E quasi mi ridevano. Ma io pensavo che non avevano ragione, e che, prima o poi, un tesoro lo avrei trovato. Ci dovevano essere monete di oro e di argento, perle, rubini e diamanti. Dopo qualche anno (ne avevo ora 30 o 40, non ricordo) viene un prete ad Orgosolo che ci aveva una carta del tesoro. La aveva avuta da Latitanti e, a quanto so, da un altro prete che teneva la roba rubata, rubava e, per un tempo, era Latitante. In quella carta ci era un disegno tutto a matita, con una croce al centro: il segno di un tesoro. Non la faceva vedere a nessuno, un segreto: ma da tutti si sapeva. Per quell'oro — o pur argento che fosse -- per trasporto ci aveva bisogno di lasciarsi accompagnare. Vado da lui una volta, con coraggio, e gli dico: — Se mi prendete e mi date un terzo del tesoro io vi vengo ad aiutare. Porto un cam-pagno con me. E non diremo niente. Non voleva sapere. Ogni volta che mi incontrava, da allora, mi fermava. Mi parlava del tesoro. Un giorno che eravamo soli mi dice: — Beh, ti dó una decima. Se ti accontenti vieni. La Chiesa che é la forza piú luccicante, ed il Santissimo Padre, che é grasso e grande, pigliano su tutto la decima. Perché tu vuoi prendere di piú? — Va bene — dico subito — partiamo, partiamo! — Silenzio, mi raccomando il silenzio. Chi é il tuo compagno? Gli dico: — È lo scemo del paese. — Bene! Di notte tarda, quando tutti dormivano, come ladri andiamo al prete, scalzi. Ci stava ad aspettare con quella carta, un libro in mano, 135 136 FRANCO CAGNETTA una pelle di bue grossa e vuota per bisaccia del tesoro, tre o quattro lumini per far luce. Ci mettiamo in cammino e facciamo salita per tutta la notte, tra i sassi. Ogni tanto il prete si voleva riposare. — Andiamo, andiamo! — dicevo. — C'è ancora strada? Lo scemo rideva, gridava. Siamo sul posto verso l'una, le due. Il prete esce la carta e si mette a leggere in latino. Ci aveva una fune e da una quercia a un sasso prendeva le misure. Faceva salti e gridava ogni tanto certe parole come: — Gú gú, bú bù. Lo scemo batteva le mani, saltava. E faceva pure lui così. Il prete, alla fine, trova il punto, e si mette in ginocchio. — In ginocchio! — dice — Tre Pater, tre Ave, tre Gloria! E io e lo scemo, insieme, giuriamo di saperle. — Adesso — dice il prete — dovete levare gli occhi al cielo e, quando sta per cadere una stella, cominciate a zappare. Era di giugno. Ma ci avevo paura che la stella non cadesse. Oppure, che, tenendo gli occhi al cielo, il prete, sotto al naso, mi portasse via il tesoro. — Così dice il libro! — E va bene! Lo scemo guarda le stelle ed io il prete. Il prete sempre diceva le sue orazioni di diavolo: — Gú gú, bù bù. All'improvviso cade una stella ed io ero morto quasi dalla gioia. Cominciamo a zappare, a zappare. E scava e scava: avremo fatta una buca di due metri. Forse piú. — Forza, forza! — dice il prete — Io faccio le orazioni. E dice ancora: — Gú gú, bú bú. Lo scemo pure. Tutt'a un tratto sento qualche cosa dura. Io grido, il prete grida, lo scemo più di tutti. Ci siamo abbracciati. Ora bisognava pensare a tirare il tesoro. Tiro. E c'era una certa forza. Tiro ancora. E viene fuori una testa di crapa. E tutta spolpata! 137 INCHIESTA SU ORGOSOLO — E questa che é? — Vi sarete. sbagliato. — Non mi posso sbagliare. Questo é il punto della carta. Scavo ancora: niente! Il prete era verde e rosso: si vedeve anche di notte. Lo scemo piangeva, batteva le mani. — Sarete stati voi. Per poca fede l'oro si è cambiato in testa di crapa. — Mi pare che qui di scemo c'é solo lei, padre pio. — E tu sei più cretino di lui. Stavamo per attaccarci. — Se questa testa era oro — dico io — datemi in oro la decima che avete promessa. -- Te la puoi prendere pure tutta questa testa. — Era incazzato. Io pure ero incazzato, ma ora ridevo: era la prima volta che un prete dava una decima, e anche più, a un pastore. Si é tolta la tonaca, se ne è andato e bestemmiava. E lo scemo dietro, saltando e ballando, e gridando: — Gú gò, bù bù. Sino a Orgosolo. Ero proprio sfortunato! In quei tempi si metteva male la pastorizia ed io facevo il pastore. Cambio mestiere e mi metto a fare il postino di Orgosolo. Un po' sapevo leggere. Si era messa la posta in Orgosolo, il 1900, proprio in quel tempo. Andavo una volta alla settimana e qualche volta al mese a Mamoiada. A cavallo. E mi portavo una grossa bisaccia. Ma ritornavo sempre con quella borsa vuota, e, in quel tempo, lettere ne ho viste solo due in sei anni. Ne è venuta una 11 1902 ed una il 1906. Ce ne saranno state forse altre, ma non ricordo. Quando veniva una lettera tutto il paese si riuniva in piazza, e si aspettava qualcuno che sapesse leggere. Il prete quando c'era. Se non c'era, bisognava stare li sei o sette giorni ad aspettarlo o sperare che qualcuno venisse in paese, gendarme o forestiero, che sapesse leggere. Una volta, come postino, io stavo a Mamojada. C'era un continentale, certo Sanguinetti Giovanni Battista, genovese. Gli dicono che sono di Orgosolo, _e quello mi manda a chiamare. Io lo conosco. E lo ho trovato con una pietra luccicante in mano. 138 FRANCO-CAGNETTA Ha detto: — Io sto qui per venire in territorio del tuo paese. — E che venire a fare? — Per questa pietra. — Che pietra é? — Calamina.. Io mi ho pensato: « Questo, gendarme non é. Viene per pietre. Certamente quella pietra é il segno di un tesoro ». Dico: — Di questa pietra ne ho vista a Osporrai, a Fundales, a Iserrai. Dice: — Puoi venire a mostrarmela? Ti pago una giornata. — Buono, buono! Siamo rimasti d'accordo e dopodomani mattina viene a Orgosolo a cavallo. Lo ho portato subito a quei luoghi, a vedere quelle pietre. — Questo é un filone — dice. - No — dico io. — Non vi inganno (avevo capito che diceva che io sono furbo, e cioè filone). Pietre così ce ne é in tanti posti. — Andiamo a vedere. Andiamo e si é visto tutto. E ad Iserrai dice: — Qui c'é un tesoro! « Ci siamo, penso io. Questa é la volta buona! ». Si vedevano pietre stellate a terra. — Bisogna fare un saggio. Qui c'é una galleria. Deve essere stata fatta dagli antichi romani. — E scaviamo pure noi — dico io. — Presto! presto! Cerchiamo iI tesoro. — No — dice Sanguinetti. — Qui bisogna fare uno sfruttamento regolare. Dobbiamo continuare la galleria e pigliare la calamina. — Beh — ho pensato. - Questo vuole pigliare tempo! — Intanto ti dó lavoro, a te e ad un altro. — Bene, bene. Ho preso con me ziu Pichireddu Tommaso, che ne aveva bisogno. Ma del tesoro non gli dico. Cominciamo a fare lo scavo e questa pietra si stendeva per 200, 300 metri in superficie. — Qui — dice Sanguinetti. — Potete fa y "una buona giornata in quattro per un anno. /'..w. -~ .~r INCHIESTA SU ORGOSOLO 139 — Bene, bene. Il giorno dopo porto a lavorare mio figlio e un altro ancora. Per un anno. Prendevamo pietre e le mettevamo in certe hallette che portavamo a Mamojada e, di li, le spedivano a Cagliari. Io sempre pensavo: « Che diavolo •starà mai in mente a Sangui-netti. Qui c'é il tesoro certamente e lui pensa a pietre. Deve averci qualche piano e pure, a far questo, ci avrà il suo tornaconto. Intanto, ci dà da lavorare! ». E la notte, senza dire niente a nessuno, venivo a cacciare il tesoro, per conto mio. Un giorno viene un figlio di Sanguinetti da Cagliari e ci dice che é una miniera: quelle pietre si vendevano. Allora io dico: — Io l'ho scoperta. Io l'ho fatta vedere a tuo padre. E ora mia. — No — dice lui. — Dietro richiesta la Concessione é stata intestata a mio padre. La ha avuta solo lui. Tu non puoi far niente. Se non lavorare a ordine suo. E mio. Ti posso anche cacciare subito di qui e far tornare a fare il pastore. Quando ho sentito di tornare a pastore, e ho sentito: « Concessione » mi ho spaventato. Sarà meglio stare zitto. E lavorare. Spedivamo e spedivamo. E si hanno fatti tanti sacchi a Cagliari. Poi questo é finito: dopo un anno. Io la notte tornavo a raddoppiare il mio lavoro, e sempre per cercare il tesoro, ma non trovavo. Allora mi ho pensato: «Io cercavo il tesoro e il tesoro ce lo avevo sotto il' naso. Quando il tesoro c'é, viene uno straniero e me lo leva ». Da allora tutte quelle pietre stellate le raccoglievo. E le portavo a casa. Dove non c'era più posto. Un giorno, con mio figlio, ne facciamo una carrettata; e le portiamo a Mamoiada per venderle. Ma non le hnno volute. Mi hanno detto che non erano calamina, ma come le altre, e, di come quelle, ce ne erano a milioni. Così ci abbiamo rimesso il viaggio ed io la speranza e il lavoro. Visto, dunque, che non trovavo tesori sotto terra, io penso, me li vado a trovare, come gli altri, sopra terra. Il frutto di pastore era niente. Come postino ero fallito. Vado a fare il rapinatore o bardaneris. Cioè in bardane. i I40 FRANCO CACNETTA In antico queste rapine erano combinate proprio bene.. Ci riunivamo in gruppi di tanti e tanti, a volte tutto il paese, e a cavallo, o a piedi, con l'arma in mano, andavamo ad un altro paese. Qui, dopo circondato, e sparita la forza pubblica, casa per casa facevamo assalti, sparatorie, bottino. Poi tornavamo. Si facevano assalti in ogni posto, in Baronia, in territorio di Nuoro, in Ogliastra. Anche in Campidano, di Cagliari e Oristano. Si rubava in case, caserme, e in saline. Ai treni, quando c'erano. Queste organizzazioni erano proprio brave. Ognuno interessato a tutti: bottino uguale. Fratelli, insomma. Non c'era niente da fare contro un bardaneris del paese di Orgosolo: coraggioso, unito, abile. Qualcheduno é restato sul terreno. Non sono riusciti mai, o quasi mai, a prenderci. Se non c'era la spia. Che, poi, spariva. Allora Orgosolo era lo spavento di tutta la Sardegna. E questo é orgoglio nostro, d'uomini e di donne. Delle bardane andate bene non posso raccontare. Se mi é rimasta qualche cosa in casa, e pur lo dico anche a distanza di cento anni c'é sempre qualcuno che se lo potrebbe venire a ripigliare. Anche se la Giustizia non può più farci niente, per tempo passato, é meglio stare zitti. Ci sono i figli o i figli dei figli che non gli può piacere. Dirò, invece, di due bardane che sono andate a male. Una volta eravamo andati alla montagna di Orgosolo per un ru-batorio, in 4 o 5: di pecore. Siamo rimasti tutto il giorno a guardare i pastori, quando potevamo prendere il bestiame. Ed i fucili che ci avevano. Viene la sera ed i pastori entrano nelle baracche. Mettiamo tutti la parola che erano le 11, invece delle 2, se poi ci interrogavano. E poi ci siamo divisi in tanti, ognuno per una baracca da assaltare. A un segno, buttiamo in aria ogni baracca. E ognuno al suo dovere. Pure se ci erano due o tre pastori per parte, noi, a uno solo, li lottiamo e li disarmiamo e li leghiamo. Non c'era stata una archibusata e, solo, le capanne se ne erano andate tutte in aria. Stiamo per pigliare il bestiame, quando a un tratto viene un certo ziu Pasquale, un uomo grosso, parente dei pastori. Vede quel caòsso e ha principiato a sparare. Spara e spara. E noi rispondiamo. E i pastori, non si sa come, si sciolgono e sparano. Sembrava un cielo di stelle: ed erano pallini. INCHIESTA SU ORGOSOLO 141 Quando ci abbiamo visti presi in mezzo, aspettiamo un poco. E ce ne andiamo. Strada facendo troviamo 4 o 5 miaiali magri, non so di chi. Ce li prendiamo, principiando a mangiarli. Passa ziu Pasquale, quell'uomo dell'attacco, e ci saluta. Lo invita e accetta. Dice che ci ha riconosciuti al rubatorio, due ore prima. E noi gli diciamo che si, che lo abbiamo conosciuto. C'era stata sorpresa di uno e l'altro, lotta, ma a viso franca. Così, contento, ha mandato a chiamare quei pastori di prima, suoi parenti, e abbiamo combinato, insieme le parti, con altro rubatorio. Un'altra sera eravamo andati a fare altro affare, ossia bardana, in località Marghine, sopra S. Ananio. Uno, il capo, dice agli altri: — Andate un poco avanti che mi fermo a pisciare. Ecco, a un tratto, che si presenta un'ombra. E il capo si è fermato. La ha riconosciuto subito: era un compagno morto in altra bardana. Lo spirito presentandosi disse: — Non andate. Perché se andate non vi riuscirà bene. Avrete scontro ed uno resterà. Il capo ritorna, pallido, e ci dice: — Zessù e Maria! Mi sento male. Ho un male allo stomaco. Torniamo indietro — e non ci ha detto la verità per non farci spavento. I compagni non volevano proseguire. — Fermi! fermi! Non andate! Una parte 10 ascolta (c'ero pure io). Gli altri se ne vanno con un capo nuovo. Il primo capo, di spavento, gli era venuto davvero male. Gli altri se ne sono tornati a mani vuote ed avevano lasciato uno sul terreno, il nuovo capo. Un mio cugino lontano. Basta. Ci dovete credere: io non pensavo a queste cose. Non ci credevo. Ma da quel giorno ho avuto sempre qualche noia con quelle Anime per 10-15 anni. Una volta stavo dormendo in capanna, quando sento un uomo addosso. E cominciamo a guerreggiare. Era uno spirito, e pur ci aveva una certa forza. La capanna dove stavamo si é fatta tutta storta e bistarta.. A me é successo. A noi, pastori, succede spesso di far queste lotte. 142 ''FHANCO CAGNEiTA E ancora. Puù darsi che i fantasmi non esistono. Ma in Orgosolo c'è stato il 1900 un terribile fantasma: Muzzi Gravas. 'E cioè un certo Podda, che era un ladro e quando questo uomo è morto, il giorno dopo del mortorio, va un suo figlio a una capanna a Supramonte, dove quello sempre stava, e lo trova vicino alla porta, come un fumo, con gli occhi rossi. Si leva un vento da lui e tutti i lecci del Supramonte hanno fatto uno scoppio come se fossero venti cannoni. La baracca è caduta. Che forza che ci aveva! E poi é sparito. In paese la moglie stava sola. Le porte della casa erano bene chiuse e si spalancano. Comincia a mettere pietre, sempre più grosse, e si aprono. I figli, venuti, si mettono sulle porte a fare forza con le spalle, li getta a terra, e sempre sbattevano. Era un gigante quello, un Golia. Lo potete domandare a sua moglie, zia Zizzedda, che vive in paese. Poi che il ladro ritorno a fare il pastore. Ma mi aiuto ora con il fare sabba ardente, l'acqua vite clandestina. È proibito, ma, qui, ciascuno si arrangia. Basta avere un lampicchio. E un mestiere che mi piace dopo quello del tesoro, perché si assaggia. Non lo descrivo che, certo, i fumi di vino tutti qui li conoscono. Ma proprio in quel tempo che facevo lo spirito — è un caso strano — io incontro uno spirito. E piú. E proprio vivi. Mi trovavo al paese con un lampicchio, in quel lavoro, e viene una bettolaia di Irgoli che voleva subito trenta, quaranta litri. Non li avevo. L'ordinazione era buona: le ho promesso che, appena pronti, glieli andavo a portare. Trovo un compagno di Bitti che doveva partire pure ad Irgoli. E combiniamo di viaggiare insieme. Questo uomo doveva andare ad Irgoli per una cosa sua speciale: c'era li una spiritata — Maria Ruju si chiamava — e lui andava da lei per sapere della salute di sua moglie. Tanti pastori di Orgosolo e dei paesi vicini andavano a lei per interpellarla: aveva gli spiriti in corpo. Vendo l'alcol, faccio soldi, e l'amico chiede" se volevo fare cono- INCHIESTA SU ORGOSOLO 143 scenza di questa spiritata: per ogni cosettina lui ci andava, che lei sapeva tutto, ed era sempre contento. Io mi penso: « Che gli chiedo? Niente ». Ma poi mi viene: « Ho aspettato anni e anni, sempre invano. Andre. da lei per sapere dove posso trovare un tesoro, anche piccolo ». E dunque andiamo dalla spiritata. E non appena entra il mio com-pagno le chiede: — Ci sono gli Amici? E Maria: — In questo momento ci sono. Come ha detto questo — porco nomini, e porco vieni — c,omincia, a un tratto, a cadere a terra quella spiritata, tutta rotta. Le prende un nodo alla gola e inghiottiva, inghiottiva. Non riusciva ad inghiottire quel nodo di spiriti che si era fatto alla gola, perché volevano uscire tutti insieme, uno prima dell'altro, e non ad uno ad uno. La spiritata poi si mette a rizzarsi, a rizzarsi. Ed ecco la prima presentazione. C'erano con noi due pastori, un marito ed una moglie, che erano venuti a chiedere per una figlia sedotta che, isgravata, aveva offerto, la sua creatura al maiale. Volevano sapere chi era il seduttore e chi l'assassino. Ed ecco il ringhiato di un porco (non si sa se era il maiale che aveva mangiato la creatura, o il ragazzo sotto la voce del maiale). Basta. Maria ha fatto un nome. E poi, mi hanno detto, che quel nome é stato ucciso da quel padre. Si presenta ora un orgolese, un puro spirito di Orgosolo. Appena parla lo riconosco. Non posso dire il nome perché lui stesso mi ha pregato di non dirlo. Ché si trovava all'inferno e non voleva farlo sapere al paese per non far scandalo. Passa lui e viene allora un altro spirito. Che era un famoso dottore. A tutte le malate che andavano a interpellarlo parlava in grande forma. Diceva la malattia e quella erba o medicina che bisognava. L'amico era andato lá per la moglie ammalata, e gli ha detto: — Devi fare così e così. — Gli dice tutto e poi: — La medicina che ti insegno, non la 144 FRANCO CAGNETTA può guarire perfettamente: Sari solo una riparázione al male. Che è catarro cronico di intestino. Erano anni che lui andava invece da medici di Nuoro, di Gavoi, senza potere mai saper niente! Poi viene il mio turno (ero l'ultimo), ed io domando: — Ditemi dove c'è un tesoro. Anche piccolo. Sento fischi, rumori come il vento, e silenzio. La spiritata si é afflosciata. Dice Maria: — Io credo che non puoi mai più saperlo. Gli spiriti lo sapevano. Ma appena tu gli hai ricordato che c'erano dei tesori sono scappati per andare a cercarseli. Come, infatti, da quel momento di spiriti non ne ho più visti. Il mio amico ha lasciato 11 una coscia di pecora e tre o quattro lire, che erano un tesoro vero. Pur di tesori ce ne devono stare ancora. Cosi, come mi hanno detto gli spiriti, da quel giorno non ne ho più trovati. Ma spero che non se li siano presi tutti. loro. Ci devono essere ancora ad Orgosolo monete di oro e di argento, perle, rubini e diamanti. • Se non fossi così vecchio, che ora posso solo parlare e dirlo 'agli altri, io me ne andrei - subito — a cercare dei tesori.
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