Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: MEMORIALE DAL CARCERE (*)
IlLmo Signor Giudice Istruttore di P...
Durante la mia vita rasentai più volte l’aldilà, ma si vede che il crudo destino mi riservava prove più dure della morte.
E, per non annoiare di troppo la Giustizia, vengo subito ai fatti che più di tutti hanno, da dodici a tredici anni a questa parte, sconvolto la mia esistenza. Se potessi, veramente, ne farei a meno di raccontare, giacché, al solo pensarle certe cose, sento un freddo agghiacciante nelle vene e che il cuore cessa di battere e che 1*anima rimane sbigottita e atterrita. Oh, come un giorno agognavo di poter raccontare certi fatti della mia vita con la mente sgombra e serena! Ma i Fati, forse per loro ragioni speciali, non hanno permesso ed
io raccolgo le ultime forze che mi avanzano e mi sottometto ancora una volta alle loro imposizioni! E se non temessi di essere tacciato da pusillanime dal resto degli uomini, oserei affermare che in certi momenti delFindividuo, solo il nulla può essere Tunica ancora di salvezza. Perché, perché, mi domando, Tu, o regolatore del Mondo, hai voluto scegliere me per attore a rappresentare una delle più orribili tragedie della realtà ? Non ero parte anch’io del tuo complesso organismo, oppure sono stato uno degli indegni? Non mi sembra, perché anch’io, per la mia poca parte, ti ero servito al comun scopo di bene! E spero almeno riconoscerai, che la tua intenzione non è stata quella di far rivivere un secondo Caino!
(*) L’autore del presente memoriale, Saverio Montalto, era un modesto impiegato comunale in un paese qualunque della Sicilia. Aveva fatto la prima guerra mondiale con le classi più giovani, era stato ferito e fatto prigioniero. Ritornato al suo paese natale ed ottenuto un posto di impiegato nel comune di un paese vicino, si era dato ad una vita disordinata confondendosi con la borghesia inutile e vana che lo circondava. Però non ne era soddisfatto. Innamoratosi di una ragazza di quella borghesia, si accorse a sue spese come, in tale ambiente, l’amore non sìa un sentimento apprezzabile. Riprese la sua vita dissipata, trascinato dal demone dell’immaginazione e della sensualità, finché non si trovò avvinto nelle reti di una famiglia insidiosa, dove era caduta pure la sorella, sposa infelicissima.
A questo punto Saverio Montalto si ritira dalla società, preferendo la solitudine della sua cameretta in una modesta casa di affitto. Uno scrittore che lo conosce gli offre la sua amicizia, incoraggiandolo; e Saverio Montalto incomincia a leggere e aMEMORIALE DAL CARCERE
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Incomincio coll’anno 1927. Nella mia casa nativa di M... mio zio Arciprete era morto da due anni, le mie due sorelle maggiori erano sposate per i fatti loro una a M... stesso e l’altra a R.« e perciò in famiglia erano rimasti mio padre, il quale ancora abbastanza vegeto accudiva ai lavori della piccolissima proprietà che avevamo, e mia sorella Anna ventiquattrenne che accudiva alle faccende domestiche. Io, dato che ormai avevo il posto di applicato comunale definitivo a N..., andavo e venivo soffermandomi di quando in quando anche la notte a M... Io, è notorio, ho voluto sempre bene ai miei parenti facendo nei limiti del possibile non lievi sacrifici per loro, ma per questa mia sorella poi nutrivo, fin d’allora, un affetto speciale. Me la ricordavo piccina piccina di quando la mamma ci aveva abbandonati morendo e quel che contava di più era il fatto che vedevo che lei sapeva comprendermi bene anche nei discorsi un po* fuori del comune, sia perché aveva fatto la sesta elementare e letto abbastanza, sia perché come intelligenza di donna si elevava al disopra delle altre che io conoscevo. E, del resto, come può nascere un vero affetto ed una vera amicizia anche fra familiari senza una comprensione perfetta e reciproca? E qui non posso fare a meno a non ricordarmi di quando ultimamente i componenti la famiglia Armoni, ed in ispecie mia moglie e mio cognato Giacomo, non sapendo che cosa rispondere ad alcune parole di mia sorella, sentendosi punti sul vivo e che non potevano fare a meno a non riconoscere la loro meschinità, esclamavano sarcasticamente: « Già, ci dimenticavamo che è intelligente come il fratello! ».
Da tuttociò ognuno può immaginare, dato anche che ormai mio zio Arciprete non c’era più e quindi la responsabilità* della famiglia
scrivere, scoprendo, accanto al mondo meschino della provincia, un altro mondo, più Ubero e puro, quello della fantasia e del pensiero.
Sposa poi in circostanze poco chiare una ragazza di quella famiglia che aveva preso a dominarlo, ricattandolo specialmente con la persecuzione della sorella, da lui amata teneramente, e si chiude sempre più in un suo segreto dolore. Infine, scoppia fulminea e travolgente la tragedia: uccide la sorella, ferisce la moglie ed il cognato.
Perchè lo fece? In questo memoriale, scritto in sua difesa nel carcere, durante il periodo istruttorio, vi è una risposta: un tentativo sincero e profondo di spiegare quelli che sono i motivi misteriosi delle azioni umane. Si ha non solo un documento umano di grande valore, malgrado le probabili riserve consigliate dalla difesa, ma una rappresentazione di vita, pregevolissima. L’autore ha saputo scavare nel mondo tenebroso delle sue passioni, dominandole con la forza della sua fantasia trasfiguratrice. Schiavo degli altri, nella condizione più orribile che si possa immaginare, si è reso libero da sé, con la forza dello spirito. Parole alate e accenti commossi miracolosamente gli sono sgorgati dal cuore colmo di angoscia: un uomo, sofferente nella sua nudità, si è rivelato.126
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ce l’avevo quasi tutta io, giacché su mio padre, uomo di campagna ed avanzato in età, non si poteva tener molto conto, come trepidavo e ci tenevo a collocar bene questa mia sorella innalzandola se mi fosse stato possibile, fino alle stelle. C’erano state già diverse ambasciate di matrimonio, ma quando per una ragione e quando per un’altra ancora non si era potuto stringere definitivamente con nessuno.
Un bel giorno venni a sapere da una donna fidata che frequentava la nostra casa a M... che c’era un giovanotto che gestiva a T... un nego-zietto di tessuti per conto del padre, il quale aveva un altro negozio di tessuti a N... e che questo giovanotto recandosi spesso a M... per ragione del suo commercio vedendo mia sorella se n’era innamorato. Mia sorella a sua volta se n’era innamorata di lui pazzamente e inoltre ora si corrispondevano per mezzo di lettere. Mi disse anche che mia sorella aveva timore di dirlo a me, ma che presto il giovanotto a nome don Giacomo Armoni si sarebbe accostato a me per chiedere la sua mano; Io rimasi assai addolorato e perplesso come mai mia sorella aveva fatto ciò senza farmi sapere nulla e pregai pel momento la donna di sorvegliarla e di non dirle niente che io sapevo già il fatto almeno finché non mi fossi informato del come e del quanto.
A N... venni a sapere che veramente c’era un assai modesto commerciante di tessuti a nome don Cesare Armoni oriundo da T..., che
10 conoscevo già di vista, padre del Giacomo e di altra numerosa prole, ma che lui ed in ispecie la moglie non ne volevano sapere affatto di questo matrimonio del figlio e ciò non solo perché c’era prima una figlia da collocare sicuramente, a dir loro, con un professionista o medico o avvocato, ma anche perché principalmente pretendevano che
11 loro figlio così bello, così grande affarista, così temuto che dove passava lui tremava la terra ecc. ecc. doveva sposare almeno almeno una principessina milionaria e di alto lignaggio e non mai una donna povera e di basse condizioni sociali come mia sorella. Seppi anche che il Giacomo era un giovanottino di primo pelo installato con una bot-teguccia di tessuti nella via Vecchia di T... rinomata allora nel paese perché ci abitava il fior fiore della prostituzione e che il giovanottino non solamente spandeva e spendeva, come si suol dire, interesse e capitale, ma per quanto ambiva passare per valoroso capo dell’onorata società, il che, naturalmente, i delinquenti locali glie lo lasciavano fare, sempre, s’intende col loro tornaconto e guadagno. Per allora non seppi altro, ma in seguito venni ad appurare ancora che i genitori non solo erano orgogliosi e contenti di questo comportamento del loro Giacomo,MEMORIALE DAL CARCERE
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ma che una volta, dato che una persona bempensante del paese di T... aveva cercato di mettere in guardia il padre della piega presa dal figlio, il padre, anziché ringraziare la gentile persona, rispose a male parole concludendo con boria che suo figlio era all’altezza di sapere quello che faceva e che nessuno doveva permettersi d’ingerirsi negli affari suoi.
Ritornato a M... chiamai mia sorella e la misi al corrente di tutto supplicandola e scongiurandola di desistere dalla sua malsana idea insistendo principalmente sul fatto che lei era molto più grande di lui e che perciò ne veniva di conseguenza che lui, dopo sposati, presto se ne x sarebbe stancato e sicuramente l’avrebbe abbandonata. Ma lei non volle sentire ragione e mi disse che quand’anche i genitori del suo amato non avessero voluto acconsentire presto al matrimonio, lei avrebbe atteso finché lui non si fosse emancipato e reso libero ed indipendente da loro. Per il fatto della differenza d’età aggiunse che lei era sicura del fatto suo. Mi disse anche che l’affetto di fratello era un conto e l’affetto di fidanzato era un altro e che era inutile insistere perché lei ormai non poteva ritornare più sui suoi passi. Io rimasi costernato ed appresi solamente in quel momento quale forza e potenza adopera la natura per poter perpetuare la specie. Non sapevo più che fare e che combinare ed intanto pensavo che se quell’individuo aveva soggiogato fino a quel punto mia sorella doveva essere effettivamente un essere temibile e straordinario. Mi chiusi nella mia stanza, mi vidi avvilito ed annichilito mentre sentivo che un freddo caratteristico di paura m’invadeva per tutte le membra. Quell’individuo, attraverso l’immaginazione, dato che ancora neanche lo conoscevo, aveva soggiogato anche me!
All’indomani mattina mentre scendevo verso N... mi vedo avvicinare a metà strada da un giovanotto, il quale, tenendo la testa bassa ed un comportamento più da maffioso che da persona perbene, mi disse : « Io sono il fidanzato di vostra sorella! ».
Io intesi che il solito fremito di paura , mi agghiacciò, ma mi dominai con un grande sforzo di volontà e risposi : « Ah sì ? E che cosa volete? ».
« Voglio chiedervi la sua mano! ».
«A me? Prima di me c’è mio padre! Io non conto! ».
«No! So che voi contate tutto!».
«Ma vi sembra regolare chiedermi voi la mano direttamente, così in mezzo alla strada? Anzitutto voi siete figlio di famiglia senza128
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nessuna posizione e quindi non potete sostenere il peso di una nuova famiglia, e, poi, c’è anche che i vostri genitori non acconsentono che voi vi sposiate! Fate venire i vostri genitori e poi si vedrà! ».
« I miei genitori per ora non possono venire! Ma non importa! Voi intanto mi ammettete in casa e poi quando ritornerò dal soldato mi sposerò! ».
« Ma avete pensato che non è giusto ammettere in casa un ragazzo come voi figlio di famiglia? E poi mia sorella ha ventiquattr’anni e voi appena diciotto. Che l’uomo sia più grande in età è meglio, ma per la donna non è così! ».
« Io non sono un ragazzo come voi dite, perché io mi sento più a posto di coloro che sono grandi! Riguardo poi alla differenza d’età ho molto piacere che sia proprio così! Ed allora accettate o non accettate? ».
«Pel momento, mi dispiace; ma non posso accettare nulla».
Il giovanotto a questo punto si allontanò senza, se ben ricordo, neanche salutare.
Passarono diversi mesi. Io intanto cercai di dissuadere sempre più mia sorella con ogni mezzo compreso quello di allontanarla momentaneamente da M... mandandola a R... dall’altra mia sorella sposata, ma tutto fu tentato inutilmente.
In seguito venni a sapere che il giovanotto frequentava da qualche tempo più allo spesso M..., che forse mia sorella ora lo riceveva in casa di nascosto durante l’assenza mia e di mio padre, che il giovanotto quando andava a M... si faceva accompagnare da gente equivoca, che una sera era venuto a tu per tu coll’altro mio cognato di M... sopraffacendolo e minacciandolo, non so più, se con la rivoltella o altro e che infine aveva spavaldamente affermato che lui comandava ovunque e che, o presto o tardi, avrebbe aggiustato i conti anche con me. Tutto ciò, come era da prevedersi, servì ad aumentare sempre più il mio fondo trepido e pauroso per cui rimanevo stordito e intontito senza sapere più come regolarmi e le decisioni da prendere.
Fu verso questo periodo che una mattina di buon’ora a N... intesi bussare alla porta. Andai ad aprire e ti vedo entrare mio padre. Capii subito dalla sua faccia che doveva essere successo qualcosa di grave e per poco il mio cuore non cessò di battere. Si sedè e mi raccontò colle lagrime agli occhi che durante la notte aveva sorpreso il Giacomo Armoni nella stanza di mia sorella. Mi disse che aveva cercato di reagire, ma che lui, dato che era giovine e più forte, aveva avuto il sopravMEMORIALE DAL CARCERE
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vento. Allora mio padre li aveva lasciati al loro destino e se n’era allontanato di casa. Io pregai mio padre di andare momentaneamente a stabilirsi dall’altra mia sorella a R... e lui pazientemente se ne andò. Come si fu allontanato mi sdraiai sul letto colla faccia affondata nel cuscino e non so per quanto tempo vi rimasi immobile e senza coscienza. Non so più quando mi alzai e quanti giorni rimasi in casa senza vedere nessuno. In certi momenti sentivo un desiderio ardente di rompere e distruggere tutto, di prendere la pistola e scappare e fare non so che cosa per vendicarmi a qualunque costo, ma quando poi si trattava di dover mettere in atto i miei piani, la paura, divenuta ora più forte che mai, mi teneva immobile al mio posto. Fu questa la prima volta che pensai al suicidio, ma avvicinatomi ad un certo punto al tiretto ove c’era l’arma, la stessa paura mi teneva legate le braccia. Pensavo con raccapriccio: «A che serve possedere la pistola quando non si ha la forza di adoperarla al momento opportuno? » e fui tentato di prenderla ed andarla a buttare in un pozzo vicino. Ma ancora la stessa paura non mi lasciava buttare neanche l’arma nel pozzo. Quando dopo diversi giorni uscii fuori perché non potevo fare più a meno, camminando per la via tenevo la testa bassa, giacché avevo la sensazione che la gente, già a parte dei fatti miei, mi sorridesse sardonicamente in faccia. Anzi, tutte le persone che mi passavano vicino, avevo l’impressione che mormorassero sordamente: «Vile, vile! Ah, ah! Che campi a fare ormai? Sì, sì; non solo vile, ma anche becco! Ah, ah! ». E ci volle molto tempo perché mi persuadessi in qualche modo che poi, in fondo, la gente si preoccupava dei casi miei tanto e non quanto. Mi rammento che in questo periodo un giorno incontrandomi col mio collega Giovanni Mollica, mi disse: «Ho saputo che Giacomello è fidanzato con tua sorella. Stai attento che dopo che le mangia quello che ha, la piglia a bastonate e la caccia via ». Io finsi di non capire e così passò anche questa. Superata la vera crisi decisi, in via d’accomodamento provvisorio, di abbandonare mia sorella al suo destino e pregai anche mio padre e le altre mie sorelle di non occuparsene più neanche loro. Ma non era questa la vera via d’uscita, perché ora più di prima amavo mia sorella e benché mi sforzassi di non pensare più a lei, in alcuni istanti sentivo inavvertitamente che l’anima sanguinava per la sua perdita e che nel contempo l’avvilimento mi abbatteva sempre più e che la paura di dovermi incontrare da un momento all’altro con quell’individuo, mi atterriva anche sempre più. Infatti, quando alcuni mesi dopo andai a M... per prendermi i libri e le altre cose che mi occorre130
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vano, in modo di non avere occasione di ritornarci più, e m’incontrai nella mia casa coll’Armoni, e con un’altra faccia che neanche ebbi la forza di guardare, per poco non svenni dalFavvilimento e dalla paura ed entrai ed uscii muto e fuori di me e senza sapere ove ero e ove mi trovavo.
Dopo qualche tempo credei di aver trovato il rimedio di tutti i mali: avevo comprato da poco l’automobile e mi misi a scorazzare di qua e di là insieme agli amici in cerca di felicità attraverso ogni sorta di svago e divertimento colla speranza di far tacere il tormento che per partito preso tenevo celato in fondo al cuore. Qualcuno in quel tempo mi prese per pazzo, e credo che non aveva tutti i torti, perché sciupavo a destra e a manca non solo tutto quello che guadagnavo ma anche ciò che avevo potuto realizzare vendendo parte della mia poca proprietà e quando non potevo avere danaro diversamente prendevo a prestito presso banche e privati che mi davano credito.
Arrivai così verso la metà del 1930 e mi trovavo oberato di debiti e mezzo rovinato. In questo frattempo erano avvenuti vari mutamenti. Gli Armoni erano falliti ed avevano liquidato tutto rimanendo sul lastrico, e, del resto, non poteva andare altrimenti, data la loro stupidaggine ed inettitudine, tanto vero che quando si voleva nel paese dire che un individuo era veramente sciocco, si esclamava : « È più stupido di don Cesare Armoni! ». Ultimamente veramente avevano riaperto il negozietto, ma non c’era più nulla e se vendevano qualche scampolino non bastava per il pane e tutti si domandavano come facevano proprio a vivere. Avevo saputo anche, e ciò m’importava più di tutto, che mia sorella aveva venduto tutta la sua parte di proprietà che aveva, realizzando circa ventimila lire, e, che quasi tutto questo danaro aveva già mandato al suo fidanzato Giacomo Armoni, e più che fidanzato al suo amante, giacché nel paese di M... e viciniori si era sparsa la voce da tempo che l’Armoni l’aveva posseduta già, dato che da molto tempo prima che fosse partito per soldato, facevano vita comune e quasi maritale. Seppi pure che in quei giorni mia sorella stava contrattando per vendersi anche la casa, giacché l’amante le chiedeva insistentemente ancora altro danaro, ma siccome della casa figuravo io il proprietario, mandai a dire ad un certo Pantaleone Nicodemo che limitava e che perciò voleva comprarla di non fare alcun passo perché la casa era mia e così la casa non fu venduta. Intanto dopo alcuni mesi il Giacomo Armoni ritornò dal soldato e venni a sapere che ora che mia sorella non aveva più nulla cercava di allontanarsi pian piano e che nonMEMORIALE DAL CARCERE
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intendeva più sposarla. Mia sorella di questo fatto aveva avuto anche lei sentore ed aveva dichiarato che quando diventava certa e sicura che l’Armoni non l’avesse più sposata sarebbe andata a gettarsi di notte tempo in un pozzo vicino al paese. Più tardi venni a sapere ancora che se io mi fossi messo in mezzo impegnandomi di sborsare agli Armoni una data cifra, forse poi il Giacomo ed i suoi genitori avrebbero acconsentito al matrimonio. Pensai: «Ormai è senza onore e senza dote e se non la sposa lui non la sposerà nessuno. E certamente finirà o nel pozzo o chi sa come. Mi conviene perciò far qualunque sforzo e sacrificio purché la sposi immediatamente ». E poi, benché cercassi di rimanere persuaso al contrario, l’amavo sempre ed ora più di prima giacché la sapevo maggiormente in pericolo. Mi recai a M... dal mio amico Avv. Giulio Sacerdote, lo misi al corrente di tutto e
10 pregai d’intromettersi lui nella faccenda e di aggiustare ogni cosa al più presto possibile. L’amico Sacerdote si prestò fraternamente ad accomodare tutto e difatti dopo alcuni giorni mi vidi arrivare in casa
11 Giacomo Armoni, il quale senza tanti preamboli mi disse : « Se volete che sposi vostra sorella mi dovete dare cinquemila lire! ».
« Sta bene! » dico io. « Sposatela immediatamente che l’avrete ».
« Ma io li voglio subito! ».
«Subito, subito, non ve le posso dare. Ma non dubitate che non appena sarete sposati ve le darò ».
Per quel giorno se ne andò; ma dopo pochi giorni ritornò per dirmi che non poteva sposare subito anche perché non aveva trovato casa e che in casa sua non c’era spazio sufficiente per alloggiare una nuova famiglia. Io gli risposi che poteva sposare subito lo stesso giacché pel momento lui e mia sorella potevano venire ad abitare con me dato che avevo cinque stanze ed abitavo solo, che non era il caso di fare inviti o altro, che per le poche spese di matrimonio ci avrei pensato io ed anche per il loro mantenimento finché non si fossero messi in condizioni di non avere bisogno di nessuno. Lui accettò e così decidemmo che all’indomani saremmo andati insieme ai suoi a M... per riconciliarmi con mia sorella. Difatti all’indomani mattina andammo a M..., ci riabbracciammo con mia sorella piangendo entrambi lungamente senza poterci dire una parola e ritornammo ad amarci c volerci bene come un tempo. Quel giorno fu uno dei giorni più felici della mia vita.
Il matrimonio si celebrò verso gli ultimi giorni di dicembre di quel 1930. Mia sorella conservava ancora duemila lire che consegnò132
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al suo Giacomo, il quale parte diede a suo padre e parte tenne per sé per recarsi a Palermo insieme a mia sorella per qualche giorno in viaggio di nozze. Dopo alcuni giorni ritornarono e così vennero a stabilirsi presso di me nella casa che abitavo anche ultimamente.
Questa la vera storia ed i fatti che mi costrinsero a mettermi in relazione con la famiglia Armoni, la quale mi portò in seguito nel baratro profondo in cui mi trovo.
I primi a frequentare allo spesso la mia casa furono i genitori e la sorella Aurora di mio cognato di qualche anno maggiore di lui e cioè ventiquattrenne. I due gemelli allora undicenni venivano per fare qualche servizietto e per trasportare Pacqtia dal vicino pozzo o dalla vicina fontana, il fratello Lorenzo l’attuale insegnante si trovava volontario a fare il, corso di allievo sergente, il fratello Giovanni c’era ma faceva solo qualche apparizione improvvisa e poi scappava via e le altre due sorelle Elena ed Iva l’attuale mia moglie che venivano dopo l’Aurora si vedevano anche loro raramente, perché impegnate, dicevano loro, l’Elena all’assesto della casa e la Iva a stare in permanenza nel negozio specie quando non c’era presente il padre, per vendere qualcosa di ciò che ancora vi era rimasto. Io, dato che li sapevo in ristrettezze, i presenti, e specialmente i genitori e l’Aurora, i quali erano, ripeto, in quel periodo i più assidui in casa mia, li facevo restare spesso a pranzo con noi o a cena. Dopo un certo tempo me ne accorsi che sia la madre che la figlia se ne venivano da noi tutte addobbate e impomatate e che non tralasciavano occasione per mettere in mostra la loro bellezza e le loro qualità personali. La madre principalmente, ad ogni minimoché, non faceva altro che magnificare la sua bellezza di quand’era giovane, che, del resto, si poteva vedere anche oggi che aveva circa quarantasei anni (e forse si avvicinava ai cinquanta) e che era madre di otto figli. Della sua bontà poi, del suo sapere fare come economia e come donna di casa, della sua onestà principalmente e di tante cose e rose che non ricordo più, non c’era neanche d’avere la più minima idea, giacché era stata sempre la regina di N... e contorni e tutte le altre donne le quali si credevano per davvero signore perbene, in confronto a lei dovevano nascondersi, giacché tutte sommate assieme non valevano nemmeno il dito mignolo del suo piede; e, a questo punto, quando ci trovavamo soli, soleva aggiungere: «Ma sono stata sfortunata! Non per causa mia, ma per causa di mio marito, di quello stupido, di quello sciocco che non ha voluto ascoltare le mie parole, perché sennò ora non ci troveMEMORIALE DAL CARCERE
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remmo a questo stato e con una figlia di ventiquattr’anni in casa. E non perché non ha avuto matrimoni a bizzeffe, perché tutto il mondo conosce la sua straordinaria bellezza, la sua grande onestà ed ingenuità, la sua intelligenza che ciò che vede cogli occhi fa con le mani, senza parlare poi di quello che sarebbe capace di fare lei in una casa che son sicura che dal niente la farebbe salire alle stelle. Anche ora abbiamo un matrimonio per le mani, un certo Mico Spezzano di R... che sta diventando pazzo, ma io non voglio perché so che suo padre è un uomo di quelli... mi capite? Ma ci ha colpa mio marito! Ma lui me l’ha pagata! Sapete che io non lo voglio più vedere e che siamo divisi? È da tanto tempo che dormiamo ognuno per conto nostro. Ed è stato anche per causa sua che i miei fratelli, quello che sta qui a N... e quello dell’America mi hanno abbandonata e non vogliono più saperne di me. Ma a me interessa poco anche di loro. Mi accontento che le mie figlie ed i miei figli facciano i servi, ma da loro non vado. Però io spero che il Signore m’aiuterà e che quanto prima sposo le mie figlie, giacché per i maschi non ci penso affatto, e così poi voglio divertirmi e scialarmi, perché io ancora sono giovane e bella ed è proprio ora che incomincio a gustare e a capire che significa divertimento, perché fino ad ora, si può dire, che sono stata una ragazzina ingenua! Io e voi non sembriamo di eguale età, non è vero? », Io sorridevo e non potevo fare a meno a non acconsentire a tuttocciò che diceva. La figlia poi sembrava per davvero un’angela calata dal paradiso: nei modi, nel comportamento, nella benevolenza verso mia sorella, per quanto verso di me si mantenesse alquanto riservata e noncurante: si notava in lei solamente un certo incedere risoluto, altero e spigliato che mentre da un lato la rendeva più attraente ed intraprendente dall’altro poteva far pensare piuttosto ad una donna navigata, ma nel resto tutto a meraviglia. La madre inoltre quando parlava di mia sorella e di me, ma in ispecie di mia sorella, sembrava addirittura che le volassimo entrambi dagli occhi. Dato ormai che il destino aveva voluto così ella ci considerava già più che figli e non c’erano parole adatte per potere esprimere tutto l’affetto che nutriva per noi due. Certo il suo Giacomo bello, il suo Giacomo meraviglioso, il suo Giacomo grande ed immenso era sempre la pinna del suo cuore, ma noi, noi eravamo ancora qualcosa più di lui! Anche don Cesare ed il resto dei figli, quantunque meno espansivi, si dimostravano a quell’epoca affettuosi, obbedienti e riverenti. Giacomo ora verso di me sembrava avere anche soggezione e sottomissione e mi fece ricredere in gran134
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parte di tutta la mia paura che un tempo avevo nutrito verso di lui. Ed io ci credevo a tutto, avevo considerazione e compassione perché la sfortuna aveva voluto metterli in quelle condizioni e mi attaccavo sempre più a loro, perché vedevo che ormai mia sorella era felice e ciò m’interessava più di tutto. Un vero conoscitore del mondo al mio posto forse avrebbe pensato: «Guarda com’entri, e di cui tu ti fidi: non t’inganni l'ampiezza dell’entrare ». Ma io non conoscevo ancora la vita, dappoiché, fino allora, benché avessi già trentatré anni, avevo semplicemente vissuto la vita e, sia pure, attraverso varie vicende più
o meno dolorose. E la vita per essere conosciuta occorre che sia pensata e meditata e non solamente vissuta. Anche il bambino vive, ma non può dire di conoscere. E poi, in verità, c’era da pensare poco a certe cose: i debiti pressavano e bisognava pagare almeno gl’interessi e il peso della nuova e complessa famiglia si faceva sentire e come, considerato anche che il suocero di mia sorella aveva incominciato, oltre al resto, a chiedere spesso benché sotto titolo di prestito, specie quando non poteva aggiustare diversamente per la spesa giornaliera, del danaro, che io facevo di tutto per dare, sia perché non volevo figurare che stavo in brutte acque sia che mi sentivo obbligato per le cinque mila lire che avevo promesso a mio cognato Giacomo. Per fortuna che allora godevo anche della nona categoria di pensione per una ferita riportata in guerra e così in qualche modo me la cavavo bene. Avevo smesso anche da un pezzo di andare al circolo, non facevo più spese inutili e pazzesche e dato ora che c’era mia sorella, quando non avevo altro da fare, o restavo in casa oppure mi recavo dagli Armoni ovvero andavo a sedermi nel loro negozio. In uno di questi giorni mi vidi chiamare dal sarto Antonio De Vincenzo da N... per dirmi che mio cognato prima di sposare gli aveva ordinato un vestito, ma dato che poi lui si era rifiutato di darlo in credito, giacché lo sapeva cattivo pagatore, mio cognato ora, a sua volta, gli aveva mandato a dire che il vestito non lo voleva più. Il De Vincenzo quindi prima di convenirlo in giudizio si era rivolto a.me per dirmi come doveva regolarsi. Io parlai con Giacomo e siccome Giacomo insistè che il vestito non lo .prendeva più, io dopo un lungo lavorio persuasi il sarto di venderlo ad un altro, ché se anche non avesse realizzato il suo vero prezzo, la differenza glie l’avrei rimborsata io. Ma la mia preoccupazione erano sempre le cinquemila lire che avevo promesso per quanto loro ora non avevano più il coraggio di dirmi niente dato tutto quello che giornalmente spendevo per loro. Cercai di fare altri debiti, ma nonMEMORIALE DAL CARCERE
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trovai. Cercai di vendere a M... quell’altro poco di proprietà che mi rimaneva, ma ormai non acquistava più nessuno, per la scomparsa del danaro, ed anche se ci fosse stato qualcuno a voler comprare intendeva acquistare a prezzi irrisori. Anche mia sorella, ora che poteva vendere la casa, non trovò più chi l’acquistasse, giacché da quindici mila lire che prima offrivano ora volevano comprarla solamente per cinquemila; e lei, anzi mio cognato, con cinquemila non poteva fare proprio nulla, poiché allora aveva in mente di rimettere su il negozio di suo padre, e sicuramente avrebbero mangiato anche questa somma senza concludere niente altro di buono. Io allora, un giorno che mi trovavo solo in casa con mia sorèlla, la chiamai e le dissi: «Senti Anna! Vedi che io ancora le cinquemila lire non le ho potute trovare, né penso che le troverò per ora. E poi, come sai, a nostro padre debbo badare io ed anche a nostra sorella di R..., dato che anche lei si trova un po’ male, di tanto in tanto debbo mandare qualcosa. Per te e per tuo marito, per il momento, ci penserò io a tutto ed anche per la sua famiglia per quanto posso. Intanto cercherò di sposarmi, giacché ormai che tu sei a posto, posso farlo senz’altro e così con la dote che prenderò si aggiusterà ogni cosa. E poi, se anche oggi vi dessi queste cinquemila lire, cosa fareste? Il negozio non ve lo potete impiantare sicuramente, perché cinquemila lire non bastano neanche per le tasse che si debbono pagare. Perciò conviene aspettare, perché intanto forse i tempi cambieranno e da cosa nasce cosa ».
«Per me figurati! Era per te che io mi preoccupavo, perché pensavo che volessi stare libero. Ma ormai che è così, per noi tanto di guadagnato. Significa che quando ti sposerai poi se ne parlerà. Del resto neanche Giacomo ha detto più nulla, perché sa bene che con cinquemila non c’è niente da fare e che se ne andranno di qua e di là senza alcuno profitto. Io penso però che le voleva per Aurora, ma ormai che hanno scombinato il matrimonio, credo che non ci pensa più neanche lui. E poi come potevano fare? Se non hanno, come si dice, neanche per comprarsi il pane? Come facevano a dare le diecimila lire che il padre di Spezzano chiedeva? ».
Passarono diversi mesi. In questo frattempo mi era capitato un fatterello degno di essere raccontato. Ad un certo punto me n’ero accorto che la madre di mio cognato anziché venire da noi in compagnia della figlia, preferiva venire piuttosto sola ed allo spesso. Un giorno, non ricordo più come fu, ci trovammo soli in cucina mentre si preparava da mangiare. Io stavo, essendo la cucina alquanto piccola,136
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in un punto che per uscire e scendere giù, dovevo passare assoluta-mente dietro le sue spalle. E giacché lei era abbastanza voluminosa, chiesi permesso; ma lei sorrise in modo strano e senza affatto spostarsi.
Io allora, tutto trasecolato, richiesi permesso e lei, quasi adirata, rispose: «Passate! Non vi mangio! ». Io dovetti strisciare vicino al muro per passare e poi mi allontanai confuso e vergognoso. Da quel giorno mi mostrai meno cordiale e così lei, capita l’antifona, si fece vedere più di raro e quando ora veniva a casa mia, veniva sempre con la figlia Aurora o in compagnia di altri. La figlia dopo scombinato il matrimonio, si mostrò con me meno altera e più espansiva di prima e con mia sorella più affettuosa che mai. Ma io ormai avevo capito tutto e, benché in fondo l’amassi, cercavo di evitarla il più che mi fosse possibile, perché avevo un certo timore che si potesse accorgere di qualche cosa mio cognato ed un matrimonio tra me e lei, per un complesso di circostanze, specie economiche come ognuno può immaginare, non era mai possibile e particolarmente in quel momento. Una sera infatti, che mio cognato ci trovò soli nella stanza da lavoro, dato che mia sorella si era allontanata momentaneamente non ricordo più per quale motivo, io rimasi assai male e cambiai colore. Ma lui trovò la cosa semplice e naturale come se nulla fosse, o per lo meno credè opportuno di trovarla, e così io, come Dio volle, dopo un po’ ripigliai l’aspetto normale di prima. Seppi in seguito da mia sorella, forse a questo proposito, che mio cognato un giorno aveva chiamato la madre e le aveva detto: «Oh mamma! Non credi che fra mio cognato ed Aurora ci sia qualche cosa? Tu lo sai che lui non la può sposare! ».
«Oh figlio mio bello! E tu sai che tua madre è donna di permettere certe cose? Tu ormai capisci e puoi sapere da te stesso l’onore e la grande illibatezza di tua madre e di tutta la tua famiglia. Aurora poi, non solo che è la perla fra le perle di N... e di tutto il mondo, ma data la sua intelligenza e la sua accortezza, può stare anche in mezzo ad un reggimento di soldati ».
Mio cognato si tranquillizzò e così non se ne parlò più.
Siamo arrivati così verso la fine di agosto del 1931. E mentre mi trovavo a M... ove mi recavo ogni anno per stare un po’ di tempo con mio padre, m’incontrai colla nostra parente ed amica certa donna Maria, la quale mi domandò : « È vero che Anna ha un bambino maschio di tre mesi? ».
Io mi mortificai e risposi che veramente sapevo che doveva sgravare nel mese di ottobre. Donna Maria rimase anche lei male e conMEMORIALE DAL CARCERE
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tinuò : « Scusate, io non sapevo. Così avevo sentito. La gente ne dice di tutti i colori! ».
Ritornato da M... appresi dopo qualche mese a N... che nel paese, non si sa come, si era sparsa la voce che io ero fidanzato ufficialmente con Aurora. E difatti dopo qualche giorno incontrandomi col podestà Angelo Spurio mi domandò : « È vero che sei fidanzato colla figlia di Armoni? Stai attento che se tu la sposi, sarò io il primo a non guardarti più in faccia! ». Distaccatomi da lui mi rammentai come diversi anni prima e quando ancora non conoscevo di fatto la famiglia Armoni, una sera al circolo alcuni amici miei compagni di giuoco, parte dei quali ora si trovano al mondo dell’aldilà, parlando sardonicamente di Aurora dissero che anche la madre una volta si era messa in testa che doveva sposare Iginio Milano, il quale rappresentava allora il più ricco signore di N..., e che perciò la figlia non poteva fare a meno a non seguire le orme della madre e ciò per un’altra fissazione che, a quell’epoca, sembra avesse avuta l’Aurora per un giovane figlio di signori di N... Intesi fare il nome poi di un altro individuo col quale si malignava che l’Aurora avesse avuto dei rapporti piuttosto intimi, ma io in quel momento m’interessavo così poco di certi fatti, che ci ridevo anch’io sopra e mi divertivo ad ascoltarli. Seppi più tardi che la ragione vera per cui la madre di mio cognato era nemica col fratello dimorante a N... era ben diversa di come l’aveva raccontata lei. Pare che un tempo mentre il geometra Anguria era fidanzato coll’Aurora preferiva corteggiare più la madre che la figlia; ed allora venuta la cosa all’orecchio del fratello, questi chiamò il cognato don Cesare Armoni per metterlo in guardia di ciò che si vociferava nel paese. Don Cesare si adontò e pronto rinfacciò il fratello di sua moglie con ira ammonendolo che doveva impicciarsi solamente delle cose di casa sua e non di quelle degli altri. D’allora in poi rimasero tutti nemici. A questo proposito mi viene a mente che verso gli ultimi tempi mia sorella un giorno mi diceva che la suocera di tutti parlava male in N... tranne del geometra Anguria e della sua famiglia e che una volta aveva solennemente dichiarato che quella donna che avesse sposato il geometra Anguria poteva reputarsi la donna più fortunata della terra, perché il geometra Anguria era il servo delle donne.
Ad ottobre sgravò mia sorella ed io dovetti pensare a tutto compreso all’onorario della levatrice ed ai viaggi dell’automobile di andata e ritorno dalla Marina di C..., considerato che la levatrice condotta138
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di N... non si era potuta chiamare perché era nemica colla madre di mio cognato. Fu verso questo periodo se non mi sbaglio che pregai il podestà di prestarmi duemila lire, il quale gentilmente me le diede e di ciò gli sono stato sempre grato, non solo perché altri non me le avrebbe date sicuramente, ma per quanto le avevo di grande ed urgente necessità. Non ricordo bene neanche se in questo frattempo dovetti vendere la macchina o poco dopo dato che ormai non la potevo più tenere.
Guarita mia sorella decisi di fidanzarmi e così un giorno le dissi:
« Anna, ormai intendo sposarmi, non solo perché così voialtri vi metterete subito a posto, ma anche per sfatare ciò che si dice per il mio fidanzamento con Aurora. Io vorrei sapere chi è stato che ha potuto mettere in giro questa fandonia! ».
«Io non certo e credo neanche tu. E Giacomo neanche perché sa bene che se tu non sposi una con dote, siamo tutti rovinati ».
«Ma come possono pretendere certe cose, se sono io, si può dire, che vi sto campando a tutti? ».
«Intanto lo pretendono. La madre e gli altri, pur di sposarla, sarebbero capaci di farci andare tutti quanti di porta in porta a chiedere Pelemosina. Me Phan fatto capire chiaramente. Anzi la madre mi ha detto che se lei ha acconsentito al mio matrimonio, ha acconsentito proprio per questo e che se tu la sposi, poi non si preoccupa più, neanche se la tieni come una donna qualsiasi. Però Giacomo, son sicura, che non c’entra».
«Questo non avverrà mai! E non perché son poveri in canna, ma principalmente per altre ragioni che non è neanche il caso di ricordare. Si dicono troppe cose sul loro conto! ».
«Anche questo c’è? Ed allora che cosa vogliono?».
«Ed io penso che la colpa non è tanto della figlia quanto della madre. E tieni presente, giacché tu ormai sei anche madre di una figlia, che quando succede una qualche cosa in una famiglia la colpa è sempre della madre, giacché se non vede o finge di non vedere ciò che fa la figlia, significa che la commedia piace anche a lei. Finché è successo a te, dato che eri sola e non c’era nostra madre, e passi; ma per loro non c’è giustificazione che tenga. Perciò, ti prego, e magari lo dirai tu medesima ad Aurora con le buone maniere, che io non potrò fare mai un passo simile e ciò, s’intende, perché navighiamo tutti, economicamente, in brutte acque ».
Da questo momento incominciarono le mie peregrinazioni perMEMORIALE DAL CARCERE
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potermi sposare; e ci tengo che tutti coloro che sono convinti diversa-mente sappiano, che se allora tutti i miei fidanzamenti andarono a monte, la ragione vera non fu perché mio cognato Giacomo o altri della sua famiglia costrinsero la mia volontà a non sposare, no; e non solo perché non avevano alcun motivo a poterla costringere, ma anche perché mio cognato aveva molto piacere che io sposassi, dato che gli avevo promesso anche che con la dote che avrei preso, avremmo aperto in società un importante negozio di tessuti od altro, ciò che rappresentava allora il suo sogno. Se i miei fidanzamenti finirono male del resto, finirono male solamente ed esclusivamente per la fretta con cui venivano combinati e ognuno sa che tutto ciò che si fa con la fretta non si porta mai a compimento. E se mio cognato Giacomo non potè presenziare mai ai miei fidanzamenti ufficiali la colpa è d’attribuirsi semplicemente, non c’è vergogna a dirlo, al fatto che momentaneamente, poveretto, non aveva neanche un vestito alquanto passabile per potersi presentare in una cerimonia simile. E giacché mi trovo, ci tengo a chiarire, fin da ora, che neanche quando poi, assai più tardi, mi decisi a sposare mia moglie, lo feci perché mi fu obbligato con la rivoltella in pugno dai suoi familiari, no; ma lo feci di mia pura e spontanea volontà, giacché nessuno aveva il diritto di obbligarmi ad un fatto simile, e per motivi che sicuramente non dimenticherò di dire fra poco. So bene che più d’uno asserì che mia moglie era già incinta all’atto del matrimonio, e, del resto, non si poteva non pensare altrimenti, data la fama e l’andamento della famiglia; però i fatti, in seguito, smentirono completamente le lord gratuite asserzioni, giacché per sfortuna o fortuna, io non lo so, mia moglie non ebbe mai figli.
Passò circa un anno e mezzo senza che io potessi sposare ed intanto erano successi diversi fatti. Avevo dovuto cambiare casa per due motivi: primo perché la famiglia Armoni aveva incominciato a dare fastidi al padrone di casa che abitava al piano terreno, per cui abbastanza seccato si era permesso di tenermi un discorso poco corretto, e poi anche perché avevo trovato una casa più corroda ed indipendente per me e che mi faceva risparmiare circa sessanta lire al mese. Don Cesare Armoni ad un certo punto, non sapendo più che pesci pigliare, dato che il negozio l’aveva chiuso definitivamente, decise di cedere a suo fratello un po’ di terra che gli restava ancora vicino a T... per millecinquecento lire e così con questo danaro se ne andò in Francia in cerca di fortuna. A ciò, in verità, l’avevo incoraggiato anch’io, giacché speravo che col tempo, come lui mi aveva promesso partendo, si140
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sarebbe richiamata colà tutta la famiglia, e se così il destino avesse voluto, oggi io certamente non mi troverei nelle condizioni in cui mi trovo. Ma il destino non permise, e non solo che consumò tutto ciò che aveva portato con sé, ma per quanto mi costò altre sei o settecento lire che dovetti mandargli in seguito.
Durante il periodo che don Cesare rimase in Francia, che non rammento ora se durò un anno o più, io dovetti, oltre al resto, dare tassativamente alla sua famiglia da dieci a quindici lire al giorno per la spesa giornaliera, e mi ricordo anche che dovetti pagare ancora per conto suo altre settecento lire circa di fondiaria e tasse arretrate per impedire che l’esattore vendesse all’asta, giusta la sua minaccia, un locale edificatorio, a cui loro ci tenevano tanto, limitante coll’abitazione dell’autista Michele Pannunzio. Fu in questo periodo ancora che il figlio Giovanni partì per soldato ed il figlio Lorenzo invece venne congedato, dato ch’era stato degradato da sergente a soldato, per il motivo vero che io non ho potuto sapere mai, e quindi non poteva fare più carriera. E per fortuna che suo zio Giulio Armoni, tocco da compassione, vedendolo ora gironzolare per le strade, lo mantenne agli studi e così divenne maestro elementare. Naturalmente gli Armoni, dopo che il loro figlio divenne insegnante, per contraccambiare lo zio del beneficio ricevuto se lo inimicarono di nuovo e poco mancò che non lo battessero e lo malmenassero stante le minacce che gli facevano in mia presenza e specie dopo che PArmoni Giulio si era deciso di sposare per la seconda volta facendo perdere loro la speranza dell’eredità. Appresi in seguito che PArmoni Giulio da tempo non varcava la soglia del fratello, come del resto non la varca tuttavia, proprio per non incontrarsi con la cognata e cioè con la mia attuale suocera, tanto vero che quando morì la prima moglie dell’Ar-moni Giulio, e, mia suocera abbassandosi un po’ dalla sua altezza, dato che dalla morte della cognata, che tanto un tempo aveva calunniata, ora sperava che le venisse qualche vantaggio, fece sapere al cognato che aveva intenzione d’andare a visitare la moglie morente., egli, per tutta risposta le mandò dicendo che non desiderava la sua presenza in casa sua e che lasciasse morire in pace sua moglie. Mia suocera allora senza scomporsi rispose : « Me ne strafotto di lui e di quanto è lungo! ». A questo proposito mi dimenticavo di dire, ma giacché ci siamo lo dico, che il frasario della mia suocera e di tutta la sua famiglia, in alcuni momenti era proprio d’ammirare, almeno da quel che potevo udire e sentire con le mie orecchie, e son certo che se i facMEMORIALE DAL CARCERE
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chini delPImmacolatella del porto di Napoli così rinomati ovunque per il loro frasario, avessero potuto udire e sentire anche loro, ne sarebbero rimasti quanto mai ammirati per non dire anche loro sconcertati. E non dimenticherò mai il fatto di quando una volta mia suocera ultimamente, non so più se in seguito ad una rissa alla quale sembra abbia preso parte anche il figlio Giacomo, giacché le risse in casa Armoni, di cui solo i vicini potrebbero dire qualcosa, erano all’ordine del giorno, ebbe a dichiarare: «Quando non c’è altro da fare,
io e le mie figlie, dato che ancora tutti ci vogliono perché siamo belle, ci metteremo sulla strada a chiamare chi passa e così staremo meglio d’ora...». Rifacendomi un po’ indietro debbo dire che dopo il mio primo fidanzamento, l’Aurora smise di frequentare la mia casa dimostrandosi con me indifferente e sprezzante; ma io, per far capire a tutti che li avevo trattati sempre come parenti e non per altre ragioni, continuai a frequentare, quando potevo, lo stesso la loro casa. Mia suocera però non si preoccupò affatto dell’Aurora e continuò anche lei nei miei rapporti ad essere tanto affabile e buona; e, senza perdersi d’animo, mandava ora a casa mia, colla scusa di aiutare mia sorella nelle faccende domestiche, considerato che la povera Anna era sola, diceva lei, Iva la mia attuale consorte. E perché, si potrebbe obiettare, non mandava l’altra, l’Elena, visto che l’Elena era più grande e quindi pronta per andare a marito? Eh, no! L’Elena non la poteva mandare per due ragioni essenziali. Prima perché c’era stata già una certa diceria con un certo Vincenzino Sofia figlio di marinaio, un bravo ragazzo in fondo, che sicuramente, se la mia suocera fosse stata una accorta e ottima madre di famiglia, avrebbe sposata l’Elena; ma poi anche perché l’Elena era un po’ bruttina e certamente non avrebbe fatta molta impressione sui miei sensi. La Iva allora aveva circa sedici anni ed era tutt’altro che brutta. Ma io non vedevo in lei la bellezza: vedevo l’inganno. Pensavo che quella ragazza lì, era costretta a rappresentare inconsapevolmente ed innocentemente una farsa poco pulita e tutto ciò mi rattristava e m’impietosiva. Ma qualcuno forse dirà: ma anche questo è amore? Sarà, ma io posso affermare che in quel momento sentivo solo pietà e compassione. E poi c’era mia sorella che aveva capito anche lei tutto il retroscena e sorvegliava e non permetteva, per un complesso di cose che ognuno può immaginare da sé, che io mi spingessi oltre i buoni rapporti affettivi di parentela, anche perché mia sorella era molto affezionata all’Iva, dato che quando era rimasta sola a M... l’aveva avuta per compagna, e non voleva farle142
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provare un’amara disillusione. Ed io amavo spassionatamente la Iva e la trattavo con molti riguardi e non solo per riverbero della particolare affezione di mia sorella, ma anche perché la mia indole e natura non era capace di trattare diversamente una donna e fu forse questa mia indole e natura che poi, quando fummo sposati, fece prendere il sopravvento a mia moglie nei miei riguardi. Ma mia moglie scambiò allora questo mio affetto, direi soltanto fraterno, per amore dei sensi; e, del resto, alla sua età non solo lei ma qualsiasi donna l’avrebbe scambiato; e quando poi, dopo un certo tempo, io alquanto seccato di questo suo abbaglio feci comprendere che non ne volevo sapere di niente e che non avevo intenzione di sposare, lei rimase male e per poco non fece una malattia, tanto vero che un giorno fummo costretti insieme a mio cognato di portarla a M... dal dott. Nino D’Ascola perché la visitasse attentamente per stabilire di che cosa si trattava. Il dott. D’Ascola non trovò niente di straordinario e così tutti ci pacificammo. Seppi in seguito che per il fatto che la Iva veniva da noi, ci furono in quel tempo, fra l’Aurora e la madre delle scenate, guerre, ingiurie scambievoli ecc. ecc. E dichiaro, fin da questo momento, che se io sono stato costretto fin qui a mettere in chiaro alcuni fatti poco piacevoli riguardanti le donne della famiglia Armoni, come del resto sarò costretto ancora nel seguito di questa esposizione, non l’ho fatto, né lo farò, per mia giustificazione, perché io ormai non ho nulla più da sperare dalla vita, ma l’ho fatto e lo farò perché mio cognato Giacomo impari a conoscere, e sempre che Iddio, o presto o tardi, gli voglia togliere dagli occhi il fitto velo dell’attuale sua perversa cecità, la gente in mezzo alla quale è vissuto ed a cui sono affidate ora le sorti delle sue tre figlie femmine.
Mi sovviene a questo punto che una volta e prima che il fratello Giovanni di mio cognato fosse partito per soldato fui chiamato d’urgenza dagli Armoni. Recatomi in casa loro vi trovai l’Elena con una mano spaccata in due da una larga ferita lacero contusa. Mi pregarono di medicargliela io alla meglio, perché, secondo affermavano loro,
il medico era assente. Io, dato che tenevo sempre in casa i medicinali, più urgenti, glie la medicai come meglio potei e seppi poi, più tardi, che la ferita all’Elena l’aveva prodotta il fratello Giovanni colpendola ripetutamente colla paletta di ferro della cucina.
Dopo che anche mio cognato Giacomo si persuase che difficile mente avrei potuto sposare bene facendo le cose in fretta, si decise di andare dal caro amico don Pietro Sorrentino, esperto capostazione cheMEMORIALE DAL CARCERE
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allora si trovava alla Marina di N..., allo scopo d’impratichirsi per poter sostenere l’esame d’assuntore. Io approvai l’idea perché pensavo che così mia sorella si sarebbe allontanata col tempo dal resto della famiglia Armoni per quanto mio cognato ripeteva spesso che se anche avesse vinto l’esame d’assuntore difficilmente se ne sarebbe allontanato da N... giacché non poteva lasciare la famiglia sola e senza alcun mezzo per vivere dato il momento che attraversava e che tutti dovevano mangiare senza che alcuno producesse affatto compreso il padre che era ancora in Francia e che dopo un certo tempo rientrò. E giacché dalla Marina di N... non si poteva andare e venire a piedi tutti i giorni pensai di comprare per l’occasione una bicicletta e la misi a sua disposizione. Mentre mio cognato si trovava alla Marina di N... conobbe un certo De Angelis anche questo capostazione, il quale aveva un fratello a Palermo grossista di calzature e così consigliò mio cognato d’impiantarsi a N... un piccolo negozio provvisoriamente, ciò che poteva fare con poca spesa, giacché per essere presentato dal fratello grossista ci pensava lui e lui era sicuro che col tempo avrebbe fatto fortuna giacché il tipo di calzature che trattava il fratello, dato che costava pochissimo andava sicuramente per un paese piccolo e rurale come N... Fu deciso e fu fatto. Io stesso feci comprare per tremila lire metà del locale di don Cesare dall’autista Miche Pannunzio
il quale me ne aveva parlato poco tempo prima e così mio cognato Giacomo andò a Palermo, portò le scarpe e verso l’estate del 1933, così mi sembra, il negozio s’impiantò coll’aggiunta di altra poca merceria che rimaneva dal negozio antico. Io stesso gli trovai il locale, che hanno tuttavia, sotto la casa di Angelo Chiarenza, col quale feci
il contratto e gli pagai pel momento il fitto e poiché il locale era molto grande fu stabilito di dividerlo a metà mediante un tramezzo e così provvisoriamente la metà anteriore fu adattata a magazzino e la metà posteriore per dormire mio cognato e mia sorella considerato che andare e venire da me non era possibile perché abbastanza lontano ed anche perché ormai ognuno di noi voleva rendersi libero per i fatti suoi.
Intanto la Iva aveva smesso anche lei di venire a casa mia, però
io avevo continuato lo stesso ad andare da loro, ma ora sia la madre che il resto della famiglia, benché si sforzassero di accogliermi come prima, pur si capiva benissimo che lo facevano per necessità e perché sapevano che ancora senza di me sarebbero morti di fame. La madre in ispecie si vedeva così chiaro che schizzava veleno da tutti i poriSAVERIO MONTALTO
della pelle che solo chi non avesse voluto per partito preso non avrebbe intuito la feroce malvagità contenuta e son certo che se lei avesse potuto mi avrebbe senza pietà e misericordia pestato sotto le piante dei piedi. Ma io pel momento fingevo di non capire e mi ripromettevo di allontanarmene definitivamente come infatti feci dopo un certo tempo. Anche mio cognato Giacomo aveva manifestato tutto ad un tratto la sua natura bestiale e violenta circa alcune screzie ch’erano nate ultimamente tra di noi, screzie che difficilmente si possono evitare nella vita in comune e prolungata; tanto vero che in una di quelle ultime sere che rimase in casa mia, non potendo sfogare diversamente, si mise a battere così violentemente la sua piccola Rosa, che io rimasi paralizzato senza avere nemmeno la forza di fiatare ed intesi che Panr tico freddo caratteristico di paura m’assaliva in tutta la persona più forte ancora di quando l’avevo incontrato un tempo a N... insieme a mia sorella ed all’altra faccia che non ebbi la forza di mirare.
Anche mia sorella aveva capito già molto ed aveva incominciato ad esserne vittima delle loro crudeltà. Ma allora taceva e solo si mostrava mesta e senza riso, perché sapeva che la colpa di tutti i suoi guai ed anche dei miei era stata lei. L’allegria di un tempo era scomparsa per sempre e così rimase fino alla fine. E se qualcuno poi la vide ancora ridere, non si trattava più del riso della vita piena e priva d’affanni, ma si trattava del riso che copre l’amarezza del cuore, giacché chi vive nella vita associata non può farne a meno, e che presto si dilegua non appena è passato il momento convenevole. Ma io l’amavo, ora assai più di prima, perché la vedevo così triste; se l’avessi saputa felice forse non ci avrei neanche pensato a lei; e fu questo il vero motivo che mi attaccò sempre più a lei. Qualche giorno prima d’andarsene, mi chiamò e mi disse:
«Senti Saverio! Io so tutto quello che fino ad ora hai fatto per me ed anche per loro. Ma se anche loro non ti fossero riconoscenti non fa niente, perché tu l’hai fatto per me e perciò non t’importa ». (A questo proposito la suocera affermava sempre con la sua solita ira e ferocia, specie verso gli ultimi tempi, che né lei, né i suoi mi serbavano gratitudine alcuna, perché ciò che avevo fatto io, l’avevo fatto esclusivamente per mia sorella e non per loro; e, forse, in ciò, non aveva torto). «Ma tutto il sacrificio che hai fatto fin’ora se tu ora ci abbandoni, è andato perduto, perché ora più di prima abbiamo bisogno d’aiuto. Di tutto quello che per il momento si guadagna, che sarà certamente ben poco, noi non possiamo toccare niente, giacché dobMEMORIALE DAL CARCERE
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biamo pensare d’ingrandire il negozio ed io spero fra pochi anni, con Giacomo che compra la roba, poiché in ciò è molto bravo come tu stesso hai potuto vedere, ed io che vendo come mi hai consigliato tu, e stai certo che io mi lascerò guidare da te e non da altri e che non farò come facevano loro che se un individuo entrava la prima non entrava la seconda volta nel negozio, di metterci in condizione di guadagnare per tutti e di non disturbare più a te. Perciò tu finché noi non ci metteremo a posto definitivamente ci darai due o trecento lire al mese, perché a te in fondo non ti fanno niente, e così noi pagheremo l’affitto del negozio e con qualche altra piccola cosa che arrangeremo possiamo, se non altro, comprare almeno il pane per vivere. Se poi abbiamo bisogno qualche volta di altro danaro per comprare momentaneamente della merce, ce lo darai lo stesso, se puoi, ma di questo m’impegno io stessa di restituirtelo non appena fatta la vendita, mettendolo da parte per te ».
«Non ti preoccupare, che farò tutto. Però vedi che ti avverto fin da ora, e lo dirai anche a tuo marito, che là dentro non deve venire nessuno a fare il soprastante e specie il padre e la madre, altrimenti non farete niente di buono ».
«Per questo neanche Giacomo ha fiducia in loro e glie lo ha detto già che nessuno deve venire a fare confusione. E loro, veramente, benché a denti stretti, hanno acconsentito. Momentaneamente, visto e considerato anche che si tratta di pochissima vendita, ci starò io ed Iva, perché Iva, come sai, mi vuole molto bene, ed anche a te, del resto, e son sicura che farà come le dico io. Io verrò da te ogni dopo pranzo per aggiustarti la casa e finché tu mi vuoi. Se poi hai bisogno urgente mi manderai a chiamare che lascio ogni cosa e verrò a qualunque ora. Tu verrai a sederti nel negozio la sera, quando non avrai a che fare; è vero che verrai? e così staremo sempre assieme come prima».
Dopo alcuni giorni se ne andò definitivamente a stabilirsi nel negozio. Tutto ciò che apparteneva a loro non c’era più ed anche Giacomo e Rosa erano andati via. Eravamo rimasti io e lei. Il sole stava per tramontare e lei si attardava ancora perché non era capace di distaccarsi. Né io avevo la forza di dirle: vattene! Ma ad un certo punto capimmo entrambi che non si poteva più rimandare ed allora lei attaccandosi con forza al mio collo si mise a singhiozzare. Anch’io singhiozzavo. Ogni tanto ripeteva:
«Mi perdoni? È vero che mi perdoni?».
« Ma di che cosa ? ».146
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(( Di niente! Dimmi che mi perdoni! ».
« Ti perdono! Ti perdono! ».
«E dimmi ancora che non mi abbandoni?».
«Ma via! Che sono queste cose Anna? Perché ti dovrei abbandonare? Tu mi conosci! ».
« Sì, sì, ti conosco! E perciò me ne vado un po’ tranquilla » e ripetendo ciò, per ben tre volte si attaccò di nuovo al mio collo baciandomi da forsennata. Poi uscì. Sulla via solitaria, giacché limitavo con la campagna, sostò un po’ per calmarsi ed asciugarsi le lagrime. Quando se l’ebbe asciugate, mi disse: «Non voglio farmi vedere che ho pianto, altrimenti chi sa che diranno! » e si mosse per andarsene.
10 rimasi sulla via per guardarla. Lei prima di scomparire nella discesa si girò, ma senza avere ormai la forza di dirmi più nulla. Poi reprimendo ancora le lagrime, scomparve. Quella faccia sconfortata e di dolore ancora mi attraversa l’anima da parte a parte e la porterò con me fino alla tomba.
Rimasto solo mi diedi allo studio. Veniva spesso da me il mio carissimo amico Giuseppe Larussa il quale si era dedicato agli studi letterari e mi consigliò molti libri utili che mi servirono in seguito di molto aiuto e conforto specie nei momenti difficili della mia vita. Ebbi anche in alcuni momenti la velleità di scrivere, ma scrivevo per me e non per gli altri e quando non avevo voglia di fare altro. Dapprincipio dormì per alcun tempo nella mia casa l’Ottavio il fratello minore di mio cognato, ma poi accortomi che riferiva tutte le mie cose ai suoi non lo feci venire più e mi feci fare tutto dal padre della persona di servizio che avevo ultimamente, dato che per trasportarmi l’acqua, giacché in casa non c’era, veniva da me da tempo.
Intanto io andavo quasi tutte le sere a sedermi nel negozio di mia sorella e qualche volta anche dagli Armoni e mia sorella veniva da me, ma la vedevo sempre più triste e che sfioriva e deperiva sempre più. Lei però allora non mi diceva mai niente, perché non voleva disturbarmi e perché, si vede, ancora i suoi guai erano • alquanto sopportabili. In questo frattempo mi ero accorto che il barbiere Armando Romeo, colla scusa che tagliava i capelli alle ragazze della famiglia Armoni, frequentava allo spesso e qualche volta anche con la moglie la loro casa e che l’Aurora, a sua volta, accompagnata di quando in quando dal fratello Lorenzo, frequentava anche lei la casa del Romeo.
11 Lorenzo la portava fino alla soglia della casa del Romeo e se ne andava. Il Romeo grato verso il Lorenzo lo forniva di qualche sigarettaMEMORIALE DAL CARCERE
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e lo invitava spesso a casa sua per dargli da mangiare qualcosa, considerato poveretti, come la stessa moglie del Romeo ripeteva, che se la passavano molto male. Il Romeo a quel tempo si vedeva spesso a braccetto del Lorenzo e qualche volta ci fu anche qualche scampagnata tra il Romeo e il Lorenzo e le donne della famiglia Armoni. Sapevo inoltre che nel paese per tutto questo si malignava abbastanza ed allora facendomi animo, un giorno dissi a mia sorella di dire a suo marito di cercare di allontanare il Romeo con le buone maniere, perché non era regolare che la famiglia coltivasse una così stretta amicizia mentre tra me e il Romeo non correvano buoni rapporti dopo uno sgarbo che alcuni mesi prima avevo ricevuto nel suo salone. Mia sorella trovò che il pretesto per non insospettire il marito era buono e così glie ne parlò. Ma né mio cognato, né sua madre vollero sentire ragione e specie la madre la quale intuì il vero motivo per cui bisognava allontanare
il Romeo e perciò inveì contro mia sorella e per poco non se la mangiò dicendole tutto quello che sapeva mettere fuori lei dalla sua bocca concludendo infine che nessuno doveva permettersi un’altra volta di muovere verbo sulla sua famiglia, perché la sua famiglia era la più onorata del paese di N... ecc. ecc. E perché mio cognato e famiglia non vollero allontanare il Romeo? Perché il Romeo passava per pezzo grosso dell’onorata società. E sia mio cognato che la sua famiglia avevano un sacro rispetto per tutti coloro che appartenevano all’onorata società e specie poi per i pezzi grossi. Loro se li guardavano i mali passi e come tutti i malvagi cercavano di prendersi la rivincita con i deboli, coi poveri diavoli, con mia sorella e anche con me in seguito, che mi sapevano più innocuo di un coniglio. Anzi ultimamente, data anche la mia statura, mi chiamavano proprio « il coniglio ».
10 d’allora in poi mi feci i fatti miei su questi riguardi. Questo fatto del Romeo e tanti altri che ho raccontati e che dovrò raccontare ancora della famiglia Armoni, voglio solamente che la Giustizia li apprenda,
11 indaghi se può, per conto suo, ma senza rendere notorio che li ho riferiti io, giacché a dire il vero, mentre li racconto mi assale un sacro terrore. La Giustizia del resto non sa niente della gente della famiglia Armoni perché se sapesse qualcosa, son certo, non si meraviglierebbe più di questo mio sacro terrore.
Dopo un certo tempo e quando il Lorenzo aveva conseguito già la licenza normale mi vidi arrivare in casa Giuseppe Panetta sarto. Si sedè e mi raccontò più morto che vivo che la sera avanti mentre la famiglia Armoni era in chiesa (perché mia suocera ed il resto della148
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famiglia sono assai devoti e pii, a modo loro, s’intende) il Lorenzo aveva attirato in casa una bambina di circa nove anni del Panetta ed aveva sfogato su di lei la sua libidine. Il Panetta aveva chiamato un dottore del luogo per far visitare la bambina, però non c’era stato alcun danno. Ma il Panetta si era rivolto lo stesso al Maresciallo e questi gli aveva detto di esporre regolare denunzia che poi ci avrebbe pensato lui. Allora io pregai e scongiurai il Panetta, dato che non c’era stato niente di positivo, di voler lasciar perdere altrimenti avrebbe rovinato il Lorenzo, perché sicuramente con un addebito simile non avrebbe potuto fare più l’insegnante, e più che per lui per il resto della sua famiglia.
Il Panetta per sua bontà mi esaudì e così finì la cosa a questo punto. Dopo qualche giorno chiamai il Lorenzo, gli raccontai il fatto, gli dissi tante altre cose che in quel momento mi suggerì la morale e l’ira, e, lui, dopo avermi ascoltato a testa bassa, si alzò e se ne andò sempre a testa bassa e senza aver avuto il coraggio di profferire una parola.
Venne il 1935, e giacché ancora dovevo dare le trecento lire mensili a mio cognato Giacomo e pagare per lui altre piccole spese che non ricordo più e che qualche debito pressava tuttavia e non potevo più rimediare, cedetti il quinto dello stipendio per cinque anni realizzando circa cinquemila lire. Fu verso questo periodo, mi sembra, che finii di pagare per conto di mio cognato al signor Marano Luigi la somma di lire seicento per legname che il Marano aveva consegnato ai fratelli Fontana al momento che sposò mio cognato per la costruzione della sua stanza da letto e per cui il Marano prima di consegnarla aveva voluto la mia garanzia. E fu qualche anno prima anche, almeno così mi pare, che un giorno mi vidi arrivare in casa tutta trafelata mia sorella Anna, la quale mi disse:
« Questa volta siamo rovinati! ».
Io spaventato domandai: «Che cosa è successo?».
«Che cosa? È successo che a Giacomo, mentre andava a Palermo per comprare la merce, gli hanno preso il portafoglio con mille lire ed anche col libretto dell’abbonamento » — mio cognato aveva l’abbonamento che io stesso avevo consigliato per potere sostituire volta per volta, poiché i capitali non c’erano, gli articoli che venivano a mancare nel magazzino — « Capirai che a noi mille lire ci fanno assai per quanto lui se la sente più per la figura che ha fatto che per altro. Difatti è nel letto perché dice che vuole morire e che non vuole sapere più di niente. Menomale che ha trovato uno di P... che gli haMEMORIALE DAL CARCERE
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prestato cento lire per il ritorno. Ora, se tu non fai quest’altro sacrificio, siamo perduti. Mi ha chiamato anche la suocera, perché la suocera quando ha necessità, io e te siamo i loro salvatori e tante altre cose belle. Poi quando non ha più bisogno, allora siamo.. Basta! Tu del resto quello che fai lo fai per me! ».
«Lo sapevo che tutti i guai li debbo aggiustare io?! E benché loro non meritano nulla, te le dò lo stesso, perché sennò ne vai tu di mezzo. Però tuo marito dovrebbe convincersi che il superuomo lo può fare solo con te e con me e non con gli altri! ».
« Lo so! Ma che vuoi che faccia, ormai che ci sono capitata? ».
Quando mia sorella se ne andò era molto contenta, perché sapeva che con queste altre mille lire, forse per qualche tempo non l’avrebbero tanto tormentata. Difatti, anche con me, si mostrarono alquanto affabili i signori Armoni per qualche tempo.
Verso l’estate del 1935, mi sembra, vidi di nuovo arrivare mia sorella trafelata e confusa : « Questa volta — mi disse — non vengo per me; ma vengo perché penso che conviene anche a te. Il suocero deve pagare ancora una cambiale di mille lire e più alla banca e sono avallanti lo zio della suocera don Bruno Zito e Audino Pasquale il marito di commare Vincenza, quelli che hanno la bettola di fronte al negozio che aveva una volta il suocero. Ora la cambiale ce l’ha l'avvi Spagna il quale si è rivolto allo Zito ed all’Audino — perché sa che
il suocero non può pagare. — Ieri sono andati in casa della suocera i figli di Audino, Giorgio e Paolo, che tu stesso sai che cosa sono, e li Ijanno minacciati che se non pagano e fanno avere dei grattacapi al loro padre, si finisce a coltellate. Ora sia la suocera che gli altri stanno tremando e non sanno come debbono fare perché vogliono pagare. Il suocero ha ancora quell’altra metà del locale vicino a Michele Pannunzio, perché come sai la casa l’hanno ipotecata per Aurora, quando hanno venduto la terra ch’era sua al Feudo e perciò il suocero sarebbe disposto a vendere il locale che gli resta a te, purché facciate una retrocarta che se fra due anni ti restituisce i soldi tu gli restituirai
il locale, se poi non ti restituisce niente il locale rimane a te. Tra cambiale, interessi e spese di notaio, se ne possono andare un millecinquecento lire e perciò penso che ti conviene perché il locale vale di più e seppure loro non lo ricompreranno trovi sempre a venderlo di più e non di meno».
«A dirti la verità del locale non ho cosa farmente, perché, vera150
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mente, penso di andarmene da N... o presto o tardi e specie quando vi sarete messi a posto definitivamente)).
« E te ne vai e mi abbandoni ? », disse mia sorella tremante.
«Ma no! Questo non sarà mai, perché dove vado vado ti manderò sempre quel che posso mandarti ».
« Ma io non parlo per questo, perché, per il mangiare, non m’importa neanche se muoio di fame! Parlo che rimango sola! Credi che loro si preoccupano di me? Si preoccupano solo quando hanno bisogno. Ormai è tanti anni che ti trovi qui, tutti ti conoscono e ti vogliono bene e dove vai non sai come ti trovi! ».
«Va bene, va bene! Ancora non me ne sono andato! ».
«Ed allora come restiamo; lo fai quest’altro bene?».
«Lo faccio! Ma sempre per te! ».
Dopo alcuni giorni andammo dall’avv. Spagna per pagare e ritirare la cambiale e mi ricordo che mio cognato Giacomo e suo padre pretesero anche una certa ricevuta, una specie di ricatto, per un altro certo imbroglio di altre quattro o cinquemila lire che avevano fra di loro, collo zio don Bruno Zito. Mentre accompagnavo questi verso casa sua ed eravamo rimasti soli, mi disse:
« Mi hanno rovinato e loro non si sono aggiustati! Mi hanno rubato più di quindicimila lire. Tutta la colpa però è di quella serpe della madre, perché il marito è un trastullo che lo comanda a bacchetta ed ora anche i figli. Compiango quella povera martire di vostra sorella! Dovete sapere che quella donna è stata la rovina di quattro famiglie: della sua, di quella di vostra sorella, della mia ed ora anche della vostra. Vi basti sapere questo: mentre erano falliti e sull’orlo del precipizio, quella signora ha preteso di essere portata dal marito a Palermo per divertirsi. Basta! » e mandò un sospiro.
E giacché mi trovo faccio presente che il locale da me acquistato, dopo due anni e quando ero già sposato, rimase a me perché il padre di mia moglie non trovò più conveniente per lui ricomprarlo anche perché non ci aveva i soldi. In quel periodo io mi ero deciso col tempo di fabbricare una casetta ed allora chiusi il locale con ferro spinato e vi piantai alcuni alberi in modo da trovarmeli cresciuti al momento opportuno, spendendoci sopra altre tre o quattrocento lire. Avevo trovato a chi darlo da coltivare ma mio suocero si oppose e lo volle lui. Ultimamente, dato che ciò che spendevo per farlo coltivare, non lo ricavavo perché pretendeva quasi tutto mio suocero, lo pregai di vedersela lui per le spese di coltivazione ed a me non dare piùMEMORIALE DAL CARCERE
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niente. Lui veramente per debito di coscienza ogni tanto portava lo stesso qualcosa. Seppi poi che ciò che ricavava dall’orto lo vendeva (si può interrogare un certo Patrizio Antonio bettoliere) oppure lo teneva esclusivamente per sé e se qualche volta dava alla sua famiglia oppure alla figlia Aurora sposata patate, pomodori ecc. se li faceva pagare anche da loro ed a caro prezzo. Con questa occasione seppi anche che mio suocero, oltre a dormire giù in un basso di casa come
il servo, mentre mia suocera sù a parte da principessa, mangiava e beveva anche a solo. Seppi anche, circa un anno fa dal cav. Giuseppe Levantino, che mio suocero aveva sparsa la voce che l’orto l’aveva dato a me per dote quando m’ero sposato con la figlia.
Si era arrivati così verso la fine del 1935. Io mi recavo la sera sempre da mia sorella però da qualche tempo a questa parte la vedevo più triste del solito e che si riduceva sempre peggio anche fisicamente dato che allattava ancora la seconda bambina. Gli affari del negozio andavano bene principalmente per opera sua, giacché sapeva accogliere con le buone maniere i clienti giusto come l’avevo consigliata io, tanto vero che un giorno di quelli era ritornato per acquisti il cav. don Giacomo Tavella dopo un certo tempo ed aveva esclamato: «Ma qui avete fatto proprio cose da pazzi in pochi anni! ». E poi anche i vicini amavano e stimavano molto mia sorella, perché lei amava e stimava tutti. Una sera la vidi più triste del solito. Io volevo domandarle che avesse, però non dicevo niente perché avevo paura di sapere. Lei allora quasi facendo una risoluzione improvvisa diede la piccina ad Iva e mi portò dalla parte di dietro del magazzino al di dà dove dormivano vicino al gabinetto in un sottoscala ove lei faceva con la spiritiera qualcosa da mangiare per sé perché il marito mangiava sempre dai suoi. Lì giunti si mise a piangere. Io intesi che il cuore incominciò a tumultuare e che tremava tutto. Domandai: «Ma ch’è successo?».
« Oggi mi ha preso colla correggia! » e così dicendo si scoperse un braccio e mi fece vedere le lividure. Mi mostrò anche al collo e mi disse che aveva anche nelle spalle. «Io non volevo dirti nulla ma non ne posso più! Non è la prima volta. Fino ad ora però non l’aveva fatto nel negozio, ma oggi anche nel negozio in presenza di gente.
Io non per le botte, perché ormai sono abituata alla sofferenza, ma per la gente e perché penso che certe cose non le merito dal marito».
« Ma perché tutto questo? ».
«Per niente! Per un nonnulla! A volte è una bestia, non ragiona affatto! Ma non è lui, è la madre! Forse lui non sarebbe così cattivo! ».152
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A questo punto uscì nel negozio e ritornò. «Non voglio che arrivi qualcuno e che sospettino che ti racconto qualcosa, perché altrimenti mi ammazza del tutto. Iva non parla! È Tunica, ma gli altri uno peggio delTaltro. C’è la madre poi che non c’è l’eguale sotto il sole, ed è proprio lei che aizza il figlio ».
«Ma che vogliono insomma? ».
«Lo sai tu che vogliono? Vogliono che vedono che io so adattarmi a tutto; ecco mi son ridotta qui in questo buco e se mi mandano da mangiare mi mandano e se nò con un uovo sto una giornata quantunque debbo allattare la bambina; vedono che io so fare tutto meglio di loro, vedono che io so vendere anche meglio di loro, vedono che non dico mai niente, vedono insomma che io non sono come loro e per questo, apriti cielo! Se poi parli con loro?! Loro son belle e giovani ed io son vecchia che non mi meritavo mai un giovane così bello, così sapiente e che so io; loro sanno fare tutto e sono econome ed io non so fare niente e sono sperperona, loro sono aristocratici ed io sono figlia di gente bassa e di pezzenti, che non ho portato dote, perché per un giovane come lui dovevo almeno almeno portare centomila lire; loro poi sono le più oneste e tutte le altre compresa io sono tutte prostitute. Figurati che non potendo dire altro, hanno detto che tu vieni nel negozio perché ti faccio da mezzana per Grazietta Mo-rabito, solo perché hanno visto che qualche volta è entrata qui. Ti ricordi quella sera quando mio marito venne cogli occhi stralunati? Menomale che ha trovato Grazietta sulla porta altrimenti sarebbe stato capace di fare non si sa che cosa. Così ho paura di parlare anche con i vicini e devo inimicarmi con tutti come sogliono fare loro».
«Sai che fai Anna? Cerca di evitare quanto puoi perché col tempo, quando sarete soli tu e tuo marito, si spera che cambierà questa situazione. Per ora soffri in silenzio! ».
« Peggio! L’altro giorno la suocera mi ha detto tante che mi vergogno anche di dirle; neanche i facchini della stazione. In ultimo se la pigliò anche con nostra madre morta. Nostro padre poi, non è che un ubbriacone miserabile! Io mi misi a piangere senza dire nulla e mi alzai per venirmene qui. Lei allora più inferocita, mi prese dai capelli e mi diede uno schiaffo, trattandomi da scostumata e da villana ».
« Ma tuo marito che dice? »
« Mio marito è peggio degli altri e dice che sua madre ha sempre ragione! ».MEMORIALE DAL CARCERE
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«Ma è possibile^che non capiscono che se non fosse stato per te e per me a quest’ora andrebbero a chiedere l’elemosina di porta in porta? ». '
«Loro non capiscono niente. Mio marito ha detto che se non mi avesse sposata lui, non mi avrebbe sposata più nessuno e che perciò quello che hai fatto fino ad ora è niente e che devi dargli ancora le cinquemila lire».
«Ah sì? Allora digli che facciamo i conti di tutto quello che ho sborsato fino ad ora, togliamo le cinquemila ed anche il valore della casa di M... che resta per me e la differenza me la restituisca. Fino ad ora credo che ho speso oltre le ventimila a dir poco».
«Queste dice che non contano».
« Io adesso lo voglio chiamare e parlargli ».
« No, no; per carità; sarà peggio! Per ora fai in conto che non sai niente. In seguito si vedrà».
«Lo so quello che vogliono! Ma è possibile che dopo che mi sono sacrificato fino a questo punto, vogliono anche che sposi la loro figlia? E poi, con simile gente, chi vorrebbe mai avere a che fare? ».
«Lo so anch’io. Ma intanto loro lo pretendono, perché dicono che tu non sei meglio di loro e che non sei neanche meritevole di appa-rentare con loro. Certo finché hanno avuto bisogno di te e la cosa si poteva sopportare in qualche modo, ma ora che vedono che incominciano a non avere più bisogno di te, ti assicuro che son cose che non le auguro neanche agli animali irragionevoli ». e si mise di nuovo a piangere. Quel pianto mi attraversava l’anima ed il cuore. Non so perché: io qualsiasi pianto sopportavo, anche quello delle altre sorelle, ma il pianto di questa mia sorella non ero capace di sopportarlo. Vedevo che soffriva per avere troppo amato, vedevo ch’era vittima dell’ingratitudine e che soffriva perdavvero, perché le persone molto sensibili soffrono per davvero, e non sapevo darmi pace. Cercai di dominarmi per poterla confortare; poi rimasi ancora un po’ nel negozio e me ne andai.
Per quella notte non dormii, né per altre notti appresso. Non sapevo mettermi assolutamente il cuore in pace, né sapevo intanto quale risoluzione prendere. Volevo chiamare mio cognato, ma avevo paura, non tanto per me, quanto per mia sorella e rimanevo indeciso. Ed ora non solamente avevo paura di lui, ma di tutti i presenti della famiglia, perché proprio sapevo che tutti potevano fare del male a mia sorella. Dopo qualche tempo m’incoraggiai e chiamai mio cognato. Lui dap154
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prima si sorprese, poi si addolorò, poi disse sarcasticamente che credeva di potere correggere sua moglie perché pensava che appartenesse a lui e che fosse cosa sua, ma che ora che sapeva che non era cosa sua, non si sarebbe più permesso neanche di parlare più una parola; si alzò ed uscì.
Le cose dopo un certo tempo si aggravarono sempre più come aveva previsto mia sorella. Io ora quasi evitavo di andare da lei per non vederla soffrire e mi trovavo al colmo dell’esasperazione. Eravamo arrivati già fin verso la fine di febbraio del 1936. In una notte di maggiore esaltazione e disperazione trovai la via d’uscita o per lo meno mi sembrò di trovarla. Difatti la mattina mandai a chiamare d’urgenza mia sorella. Non appena entrò, senza neanche lasciarla respirare le dissi: «Ho deciso di sposare Iva! Dirai a tuo marito che faccia tutto lui, giacché io non voglio avere seccature, e che fra quindici giorni saremo marito e moglie. Dirai ancora che non intendo invitare nessuno e che sposerò di sera tardi. Gli dirai pure che non voglio né mobili né vestiti per lei, né altro perché è sufficiente quello che ha; si porti soltanto un materasso perché il lettino c’è già anche per lei ».
Mia sorella mi guardava incantata. Poi mi disse:
« Ma vedi che se si tratta di un capriccio momentaneo, ti pentirai. Peggio ancora se non le vuoi bene! ».
«Le voglio, le voglio; non te ne preoccupare! Il matrimonio non è un istituto d’amore, anzi, i grandi uomini, affermano che è la tomba dell’amore. Il matrimonio è un istituto etico e cioè, in altre parole, marito e moglie si debbono volere bene, aiutare e rispettare principalmente come fratello e sorella, madre e figlio e via discorrendo. E guai, dicono gli stessi grandi uomini, se i genitori dovessero poggiare i loro occhi sul capo dei figli in qualità d’amanti. E se la moglie non tradisce il marito non lo tradisce in ossequio a questo principio di eticità e non perché non sarebbe tentata a farlo, giacché la natura è così. Cerca di spiegare ciò a lei con parole tue. Mi capisci? ».
«Ti capisco! E son certa che con te non avrà a soffrire anche se tu non dovessi volerle bene; per quanto questo, non è possibile. Ma sì! E poi dobbiamo restare in perpetuo a questo mondo? Tu stesso hai sempre detto che fra cinquantanni, al massimo, saremo tutti cenere ».
«Tu a lei dirai che la sposo perché le voglio bene e perché non parla mai ed è la più affezionata con noi. Però il matrimonio si faràMEMORIALE DAL CARCERE
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sotto certe condizioni: anzitutto dobbiamo dormire a parte e tuttocciò non per venire meno agli impegni coniugali. Con te si può parlare perché sei sposata. Il fatto di dormire separati, se mai, dovrebbe servire a maggior stimolo dei sensi. Ma la ragione è ben altra. La ragione è che io ormai mi avvicino ai quarantanni ed abituato a dormire finora sempre solo, non sarei capace ad abituarmi in compagnia. E poi gli aristocratici dormono ognuno per conto loro. Fingiamo di essere anche noi aristocratici e tutto è fatto! In secondo luogo lei mi dovrà obbedire in tutto quel che io dico in casa per il motivo che io ho più esperienza di lei; non debbo essere disturbato, perché intendo studiare e per il fatto che non sa né cucinare, né fare altro non importa perché si abituerà insieme a me. Come sai, io so fare tutto. Desidero infine che dopo sposati nessuno deve venire in casa mia a rompermi il capo, perché ora basta; e, certo, non devono pretendere più nulla da me, comprese le trecento lire al mese che vi ho date fino adesso, perché ormai col negozio che è a buon punto e col fratello Lorenzo che sta all’Africa potete vivere, facendo un po’ di economia, s’intende, abbastanza bene».
« Certo, ormai, queste cose le devono capire anche loro ».
« Ah! Dimenticavo di dirti che la cosa essenziale è che sua madre non dovrà comparire mai in casa mia e neanche in chiesa la sera del matrimonio. E su ciò non transigo in modo assoluto! ».
«E se non accettano?».
« Allora il matrimonio non si fa ».
« E se Giacomo mi domanda perché non sposi la grande? ».
« Gli dirai che non sposo la grande perché non mi va il suo carattere e che non sposo Elena per la stessa ragione. Del resto potrei sposare tutto al più una donna con trenta o quaranta mila lire di dote. Sarebbero tante e tali, le pretese che sto certo che non basterebbero neanche per mettersele addosso. Mi conviene allora sposare Iva con la camicia, perché so che non può avere nessuna pretesa e che faccio un bene per tutti».
Mia sorella più confusa che persuasa se ne andò per portare la lieta novella.
Il giorno dopo ritornò felice e contenta dicendomi:
«Finalmente sono finiti i miei guai!».
« Che ti hanno detto? ».
«Figurati! Tutti contenti: tranne di Aurora, s’intende. La madre ha fatto una smorfia, quando ha sentito che non vuoi saperne di lei,156
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ma poi contentissima anche lei e non sanno ora tutti come carezzarmi e volermi bene. Anzi la suocera mi ha dichiarato espressamente che ora che si fa questo matrimonio, è pensiero suo come deve trattare me e i miei figli. Giacomo però sai che cosa mi ha detto ridendo? Non credo che tuo fratello farà anche con noi come cogli altri fidanzamenti? Io Tho rassicurato ed allora egli mi ha fatto capire che il letto ed una cassa li fa lo stesso, a spese sue, tanto per fare vedere che c’è il letto matrimoniale se viene qualcuno. Per dormire assieme o divisi, son cose, che riguardano te e tua moglie. Egli, quando vuole, certe cose le capisce bene».
«Ed Iva?».
« Iva mi ha detto che lei è contentissima anche se tu le dirai di stare o di dormire in cucina. Per tutto il resto quando sentirai una parola dalla sua bocca di cucirgliela coll’ago. E poi bisogna dire che ti vuole assai bene ed anche a me ». \
Quel giorno mia sorella fu ancora felice ed anch’io fui felice benché di una felicità non tanto normale.
Il fatto si propagò immediatamente nel paese e dopo alcuni giorni, venuto a trovarmi il mio amico Giuseppe Larussa, gli comunicai la mia decisione. Lui preoccupato mi rispose: «Non credo vi siate regolato bene! Io, caro amico, non vi consiglio mai una cosa simile! ».
« Ma se io mi son deciso principalmente per mia sorella? ».
« Lo capisco benissimo! Ma non risolverete lo stesso la situazione ».
«Ma se ormai non posso ritornare indietro?».
«Fate come credete, perché voi siete l’arbitro, ma per me è così! ».
Benché il mio amico Larussa fosse allora assai giovane, si vede, era assai più saggio di me. Poi gli domandai : « E la gente che dice ? ».
« Dice che siete impazzito! ».
Difatti quando dopo alcuni giorni feci le pubblicazioni, vidi che tutti gli amici del Municipio mi guardavano un po’ circospetti ed alquanto confusi. Ma io ormai non vedevo più nessuno. Né diedi ascolto a mio padre, piombato a N... non appena il fatto si propagò anche a M...
Sposai il 15 marzo di quel 1936. Fu uno dei giorni più sconfortati della mia vita: non uscii affatto e passeggiai solo tutto il dì su e giù per le stanze della mia casa. Non so perché: un sentimento lugubre mi attanagliava il cuore. Solo potevo prendere un po’ di pace pensando continuamente al Fedone di Platone. Vedevo il modo ieratico, calmoMEMORIALE DAL CARCERE
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e sereno con cui il grande Socrate aveva avvicinate le mani al calice della cicuta e mi veniva da piangere. Piangevo e così mi calmavo.
Verso le tre del pomeriggio venne mia sorella e mi aggiustò il letto e mi rassettò la casa. Poi piangemmo a lungo assieme, mi baciò ripetutamente ed andandosene mi disse : « Ora ci vediamo domani dopo mezzogiorno ».
«Perché; stasera non vieni?».
« No; perché Giacomo dice che dato che non viene nessuna delle donne, non debbo venire neanche io».
«Sta bene! Sia fatta la sua volontà!».
« Ma tu verrai lo stesso quando esci da me? ».
«Verrò! Dove vuoi che vada?».
La sera assistettero alla cerimonia in chiesa Giuseppe Larussa, il sacerdote don Paolo Canale, l’Arciprete ed il sagrestano di cui non si poteva farne a meno e tutti gli uomini presenti della famiglia Armoni. Mi accompagnarono anche a casa e poi subito se ne andarono. Così passò la mia giornata di nozze.
Dopo alcuni giorni che fui sposato, tenni questo discorso a mia moglie: «Ascoltami Iva! Come sai ancora io mi trovo con debiti e perciò per il momento dobbiamo fare la massima economia ed arrangiarci come si può. Significa che in seguito quando ci troveremo meglio, poi, se dobbiamo fare qualche spesa in più, la faremo. E poi come sai anche c’è mio padre a cui debbo pensare solamente io e c’è anche mia sorella di R... che ha molto bisogno ed ogni tanto la debbo aiutare pure. Che vuoi; son fatto così! Non sono capace vedere soffrire i miei ed io scialare e godere. Per il fatto di tua madre, io non ti dico di non andare a vederla, perché so che non te lo posso proibire; però ricordati che meno vai o se non vai del tutto è meglio ancora. Tua madre è combinata in modo che uno più lontano sta e meglio è. Ti dico ancora che io le voglio tutt’altro che male; anzi il male che voglio a lei, Iddio lo faccia ricadere su di me; ma è così. Forse poveretta, dato che è fatta così, neanche lei ci ha colpa».
Mia moglie fu molto contenta di questo discorso. In casa stava sempre in silenzio, non faceva mai niente senza di me, anche perché non lo sapeva fare e così pian piano sotto la mia guida, si abituò a fare tutto ed anche bene. Per qualche anno le cose procedettero a meraviglia giacché non andava mai da sua madre e seppure andava, stava un po’ e poi ritornava a casa. Anche per mia so'rella le cose sembrava an158
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dassero bene. Ma dopo qualche anno la situazione peggiorò di colpo e più di prima, anche perché ora non si poteva più rimediare.
Si era, mi sembra, verso il maggio del 1937. Un giorno mi mandò a chiamare mia sorella mentre suo marito era assente. Mi portò nel solito sottoscala e mi raccontò con le lagrime agli occhi che di nuovo avevano incominciato a martirizzarla, che suo marito l’aveva picchiata diverse volte e che se prima del matrimonio le soleano usare un po’ di riguardo, adesso niente del tutto e che il cagnolino che avevano contava in quella casa assai più di lei ed era trattato assai più di lei.
Io non volli sapere altri particolari per non indignarmi di più, la pregai di sopportare e me ne andai. Mentre mi ritiravo a casa intesi che non vedevo più dagli occhi e che la testa mi girava come un mulino. Arrivato a casa non ero capace di sopportare la presenza di mia moglie e senza ragione, si può dire, sfogai con lei la mia disperazione. Li trattai d’ingrati e di gente perfida e tutto quanto sapevo della sua famiglia di poco pulito glie lo scaraventai in faccia senza pietà. Lei sentendosi tocca sul vivo e che ciò che dicevo rispondeva a verità, si mise a piangere e poi fece per andarsene; ma giunta fuori la porta ritornò e si coricò. Io dopo sfogato capii che lei in fondo non c’entrava e ritornato in me subito cercai di riparare al mal fatto chiedendo scusa a mia moglie e rifacendomela amica. Ormai non ci pensavo più a ciò ch’era avvenuto, quando dopo alcuni giorni, nel pomeriggio ti vedo arrivare mia suocera cogli occhi del cane arrabbiato. Era questa la prima volta che veniva in casa mia dopo che mi ero sposato. Mi chiamò nello studio, chiuse la porta, mi fece sedere, sedè anche lei ed incominciò a dire :
« Sappiate che la mia famiglia è la prima di N... ed io sono figlia di chi sono figlia (suo padre poveretto era ciabattino), perché mio padre era il primo negoziante di questi contorni e non a torto i miei figli mi chiamano la padrona di sette paesi. E sulla onestà e serietà mia e delle mie figlie non si è mai permesso nessuno di dire il minimo che, perché io non sono una di quelle bagascione vecchie come vostra sorella che se non la sposava mio figlio non l’avrebbe sposata più nessuno. Capite? Non perché vostra sorella trovò mio figlio per coprire le corna a lei ed a voi?! Capite? Quale dote ha portato? E voi che cosa siete di fronte a me e mia figlia? E non perché ho accettato allora! Credete che ho dimenticato che avete preteso che io non assistessi al matrimonio? Per questa volta a voi vi lascio stare, ma vostra sorella d’ora in avanti ha a che fare con me. E sappiatelo una buona voltaMEMORIALE DAL CARCERE
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per sempre che se mia figlia deve avere ancora il minimo dolor di testa, prima di tutto vado da vostra sorella e la squarto a quattro pezzi e poi per voi se ne parlerà; e, se non basto io, ho quattro giovani di figli ed un marito che non hanno cosa pensare! ».
Si alzò ed 'uscì.
Fui preso dalle contrazioni tetaniche. Mi misi a letto vestito e con diverse coperte addosso, ma i denti mi ballavano lo stesso dal freddo.
Il cuore dal tumulto non lo sentivo più. Mi misi ad urlare e per fortuna che la casa era isolata e quasi in campagna. In questo momento entrò nella stanza di furia il fratello Giovanni di mia moglie, mi guardò bieco ed uscì. Ad un certo punto perdei completamente la coscienza e mi assopii. Rimasi qualche giorno a letto ma poi alzatomi mi sentivo come intontito e così rimasi sempre, si può dire, nei momenti di calma, fino alla fine.
Verso i primi di agosto di quell’istesso anno mentre una sera ritornavo da M... caddi dalla motocicletta e per poco non ci lasciai la vita. Riportai varie ferite alla faccia, alle mani ed al ginocchio-; ma il colpo principale l’ebbi alla regione temporale destra con conseguente edema e periostite di cui ancora ne rimane qualche traccia. Rimasi nella cunetta per un periodo che non ho saputo mai precisare e quando rinvenni e mi vidi di nuovo in mezzo alla strada non sapevo più orizzontarmi dove mi trovassi. Le prime cure me l’apprestarono pietosamente e cortesemente i signori Muratore e poi venni curato definitivamente dal dottor Giulio Castagna, il quale in quel tempo lo credevo amico e benché stesse allora nella borgata S. Giuseppe, alquanto distante dal paese, ormai era divenuto medico di famiglia di mia suocera e di mia sorella dietro mio suggerimento dato che cogli altri medici del centro mia suocera non era in buoni rapporti. Anzi dopo che incominciammo a chiamarlo noi acquistò una certa clientela pure nel centro, tanto vero che intese la necessità di stabilirsi quivi. E ciò lo fece anche per suggerimento di mia suocera, giacché dopo un po’ di tempo era diventato l’idolo della famiglia. Il Castagna da parte sua, per sdebitarsi da tanta idolatria, non si stancava mai, specie in quel periodo, di frequentare la casa della mia suocera, sia che c’era e sia che non c’era bisogno dell’opera sua. Mi ricordo a questo punto che una volta parlando con Giuseppe Larussa dei miei guai di famiglia ebbe a dirmi queste parole: «Caro amico, non ve l’abbiate a male, ma io non ebbi allora, quando venni a trovarvi in seguito alla vostra caduta, una bella impressione di vostra moglie. Mi rammento che mi ricevette con160
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una faccia così fresca e sorridente che non solo mi sorprese, ma mi addolorò! ». Ma io ormai conoscevo mia moglie e non mi fece tanta specie. In occasione della mia caduta mia suocera venne in casa mia col resto della famiglia ed io in fondo ebbi piacere, perché speravo così di placare in qualche modo la loro malvagità verso mia sorella e che forse ritornando tutti amici l’avrebbero trattata un po’ meglio. Verso la fine di agosto ero quasi guarito e mi recai alla festa di S. Rocco con mia moglie, quantunque non ci volevo andare, perché mi trovavo in lutto stretto dato che mio padre era morto il marzo precedente. Ma lei insistè ed io, sempre per evitare conseguenze disastrose verso mia sorella dovetti acconsentire. Al ritorno da S. Rocco, un giorno rientrando dal mio ufficio verso mezzogiorno trovai mia moglie inviperita e la persona di servizio certa Grazia Marina tutta graffiata e malmenata pronta per andarsene via perché il mio cognato Giacomo, non so più per quale ragione, l’aveva accompagnata a schiaffi ed a calci dal negozio fino alla piazza della stazione. La poveretta mi disse che per me sarebbe rimasta per sempre, ma per loro, ora che si erano permessi a tanto, non poteva stare più. Io ingoiai la pillola, la pagai e la mandai e dopo un po’ di tempo presi la persona di servizio che ebbi poi fino all’ultimo.
Dopo la caduta il mio fondo trepido e pauroso aumentò sempre più e dovetti fare grandi sforzi per potermi assicurare di nuovo sulla motocicletta.
Dopo qualche tempo, mi sembra, ritornò il fratello di mia moglie Lorenzo, il quale si era riabilitato in Africa divenendo S. Tenente di complemento e per cui io ebbi molto piacere. Quando aveva appreso del mio matrimonio aveva scritto una lettera a mia moglie dicendole ,della grande fortuna che aveva avuto a sposare me ed a me chiedendo scusa pel fatto dell’incidente colla figlia di P anetta giustificandosi che allora si era trattato di una vile calunnia.
Quel Natale andai a passarlo cogli Armoni, come buona parte .delle feste successive, benché a malincuore e sempre per accontentare mia sorella, la quale ogni volta mi diceva: «Se non vieni, se la pigliano con me e son sicura che non mi lasciano venire più da te. E poi se non vieni tu con chi vuoi che io passi le feste? Con loro? Con loro e cogli estranei è tutt’uno! E poi, dato che tu non devi pensare più per le spese del pranzo, come una volta, in verità, ce ne hanno molto piacere, specie Giacomo, perché a te son sicura che ti voglionoMEMORIALE DAL CARCERE
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bene ed anche per dimostrarti che ora che spendono loro ti desiderano più di prima ».
La sera di quel Natale dopo cena venne un certo mastro muratore Pierino Lombardia con la famiglia, il quale stava riadattando la casa degli Armoni e così ci mettemmo a giocare a nocciole tutti quanti, tranne dei fratelli maggiori di mia moglie che si trovavano già fuori per i fatti loro. Ad un certo punto mia sorella aveva perduto tutte le nocciole e disse di non volere giocare più. Mia suocera allora adirata se ne uscì con queste parole : « Giuoca, pezzentona scostumata! ». Io a queste parole rimasi interdetto anche perché c’era la famiglia del Lombardia ed alzandomi dissi di non volere giocare più neanche io. I Lombardia anche loro sconcertati si alzarono e se ne andarono. Come loro se ne furono allontanati, io dissi a mia moglie: «Andiamo! E questa è la prima e l’ultima volta che entro in questa casa! ». Successe un trambusto che non si capiva più niente. Mia suocera dato che non poteva sfogare con mia sorella perché c’ero presente io incominciò a strillare ed a urlare ed a battere le figlie femmine da sembrare impazzita. In questo mentre arrivò l’insegnante Lorenzo ed anche lui si mise a battere le sorelle senza ragione. Io rimanevo paralizzato ed intontito e non sapevo più dove mi trovassi. Ad un certo momento mia suocera mandò un ultimo strillo sibilante e penetrante da spezzare le cervella e cadde svenuta per terra. L’insegnante disse: « Mettetela a posto, perché se arriva Giacomo vi fa tutti a pezzi! ». Io tremavo come una foglia. Capii che forse la causa di tuttocciò ero stato io e mi piegai e baciai mia suocera chiedendole perdono per farla rinvenire. Sento ancora sulle labbra l’impressione di aver baciato un serpente. Ma con tuttocciò mia suocera non rinvenne lo stesso e si dovette portare di peso sul suo lettino ove rimase per diversi giorni e svenuta per tutta la notte e buona parte del giorno appresso. Io dopo un certo tempo pregai tutti i . presenti di non dire niente a Giacomo ch’eravamo stati io e mia sorella la causa di tutto quel guaio e me ne andai con mia moglie. Non ricordo più ciò che mi fece e mi disse mia moglie in quella occasione; ma penso che mi avrà combinato un fac-simile della madre. L’indomani sera ritornai da mia suocera per chiederle nuovamente scusa e perdono e così lei dopo alcuni giorni si alzò dal letto. Seppi in seguito che quello era lo stratagemma prediletto di mia suocera quando si sentiva nel torto e non poteva avere ragione altrimenti sopra i suoi familiari più o meno autorevoli. E difatti quando, in seguito, una volta ebbe una questione seria col figlio162
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Giacomo in cui il torto era suo, si mise a letto svenuta dicendo di volere morire e senza rispondere alle preghiere e lamenti di nessuno compresi i miei, giacché nei momenti difficili o che avevano bisogno di prestiti ricorrevano a me per mezzo di mia sorella innalzandoci momentaneamente più o meno alle stelle secondo i loro bisogni più o meno urgenti, e per farla rinvenire il figlio Giacomo, quando dopo diversi giorni si preoccupò che forse voleva morire per davvero, dovette ricorrere al dott. Castagna, il quale a stento riuscì a farla rinvenire consumando una buona dose di ammoniaca. E se non mi venisse da piangere potrei descrivere le mosse bizzarre che mia suocera fece nel letto all’odore penetrante dell’ammoniaca prima di aprire gli occhi definitivamente. Faccio presente a questo punto che il bene di mia suocera era sterminato ed immenso come il mare per i suoi familiari che sapeva che gli potevano dare da mangiare e da bere, ed infatti il marito dopo che fallì e che non fu più in condizione di darle pranzi suntuosi, divertimenti ecc. non lo potè più né vedere e né sentire. In questa occasione me ne accorsi che il Castagna aveva già un certo de^ boluccio per mia cognata Aurora, però per mia moglie non potevo pensare mai che avesse fin d’allora forse lo stesso debole. Mi dispiacqui, perché non mi aspettavo mai, non per loro, ma per me, dato che il Castagna lo credevo un amico, che lui avesse abusato a tanto. Né dissi mai niente a nessuno, perché sapevo come la pensava la famiglia Armoni e che certamente sarei passato per calunniatore e che le conseguenze le avrei dovuto sopportare sempre io e la mia povera sorella. In questo frattempo però avevo incominciato a notare che mia moglie andava acquistando sempre più il carattere della madre, specie se veniva in casa qualcuno di condizioni sociali piuttosto basse, giacché si faceva avanti sempre lei per cercare di civettare e mettere in mostra le sue fattezze. Io tremavo dentro di me senza darmi neanche ragione del vero motivo. Dopo meno di un anno dalla morte di mio padre, mia moglie si tolse il lutto dicendo che le faceva male e mentre
io e mia sorella continuammo a portarlo, lei vestiva gli abiti smaglianti; non solo, ma pretendeva che io l’avessi accompagnata per le vie della città per potere mettere in mostra il suo splendore e la sua bellezza. Seppi poi ch’era stata la madre a consigliarla, dicendole: «Ma sì! Che cosa pretende quel coniglio di tuo marito, che una bambola come te s’invecchi di colpo per un vecchio rimbambito e miserabile come suo padre ? ».
Si era verso Testate del 1938. Mia sorella era andata ad abitareMEMORIALE DAL CARCERE
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nella casa della suocera, dato che il marito l’aveva accomodata ed ampliata. Lei aveva fatto di tutto per non andare, perché sapeva bene che le sue condizioni sarebbero peggiorate, ma il marito si era imposto senza sentire ragione ed aveva dovuto obbedire. Io ora evitavo di andare allo spesso da lei perché incominciavo a nutrire un sacro terrore per quella gente ed un giorno seppi che stava a letto da vari giorni e che desiderava vedermi. Mi feci coraggio ed andai. La trovai effettivamente a letto con la sua ultima bambina di pochi mesi. A vederla lì, in quel letto, deperita e consunta ed abbandonata, mi strinse
il cuore, ed era forse questa una delle ragioni principali per cui io evitavo anche di andarci allo spesso. Mi sedei vicino e mi disse:
« Non ti volevo disturbare, perché so che tu soffri; ma non ne posso più. Ormai ho deciso di andarmene».
« E dove vai? ».
« Non mi perdo! Per il momento andrò da Catuzzella a R... Poi troverò un posto di serva a Palermo o a Catania, perché io so fare tutto, e campo. Purché mi lascino però portare con me la bambina, perché ha bisogno del latte e non ho il coraggio di abbandonarla, diversamente andrò a buttarmi a mare! ».
«Tu non andrai a nessuna parte. Significa che te ne verrai da me! ».
«Da te? Se fossi solo, va bene, perché trovavano la cosa molto comoda; ma dato che c’è la loro figlia, anzitutto non la debbo disturbare e poi ormai lei m’odia più degli altri. Tutti mi odiano! » e si sollevò in mezzo al letto. « Anche le mura, anche l’aria che respiro di questa casa! Ma io perciò non volevo venire ad abitare qua, perché lo sapevo! ».
«Ma che vogliono, insomma?» e mentre parlavo guardavo nella stanza appresso perché avevo paura che arrivasse qualcuno.
« Che vogliono? Ormai lo so che vogliono! Vogliono che io scomparisca, perché ormai son di più! Ma io l’ho detto al mio signor marito! Avevo la proprietà e ve l’ho data; avevo l’onore e ve l’ho dato; avevo un fratello impiegato e ve l’ho dato! Adesso volete che scomparisca perché avete bisogno di una bambolina come le vostre sorelle e non di una vecchia sdentata e di una tisica come me? E me ne vado! Io non ero tisica! Mi avete ridotta voi tisica! E per questo mi ha preso a schiaffi mentre stavo nel letto ad allattare la bambina. Immagina che se la pigliano anche con me perché ho tre figlie femmine! Io li volevo meglio di loro i maschi e non per me, ma per accontentare loro. Ma164
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mi posso mettere io contro la volontà di Dio o della natura, chi è che li manda? Parla? Dici tu che sei un uomo che capisci? ».
«Calmati, calmati!».
« Non mi posso calmare! Io son pazza, perché lo so che son pazza! Ed io perciò me ne voglio andare! ».
«Ma che avete avuto ora?».
«Niente! Perché io seguendo il tuo consiglio non parlo mai. Ultimamente dato che mi trovavo in queste condizioni e che dovevo allattare la bambina e che loro mi trattavano come una cagna, feci presente a mio marito che volevo mangiare quando mangiava lui perché così mi avrebbero trattata meglio. Lui trovò la cosa giusta ed accondiscese, perché lui in fondo non sarebbe cattivo se non fosse per la madre e son sicura che se fossi divisa per i fatti miei le cose andrebbero diversamente. Per qualche giorno si andò bene, ma poi la madre si adontò di botta ed incominciò a fare come al solito suo. Un giorno mi portò il piatto pieno, me lo buttò davanti come si fa con i cani, anzi con i cani si fa con più delicatezza e disse : « Mangiate, dato che dobbiamo servire anche voi! ». Io mi misi a piangere e non volevo mangiare, ma mio marito mi obbligò e dovetti mangiare per forza. Poi lui non so più che cosa disse e la madre allora si chiuse sotto dove dormono loro ed è più di quindici giorni che dice che non vuole più vederci a nessuno! ».
« E tuo marito? ».
« Mio marito se l’è presa con me, perché dice che per causa mia è nemico colla madre. La madre lo sa baloccare, perché sa che senza di lui muore di fame, salvo poi quando è assente ad ingiuriarlo cornuto e delinquente. Ora fa lo stesso anche con Lorenzo perché sa che ora che prenderà il posto di maestro anche lui le può dare. Perché non fa lo stesso col marito e cogli altri che ogni giorno sembra il mercato e si ammazzano e si dicono tante che ho vergogna anche di sentirle? Col figlio Giovanni non parlano tanto perché hanno tutti paura. Anche per te e per tua moglie dice che muore per il gran bene che vi porta! Perché? Perché sa che voi le fate onore e che potete darle e mandarle. Io a mio marito non lo so baloccare come lei, perché avrei vergogna, altrimenti vedresti che anche a me mi vorrebbe bene».
«Ma se loro dicono di volermi bene, e l’ho detto anche a mia moglie, a te voglio che vogliano bene e non a me, perché io del loro bene non saprei cosa farne! ».
«Lo so! Ma non capisci che io son di più ormai? Figurati cheMEMORIALE DAL CARCERE
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non son padrona di prendere neanche un pezzo di pane, non dico per me, ma neanche per le mie figlie. Già, che anche loro incominciano così piccole a parlare e fare le stesse mosse di loro e le istruiscono ad odiarmi. Ma se non crescono come voglio io è meglio che il Signore se le chiami. Già che non le posso neanche educare che si mettono loro davanti e se la pigliano con me. Anche la tua ragazza di servizio ha paura di parlarmi, che se se ne accorgono che viene qui, l’ammazzano. Ed intanto mi lasciano qui sola, abbandonata, con questa bambina, anche a morire di fame. Non ne parliamo poi che cosa hanno fatto con questa casa! Che io non ero degna di entrare in questa reggia, che io non ho visto mai mura pittate ad olio, che io non ho visto mai poltrona ed armadio, che io ero abituata a stare in mezzo ai porci ed in mezzo alle puttane e tutto il resto che sanno dire loro. C’è anche che la grande finge di essermi amica, ma lo fa solamente per dispetto di sua madre e di tua moglie e forse per fare capire a te che se tu avessi sposata lei, tutto questo non si sarebbe verificato. Ma io non voglio niente da nessuno più e solo me ne voglio andare! Ora che il negozio l’ho portato a questo stato e che può andare anche senza di me, non vogliono che ci vada più compreso il mio marito. Hanno invidia perché la gente quando viene cerca sempre di me e vuole comprare con me. L’altra volta la madre si mise a ballare ed a fare le mosse che fanno quelle che tu sai, senza spiegare, dicendo: «Vuole fare la bambolina di negozio! Vuole fare la donna bella! Vuole fare la donna elegante! Vuole fare la donna aristocratica ed ammanierata! Ah bagasciona vecchia! Mettetevi a fare il bucato ed a lavare piatti. Ti riesce, che hai trovato a noi, per farti il servo?! ». Son cose, ti assicuro, che tagliano il core dei santi! Ma io voglio fare tutto. Ma come posso fare se con loro non si può stare e solo posso trovare un momento di pace quando sono nel negozio? Ma io ormai li lascio liberi tutti, compreso mio marito! ».
«Va bene! Adesso manderò a chiamare tuo marito!». Mi alzai ed uscii.
Mentre ritornavo a casa mi sentivo avvilito e pensavo : « Ma perché, perché tanta malvagità sulla terra? Che cosa ha fatto per essere trattata così dagli uomini? Adesso se ne vuole andare! E dove andrà? Ed io poi come potrei continuare a vivere con mia moglie? ».
Dopo pranzo mandai a chiamare mio cognato Giacomo. Lo feci sedere nello studio e gli parlai così: «Vi prego, abbiate un po’ di carità per quella donna! Vostra madre lo sapete, è insopportabile con166
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noialtri, immaginate poi con la nuora. Io non vi dico di non trattarla e non crediate che io le voglia del male, no; però non è giusto che per causa sua voi dobbiate malmenare così mia sorella. Vostra madre è così e forse neanche lei ci ha colpa! Ma se non ha fatto mai pane con nessuno? E se è nemica con suo fratello, volete proprio che vada d’accordo con mia sorella? Vi prego, cambiate casa, giacché son disposto di pagarvi anche l’affitto. Adesso dice che se ne vuole andare! Capirete che un fatto simile, porterà varie conseguenze anche per mia moglie ».
<c Ma io in questo momento non posso cambiare abitazione, perché la mia famiglia ha bisogno di me e specie che ci sono ancora le mie sorelle in casa».
« Ed allora, vi prego, abbiatele un po’ di carità! ».
« Ma che volete; anch’io son fatto così! Quando perdo la bussola non vedo più nessuno e più di una. volta ha schiaffeggiato e preso a calci anche mia madre ed anche mio padre ».
« Male; perché coi genitori non si deve arrivare mai a questo punto! Però se vi dicono di andare a buttarvi sotto il treno non lo dovete fare neanche! Il rispetto e l’aiuto è un conto,, ma il capriccio è un altro. Sapete che cosa dice uno storico a prop< iko di Caterina dei Medici una pessima imperatrice di Francia? Dice "e solo il figlio aveva saputo tramandarci il suo carattere chiamando i « madama la vipera»! Ma con ciò, dice lo stesso storico, il figlio \J>n venne mai meno ai doveri di figlio».
«Allora sapete per ora che facciamo? Mia moglie, dato che sta anche poco bene in salute, se ne viene qui da voi per un pò di tempo, perché qui ha anche il modo di curarsi meglio e vostra moglie se ne viene provvisoriamente da mia madre »
« Purché accettino, dispostissimo! ».
« Ora vado e cercherò di persuadere mia madre ».
Faccio presente a questo punto che in fondo mio cognato Giacomo è stato sempre in mezzo a tutta quella gente feroce e malvagia, forse il più buono; opinione che conservo tuttavia, anche dopo che mi spinse nell’abisso in cui mi trovo. Però allora dopo che mi rivelò che aveva percosso anche sua madre e suo padre, andandosene, fui invaso da un sacro terrore, perché pensavo che anche con me, a maggior ragione, un giorno o l’altro avrebbe potuto fare lo stesso. Dopo che mio cognato se ne andò, come se il cuore mi dicessé che sua madre non avrebbe di certo accettato la sua proposta, rimanevo trepidante,MEMORIALE DAL CARCERE
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e più tardi mi vestii ed uscii. Andai dritto al negozio. Imboccata la soglia vidi mio cognato Giovanni con la rivoltella in mano che faceva come un pazzo dicendo « Mi perdo io, ma si salvano due famiglie! » ed il padre che cercava di disarmarlo e di trattenerlo. Ad un certo momento si sganciò dal padre ed il padre allora si lanciò appresso di corsa. Anch’io mi avviai verso la casa degli Armoni e mentre mi avvicinavo tremavo come una foglia. Entrai dentro e vidi mia suocera che si dimenava come un energumento e la figlia Aurora quasi morta per terra. Salii sopra di corsa da mia sorella. Al termine della scala incontrai mio suocero che teneva il figlio Giovanni a viva forza e che lottava per portarselo via. Li oltrepassai ed entrai nella stanza da letto di mia sorela. La vidi dritta in mezzo al letto in camicia e colle braccia tese come un crocefisso che gridava ripetutamente « Aiuto, mi vogliono ammazzare! » ed il marito inferocito ed in atto bestiale che stava per batterla. Mandai un urlo sovrumano e gridai « Fermo! ! ! » mettendomi in mezzo. La bestia al mio urlo s’intimorì e si ritrasse placandosi. Poi uscì. Mia sorella si gettò quasi nuda nelle mie braccia ripetendo « Mi vogliono ammazzare! ». Il suo cuore batteva con tanta violenza che mi faceva male sul petto. « Calmati, non te ne spaventare! » gli dissi « Dovranno passare prima sul mio cadavere! ». Dopo un certo tempo si calmò e più tardi entrò il marito dicendo: «Ciò che abbiamo stabilito tra di noi, non è fattibile, perché mia madre asserisce che non si dica mai al mondo che sua figlia debba ritornarsene in casa sua! ».
« Ma io non ho detto né ho pensato tutto questo! Si trattava semplicemente di una cosa che tutti fanno. Del resto la proposta era venuta da voi! ».
«E se l’è presa anche con me! Ma o fanno o no, è così! Se mia moglie non vuole stare se ne può andare! Però la bambina deve restare con me, perché lei non è donna di educare bambine! ».
« Sta bene! Per il momento consiglio a tutti la calma! Ora andrò io giù da vostra madre e la pregherò, se si vorrà persuadere, che ritorni amica con mia sorella e che venga nuovamente sopra e che faccia d’ora in avanti ogni cosa come piace a lei ».
Più tardi scesi da mia suocera e la pregai di ritornare sopra e di perdonare mia sorella per quella volta se aveva mancato in qualche cosa. Ma lei s’impuntò dicendo che mia sorella non si doveva permettere mai di calunniare lei, la signora Armoni, conosciuta in ogni dove per la sua dignità e decoro di persona aristocratica e perbene che sa168
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peva agire e trattare con molta cortesia tutti indistintamente e specie mia sorella che l’aveva inalzata dal nulla a quello stato, proprio perché le aveva voluto sempre molto bene. Del resto — aggiunse — Voi siete sposato per i fatti vostri e fatevi i fatti vostri, perché voi non conoscete chi è vostra sorella e, sappiatelo, che benché non lo meriti, essa è la regina di N**#. Chi c’è nel paese più contenta di lei? ».
Allora io piansi di fronte a mia suocera, mi umiliai, la scongiurai e la pregai ginocchioni, ma lei rimase dura e col suo contegno di donna perbene.
Verso la mezzanotte decidemmo che mia sorella, ormai rassegnata anche a morire, sarebbe rimasta a letto chiusa a chiave di dentro e che io, mio cognato Giacomo e mia moglie andassimo a casa mia. Per quella notte nessuno mangiò o dormì. Io nel letto vicino a mia moglie ebbi dei momenti orribili di orgasmo e di allucinazione e per poco non mi tirai un colpo di pistola alle tempia. La mattina mio cognato Giacomo si alzò ed uscì. Mia moglie, che fino a quel momento era rimasta muta per la presenza del fratello, ora che il fratello non c’era più si mise a copiare la madre dicendo che se ne voleva andare via a fare la cameriera dato che ormai lei non poteva stare più nella sua casa e che io mi ero permesso di scacciarla via. Allora io mi umiliai anche di fronte a mia moglie, mi get'jii ai suoi piedi, piansi, la pregai, la scongiurai come avevo fatto la :/fa avanti con sua madre e così lei, come Dio volle, si placò ed acce j discese di rimanere ancora con me. I
Verso le undici andai da mia sorella e| t trovai alzata che si stava accomodando le cose sue personali in una cassetta e decisa di andarsene via anche senza la sua bambina. Le atrocità le avevano fatto perdere anche l’istinto della maternità così vivo anche nelle bestie. In alcuni momenti si fermava e guardava forsennata. Io tentai un ultimo supremo sforzo ed andai giù di nuovo per scongiurare mia suocera ed umiliarmi ancora una volta come la sera avanti. Ma mia suocera tenne sempre duro. Salii di nuovo sopra e vidi mia sorella seduta sulla cassetta che si teneva la fronte con ambo le mani ed il marito all’impiedi vicino alla finestra. Mia sorella come mi scorse, sollevò la fronte ed esclamò: «Non credevo mai che avrei dovuto essere una donna così disgraziata dopo avere tanto amato! ».
In questo mentre entrò mia suocera dicendomi: «Per questa volta accondiscendo per voi! Ma solo per voi! Per l'avvenire si vedrà! » si vede che aveva annusato il pericolo per la figlia e non certo per miaMEMORIALE DAL CARCERE
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sorella, giacché le bestie feroci annusano anche il pericolo e forse più degli uomini e così intimorita si era decisa a fare la pace.
Io m'intesi restituito al mondo dei vivi, presi mia sorella e la portai in braccio a mia suocera. Ci furono pianti, svenimenti eccetera e così dopo un’ora circa me ne andai a casa mia per informare anche mia moglie. Mi sentivo un pò tranquillo, va bene, ma le umiliazioni subite ed il resto, avevano ancora una volta amareggiato ed avvilito il mio cuore.
Non ricordo più se verso quest’epoca o prima o dopo mia cognata Elena diede dei segni di pazzia perché il suo fidanzato Vincenzino Sofia si era sposato con un’altra, per cui i fratelli ed il padre invece di confortarla e farle dimenticare il passato la bastonavano giornalmente a sangue tanto vero che un giorno che, dietro le insistenze di mia sorella, andai per darle un pò di sollievo, la vidi rilegata nel basso che serviva da ripostiglio e da stanza da letto del padre tutta ammaccata e trasfigurata e piena di lividure; e non ricordo più neanche se fu verso questo periodo che un giorno il mio cognato Giacomo a proposito della cattiva condotta di sua sorella Aurora ed Elena, ebbe a dichiararmi : « Credete forse che io e mio fratello Giovanni non saremmo capaci di tirare un colpo in fronte a mia sorella Aurora ed un altro ad Elena e poi sotterrarle nel basso o nell’orto e spargere la voce che sono scomparse? Noi saremmo capaci ed ancora non è detta l’ultima parola! ». E fu forse in seguito a questa sua dichiarazione che subentrò in me la convinzione che gli Armoni avendo assassinata già e sotterrata nel loro basso mia sorella, dovevo allontanarmi da N##* diversamente avrebbero assassinato anche me pver cui avevo scritto due lettere, una al Podestà ed una al Tenente dei RR. CC. per giustificare la mia decisione ed il mio allontanamento. E se le lettere poi rimasero nel tiretto ed io non mi fui per allora allontanato più, non lo feci perché prevalse in me la paura che ovunque fossi andato o nascosto, gli Armoni mi avrebbero raggiunto e quindi assassinato lo stesso. Come non ricordo più neanche se fu verso quest’epoca che andai dal Comm. don Tiberio Spada per consigliarmi con lui come dovevo fare per emigrare nell’America del Sud confidandogli che la ragione principale per cui dovevo allontanarmi erano proprio le mie disgraziate condizioni di famiglia. E non ricordo più neanche se fu verso quest’epoca che incominciai a sfogarmi cogli amici, raccontando loro delle mie sventure, specie coll’amico Avv. Giulio Sacerdote, coll’amico oculista Dott. Francesco Polichemi e coll’amico Ing. Filippo Giusti.170
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Intanto fra alti e bassi si era arrivati al 1939. Io in questo frattempo aveva dovuto cambiare casa a causa di mia moglie la quale si era messa a litigare inimicandosi coi vicini come soleva fare sua madre e fra l’altro pretendeva che anch’io mi fossi messo a tu per tu con gente alquanto turbolenta e che non aveva che pensare, quando una sera dei primi di febbraio mi mandò a chiamare d’urgenza mio cognato Giacomo. Io pensai in un primo istante a mia sorella poi raggiunta la casa degli Armoni vidi mio cognato Lorenzo moribondo perché mentre scendeva dal villaggio di S... in bicicletta era caduto fracassandosi il cranio. Senza perdere tempo lo portammo all’ospedale ed io per ben quindici giorni e quindici notti vegliai solo al suo capezzale, per poterlo strappare alla morte coll’aiuto del mio amico chirurgo dott. Antonio Spataro. In ultimo, sempre a causa di mia suocera e di mio cognato Giacomo, giacché mi riempirono la testa che non era stato curato bene e che avevano preteso molto compenso, mi dovetti bisticciare col segretario dell’ospedale ed intaccare alquanto l’amicizia col caro Spataro, il quale, cosa rara per un medico, si era prestato per me in quell’occasione più di un fratello. E quando verso maggio mi sembra, mio cognato Lorenzo volle andare a Bologna ed a Milano per farsi visitare e curare quivi perché di Spataro non avevano più fiducia, né dei miei consigli, dato che io ormai ero diventato come prima una pezza da piedi, dovetti prestare ancora altre L 2500, per le quali, assommate ad altre L. 1000 che avevo speso per l’ospedale, ricevetti una cambiale di L. 3500 più tardi, benché a malincuore, da mio cognato Giacomo; cambiale che conservo tuttavia insieme ad un’altra di L. 1500 che do-vetti dare poi quando verso ottobre sposò sua sorella Aurora, con promessa categorica che il tutto avrei avuto restituito a Natale di quello stesso anno. E non solo che non mi furono restituite a Natale di quell’anno ma per quanto ultimamente il mio cognato Giacomo non mi dava neanche più credito nel suo negozio, tanto vero che verso luglio del 1940, colla scusa che mia moglie non si accontentava dei suoi articoli dovetti comprare per lei un paio di scarpe a Palermo e fra l’altro quando mandavo per qualche piccolezza nel negozio, chiunque si trovava presente dei fratelli Armoni pretendeva essere pagato avanti. Di tuttocciò può testimoniare la mia persona di servizio.
A questo proposito mi ricordo che una volta il mio cognato Giacomo mi raccontò, per fare risaltare la sua bravura ed il suo molto saper fare, che quando andava a Fiuggi cercava sempre di trovare una qualche donnina danarosa per farsi pagare alla fine le spese di cura eMEMORIALE DAL CARCERE
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soggiorno. E mi ricordo anche come una volta il dott. Arturo Calabrese mi raccontò che un giorno sul treno mio cognato Giacomo aveva preso arrogantemente a male parole il ten. colonnello Giorgio Cordopatre, sol perché questi si era permesso di dire, che ora che gli Armoni si erano rimessi a posto, potevano pagargli una cambiale di L. 2000 circa che lui aveva dovuto pagare un tempo come avallante di mio suocero. Dico anche, dappoiché cade a proposito, che il mio cognato Giacomo usava viaggiare, come forse anche ora, in seconda classe per darsi aria di uomo importante e dello snob e potere impressionare così il pubblico, malattia questa, del resto, di famiglia come ho potuto constatare esperimentando mia moglie. E la meraviglia mia qual era? Che si davano aria dello snob non solo con coloro che non
li conoscevano, ma anche con coloro che li conoscevano bene ed anche intimamente.
Se al posto del signor ten. col. Cordopatre ci fossero stati ancora i fratelli Audino, dei quali il più piccolo perì poi per una coltellata del più grande, sicuramente il mio cognato Giacomo non avrebbe risposto con arroganza, perché, data la sua grande intelligenza, sapeva molto bene che un ufficiale superiore non si sarebbe messo mai a fare a coltellate con lui. E se al posto mio ci fosse stato anche il suo barbiere Armando Romeo, son sicuro che anche a me mi avrebbe restituito le cinquemila lire e mi avrebbe dato credito nel suo negozio.
Faccio presente che molte cose atroci e dolorose e se vogliamo anche ridicole della famiglia Armoni non le ricordo più in questo momento, però sto certo che la Giustizia intuisce da sé, anche attraverso i pochi saggi che sto dando di scorcio e molto alla rinfusa.
Ritornando ora alla piaga che mi brucia, dico che quale ricompensa verso mia sorella della famiglia Armoni,. dato che lei si era adoperata premurosamente presso di me perché dessi le L. 2500 per l’andata di Bologna e Milano, dopo partiti i due fratelli, giacché ora bisognava fare economia per tutte le spese sostenute per la disgrazia della caduta di Lorenzo, la lasciavano morire di fame e non solo che mia sorella doveva morire di fame, ma doveva star zitta, benché lei non dicesse mai niente a nessuno, compreso me; ma loro sospettvano che dicesse perché si sentivano l’anima macchiata. E difatti io lo seppi in seguito quando un giorno mi disse: «Guarda, ora dicono che bisogna fare economia ed io approvo; però l’economia la debbo fare solamente io, perché loro mangiano e bevono meglio di prima ed io la sera debbo accontentarmi con pane ed olio se lo voglio; altrimenti172
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nessuno si preoccupa se mangio e se bevo compreso mio marito, il quale non mi domanda mai se son viva o morta. Sì sì; la sera mi ritiro e trovo solamente una goccia d’olio nella bottiglia ed un pezzo di pane che mi porto io stessa dal negozio. Tanto per dirti una, l’altro giorno hanno comprato un pesce di circa due chili: hanno mangiato tutti a mezzogiorno ed alla sera ed inoltre la madre ha conservato un po’ per la figlia più piccola, perché sennò si sciupa la bellezza, per il giorno appresso ed a me non mi hanno fatto sapere niente. L’ho saputo poi da Rosa, perché come sai Rosa ora è grande e capisce tutto. L’altra sera sai che cosa mi ha spiattellato il professore? Io mi ero ritirata stanca e lui si mise a scherzare con me all’uso dei carrettieri. Io un po’ seccata gli ho detto: “Voi, caro cognato, avete mangiato, ma io ancora debbo mangiare e se voglio c’è un po’ di pane ed olio!”. Lui allora mi ha risposto: “Ed io ho mangiato carne e pasta! Desiderate cosa?”. Queste cose le ha capite anche don Gennaro — perché allora Gennaro Grandi era fidanzato già con l’Aurora — e va scuotendo le mani ».
Ed io aggiungo che non solo che mia sorella doveva morire di fame, ma per quanto io non potevo mandarle niente altrimenti avrei avuto a che fare con mia moglie; a sua madre va bene, alla sua famiglia sissignori, ma a mia sorella no; la frutta, per esempio, che mandavano gli amici, perdersi sì ma a mia sorella no, e se qualche volta m’imponevo mia moglie a me non mi pigliava a schiaffi, benché me lo facesse capire che l’avrebbe fatto ben volentieri ma la serva che andava senza del suo permesso, quando mancavo io ne buscava poi di santa ragione. Basta dire che se qualche volta volevo dare a mia sorella un po’ di roba di maiale, dovevo portarla io di nascosto, quantunque il maiale delPanno serviva se non tutto buona parte per gli Armoni. Un giorno mentre mi mettevo a tavola, pensando a mia sorella, mi venne da piangere e non volli mangiare. Mia moglie allora mi domandò : « Perché questo ora? ».
«Perché? Perché io mangio e mia sorella non mangia! ».
« Ho capito! D’ora in avanti significa che non debbo mangiare neanche io».
Si alzò ed andò a coricarsi a letto, ove rimase per vari giorni senza volere mangiare. Però dopo che io uscivo mangiava e beveva e faceva i comodi suoi ed io per non aggravare la situazione fingevo di non capire niente. Né era questa la prima e l’ultima volta che mia moglie si metteva a letto e non solo che quando si metteva a letto non neMEMORIALE DAL CARCERE
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voleva sapere di cucinare e quindi dovevo cucinare io dato che la serva era piccola ed incapace, ma per quanto proibiva la serva di scopare e di fare gli altri servizi che poteva fare. Due volte presi a schiaffi mia moglie durante i continui momenti di disperazione e di follia: una mi sembra verso quest’epoca ed una qualche mese prima della mia ultima sventura. Però in ambedue le volte dovetti accorgermi che il vero male fisico e morale lo facevo solo a me stesso e che le bestie effettivamente a prenderle a schiaffi è tutto tempo perduto.
Una sera mentre i due fratelli maggiori erano a Bologna ed a Milano uscendo di casa mi vidi avvicinare da mio cognato Giovanni dicendomi che mi doveva parlare di cose molto serie. Era sceso il crepuscolo ed andammo al Parco della Rimembranza. Quivi giunti mi disse con aria truculenta e minacciosa:
«Vostra sorella la deve finire! Diversamente voi lo sapete come la penso io! ».
Io fremevo non so più se in quel momento per la rabbia o per la paura. Gli domandai con voce tremante mentre sentivo che il respiro ed il cuore mi venivano meno:
«Ma per quale; motivo?».
« Perché lei si deve mettere in testa una buona volta per sempre che la mia famiglia lei non è degna di nominarla e che nessuno mai si è permesso di criticarla e di parlar male tranne che lei. Io non ho che pensare e sapete anche chi sono io! ».
«E che cosa vuoi da me? ». Faccio noto che io davo a futti del tu tranne dei genitori di Aurora e di mio cognato Giacomo. A me davano tutti del voi compresa mia moglie che non era stata capace di abituarsi al tu.
« Voglio che vi educhiate vostra sorella, sennò l’educo io! ».
Mi veniva da piangere, ma mi feci forza e per quella volta non piansi.
«E dimmi; come lo sai che lei parla male della tua famiglia? ».
« Lo so, perché oggi l’ho vista parlare con Angela Chiaravalle e quando mi ha visto smise ».
« Smise non perché parlava male della tua famiglia, ma perché sa che voialtri pensate sempre al male».
« Noi non pensiamo mai al male e vi dico, anche a voi, di finirla. La mia famiglia è la prima di N... per correttezza, onestà e tutto e vostra sorella non era meritevole di entrare nella nostra famiglia, perché lei è la regina di N..., perché ha un giovane di marito che non lo174
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ha nessuno ed è trattata meglio di tutti, per mangiare, per bere, per dormire e per vestire. Avete capito? ».
« Ho capito tutto. Però ti prego di essere più umano e di non andare dietro a tua madre».
« A mia madre non la deve nominare nessuno, perché neanche voi siete degno di nominarla. Avete capito? ».
A questo punto m’intesi venir meno e mi vergogno ancora della mia viltà di quel momento. Mi umiliai di fronte a costui, perché la paura delle sofferenze di mia sorella era superiore a qualunque umiliazione e pregai a lungo e scongiurai a lungo Giovanni che si stesse al suo posto, perché a mia sorella glie ne avrei ora parlato io e sicuramente per l’avvenire non se ne sarebbe permessa più neanche una parola. Poi lo lasciai e non sapevo più in che mondo mi fossi.
Dopo qualche giorno venni nella determinazione di dire a mia sorella che se, oltre al marito, qualcun altro della famiglia Armoni si fosse permesso di alzare mano su di lei, di venirsene immediatamente da me che ci avrei pensato io ad avvisare il maresciallo dei carabinieri.
Al ritorno da Milano mio cognato Lorenzo se ne venne in famiglia con un giovanotto suo amico che un tempo abitava a N... Quando
io la sera uscivo con la motocicletta il giovanotto e mio cognato Lorenzo andavano in casa mia a prendere il caffè; non solo, ma avendoli invitati di venire da me quando c’ero io, mi promisero di sì, ma poi non vennero. Io siccome conoscevo bene la moralità di mio cognato Lorenzo, tacevo e mi rodevo dentro. Un giorno che feci presente a mia moglie che ciò non istava bene, lei negò dicendo che durante la mia assenza non era venuto mai nessuno. Io allora tacqui, perché ormai avevo paura non solo di loro, ma principalmente di mia moglie, la quale ormai aveva presa l’abitudine di minacciarmi coi fratelli e col padre, abitudine che mantenne fino alla fine.
In questo frattempo il dott. Castagna smise di frequentare la casa degli Armoni, ma conoscendo chi fossero loro, io rimasi amico. Penso che mia suocera sapendo che Gennaro Grandi aveva una qualche idea per l’Aurora, dato che era rimasto vedovo con vari figli e senza donna di casa, credè prudente allontanarlo e non certo perché faceva la corte a mia moglie, giacché quando una volta il Castagna a proposito di mia moglie le aveva detto che aveva per figlia una bambolina fatta col pennello, lei lusingata e contenta aveva risposto: «Avreste dovuto vedere me a vent’anni e le mie figlie di fronte a me ora sono scaglie! ». E mi spiego anche perché una volta mia moglie riferì alla mia perMEMORIALE DAL CARCERE
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sona di servizio queste parole : « Mio marito anziché essere orgoglioso e contento che mi vogliono tutti, si arrabbia! Se mio fratello avesse la fortuna di avere una moglie che la vogliono tutti come me, non si arrabberebbe! », perché certamente le aveva sentite ripetere dalla madre. Mi rammento a questo punto che mia suocera ogni volta che mia sorella sgravava la obbligava attraverso frasi indirette di allattare i figli oltre due anni, allo scopo di farla deperire lentamente e quindi togliersela davanti.
Verso ottobre, dopo sposata l’Aurora, le cose si aggravarono assai per mia sorella. Io ora avevo tale paura di tutta quella gente da dimenticare anche le sofferenze di mia sorella. Capivo che lei doveva attraversare un brutto periodo ma non avevo la forza di avvicinarmi per domandarle. Un giorno ch’era sola nel negozio mi fermò mentre passavo colla motocicletta e mi portò nel solito sottoscala e mi disse:
« Sembra che hai paura di venire da me! ».
«Non si tratta di paura; ho molto da fare! ».
«Ormai me ne posso andare, perché me l’hanno fatto capire chiaramente, anche mio marito! ». Non piangeva più perché le sofferenze le avevano tolto anche il beneficio del pianto. « Mi dispiace per le bambine e per te ». « No; non mi dispiace di nessuno! Mi dispiace per me, perché non vorrei dargli il piacere di scomparire! Capisci a che punto mi hanno portato? ».
«Ma che avete avuto? ».
« L’altra notte, il mio marito, fino all’alba mi ha macellata come mai. L’ha fatta la valentia di martirizzare uno scheletro come me?! Credo che le bestie del deserto non sono così feroci! La madre poi,
il giorno avanti mi disse al solito suo quante ne ha potute e siccome io rimanevo muta senza dire una paròla, lei, sempre più inferocita, prima mi diede uno schiaffo e poi mi sputò in faccia. Io senza fiatare mi asciugai questa faccia col fazzoletto. E non è la prima volta che mi asciugo questa faccia imbrattata dal loro sputo! ».
« Voglio chiamare ancora una volta tuo marito ».
« No, no; ti scongiuro! Ammazzano anche a te se parli! Quella notte anche a te, a nostro padre, a nostra madre morti ed a tutta la nostra famiglia vi ha presi per miserabili, vigliacchi, pezzenti, morti di fame; anzi parlando di te disse che se ti permetterai più di dire una parola ti darà tante da ricordartele per tutta la vita. AÌTultimo mi disse che quanto la moglie di Angelo Saba ha portato di gioielli, io e te e tutta la nostra famiglia non lo valevamo assommati assieme.176
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Io gli dissi che lui non era Angelo Saba e lui gridando che Angelo Saba di fronte a lui era una patata continuò a battermi con più ferocia di prima. Non so come ancora son viva! ».
«Ma perché tutto questo?».
«Perché? Perché le millecinquecento lire glie l’hai date ancora per me e la sorella Pha sposata per opera mia specie dopo che don Gennaro ha ricevuto quella lettera anonima che ty. sai. Hanno visto che don Gennaro e specie i figli mi stimano e mi vogliono bene, mentre a loro non li possono vedere, perché con loro non può avere contatto nessuno, perché finisce sempre a fetore. E poi c’è un’altra cosa importante. Ora che mio marito sa che io e forse anche tu sappiamo delle malefatte delle sue sorelle si sente minorato, tanto vero che un giorno mi ha detto che le figurine che si son fatte nella sua famiglia non si son fatte in nessun’altra, e perciò non potendo sfogare la rabbia con sua madre che non le ha sapute educare, sfoga con noi. Capisci? ».
«Guarda Anna! Te l’ho detto altre volte: la realtà crea i santi ed i diavoli, crea il serpente e crea il canarino, crea il bene e crea il male e via discorrendo; e questi termini estremi sono entrambi necessari altrimenti il mondo non sarebbe quello che è. Perciò cerca di sopportare per ora: intanto la madre se ne andrà a C... col figlio perché ha avuto, come sai, il posto di maestro lì e finché ritornerà speriamo che sarai per i fatti tuoi divisa e così forse le cose cambieranno! ».
« Ma io per intanto non posso più sopportare, perché non son di ferro; e poi son sicura che anche quando sarò divisa saremo punto e daccapo ».
Io cercai ancora di persuaderla e di confortarla e me ne andai.
Lascio immaginare alla giustizia il mio stato. Io ora difronte a mia moglie mi sforzavo di apparire calmo e tranquillo, ma lei comprendeva tuttocciò che passava dentro di me anche perché sapeva tutto. Non ero capace di sfogare, perché la paura mi teneva muto, e sentivo che la mente ed il cuore mi venivano meno. C’erano dei momenti che sentivo di non essere più me stesso, ma un altro. Una sera mentre ero nel negozio con mia sorella arrivò mio cognato Giacomo e s’impegnò fra noi una lunga discussione. Mio cognato a volte gridava come un ossesso e voleva battere mia sorella anche in mia presenza. Io lo trattenevo e poi si continuava la discussione. Si era fatto un pò* tardi e si era girata anche la porta del negozio. L’Ottavio, il più piccolo dei fratelli Armoni, se n’era andato e per fortuna che pioveva e quindi le voci non si sentivano tanto. Ad un certo punto entrò miaMEMORIALE DAL CARCERE
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moglie col veleno agli occhi come non l’avevo vista mai accompagnata da uno dei fratelli che non ricordo più chi era e mi sembra anche dalla serva. Sbatte dietro di sé la porta mandando in frantumi un vetro e facendo un fracasso indiavolato, si avvicinò a me appuntandomi le dita negli occhi e disse urlando: «Tu la devi finire con tua sorella, capisci? — era la prima volta che mi dava del tu —. Perché altrimenti ti piglio a schiaffi e ti metto sotto i piedi, capisci? E se parli una parola ti piglio ora a schiaffi, capisci? —• e faceva per avvicinarsi e per alzare le mani, ma non ebbe il coraggio di farlo perché si vede che io mentre la guardavo inebetito le dovetti fare un po’ di paura —. Perché tua sorella è quella che è ed io e la mia famiglia siano quelli che siamo! E ti proibisco di venire più qua e di dare retta a tua sorella, capisci? ».
Io e tutti i presenti si rimaneva paralizzati, tanto vero che il mio cognato Giacomo si sentì in dovere di dire: « Ci siamo ridotti come i... » e nominò una famiglia di facchini del paese famosa per le continue risse fra di loro. Io, incoraggiato da queste parole, ebbi la forza di dire a mia moglie:
«Però neanche voi dovete avvicinare più i vostri?».
« Sì, neanche io! ».
« Andiamo allora! » ed andammo muti e senza più dire una parola.
Rimasi tutta la notte e buona parte del giorno appresso sdraiato nello studio con la testa fra le mani. Non saprei descrivere ciò che mi passava per la mente. La mattina il padre ed i fratelli, tranne di mio cognato Giacomo, entravano di colpo nella mia casa, parlavano sottovoce con mia moglie e poi se ne andavano. Quando non volevano entrare fischiavano, perché un’altra caratteristica degli Armoni era quella di chiamarsi col fischio, mia moglie apriva il balcone e così si allontanavano. Quel fischio mi attraversava le cervella da parte a parte e mi dava un senso di lugubricità tale da farmi perdere completamente la ragione e così mi perseguitò fino alla fine quando qualcuno veniva e fischiava perché sapeva che c’ero io e non voleva salire.
Verso le undici entrò mia sorella nello studio. Anche lei era trasfigurata o almeno mi sembrò tale. Ebbe la forza di piangere e mi disse:
« Ho dovuto dare ragione a loro perché sennò mi avrebbero strangolata! Io ormai sono disposta a fare qualsiasi sacrificio, purché tu ti calmi! ».178
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«È impossibile! Ho deciso di andarmene via! Vedi; tu lo sai il bene che ti volevo! Ormai non mi interesso più neanche di te! ».
«E mi lasci sola, in mezzo a loro? Ti prego, per l’anima della mamma! ». Al nome di mia madre ebbi una trafitta al cuore e non fui capace di vedere ancora soffrire quella donna. Mi calmai un po’ e domandai: «La gente hanno sentito le sue parole?».
« Se non sentito, hanno capito ed hanno detto che ormai hai paura e che forse non verrai più da me per questo! ».
« Va bene, resto! E spero anche col tempo di poter dimenticare! ».
Mia sorella dopo un poco se ne andò ma io non mi calmai e dopo qualche giorno andai dall’amico Sacerdote. Gli raccontai ancora una volta delle mie sventure e gli dissi che ormai volevo separarmi da mia moglie. Egli mi ascoltò, mi consigliò la calma, mi confortò, mi disse che difficilmente nei miei fatti si potevano trovare le determinanti di una separazione e mi consigliò in fine, dato che c’era anche la guerra in vista, di attendere pel momento, che poteva darsi che con la guerra tutti saremmo stati richiamati e quindi poi da cosa poteva nascere cosa. In quel momento mi persuasi, ma ritornato a casa seguitavo a persi- > stere nella mia decisione.
Chiamai mio cognato Grandi e feci sapere agli Armoni che intendevo dividermi, benché sapevo che non mi sarei diviso perché avevo paura, ma io cercavo di tenere duro proprio per soffocare la paura, e che anche mia sorella si sarebbe divisa. Dopo qualche giorno venne mio cognato Giacomo col Grandi per comunicarmi con la sua aria magna, che io non avevo nessun motivo di potermi dividere; però se mia sorella avesse voluto dividersi poteva farlo anche subito. Io non ricordo più che cosa risposi e lui se ne ndò. Ma dopo alcuni giorni gli Armoni, capito il pericolo, vennero a più miti consigli e mio cognato mi fece sapere che ormai era disposto a fare famiglia a parte dai suoi, ma che però da quel momento in poi lui doveva fare l’uomo e non mia sorella, giacché fino ad allora lui aveva fatto la donna e mia sorella l’uomo. Io capii a lampo quest’altra sua recondita malvagità e siccome ormai la piaga recente causatami da mia moglie andava scomparendo, tremai ancora una volta per mia sorella. Lo presi col dolce, mi umiliai ancora una volta e lo esortai che avesse per l’avvenire una certa carità per quel rudere di donna, quasi impazzita dal dolore e se anche non sentisse alcun affetto per lei, almeno che glielo dimostrasse simulando, giacché pensavo che una delle cause principali che sconfortavano mia sorella era proprio il fatto che lei ormai si senMEMORIALE DAL CARCERE
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tiva di non potere essere gradita ad un marito più giovane e più bello di lei. Lui mi rispose che da quel momento, dato che aveva deciso di stare diviso da sua madre, cosa che avrebbe messo in atto se non prima al ritorno di lei a giugno venturo da C..., ognuno doveva farsi
i fatti suoi e non ingerirsi delle faccende degli altri. Io capivo sempre più e tremavo, però nutrivo una certa speranza che una volta che mia sorella si fosse divisa dalla suocera forse le cose si sarebbero aggiustate e lo feci sapere anche a lei, dato che anche lei aveva capito e s’era già impaurita più di me. Dopo alcune sere vi fu una specie di riconciliazione generale voluta da me, perché sapevo bene che se mia sorella fosse rimasta nemica colla suocera non avrebbe trovata mai la pace; ma la riconciliazione non avvenne lo stesso. Mia suocera dichiarò che momentaneamente acconsentiva, va bene, ad ammettere alla sua presenza me e mia sorella, perché non si dicesse mai che lei doveva essere la causa della distruzione di due famiglie, ma che d’allora in poi non ci avrebbe più voluto vedere e né sentire, e, che, d’allora in poi, ognuno avrebbe dovuto starsene a casa sua per i fatti suoi e che su ciò non transigeva assolutamente. « Anche a voi! », rivolgendosi a me direttamente disse: «Non vi voglio più vedere né sentire, dato che anche voi vi siete permesso di oltraggiare e calunniare una signora come me! ». La calunnia consisteva nel fatto che io avevo detto che non era giusto lasciare morire di fame mia sorella. In questo mentre arrivò mio cognato Giovanni facendo come un pazzo e urlando ed inveendo contro il fratello Giacomo che si era lasciato sottomettere dalla moglie e quando poi non ne potè più se ne andò dopo avermi dato uno sguardo da uomo di forza e di comando. Io ormai di fronte a quella gente non ero più capace di dire più nulla e se parlavo, parlavo semplicemente per umiliarmi e sottomettermi a loro. Dopo che Gk> vanni se ne andò, io pregai mia suocera di permettere me e mia sorella di andarla a trovare a C..., ma lei disse che se io e mia sorella ci fossimo permessi di andare a C..., avrebbe fatto cose che non aveva mai fatte. Mia suocera però parlava così non per me, perché a me se fossi andato solo, mi avrebbe accolto a braccia aperte, ma parlava per mia sorella. Io capii fin troppo tutta la sua malvagità e dove voleva arrivare e non insistei più.
Quando verso i primi di novembre mia suocera partì per C... si portò con sé tutte e due le figlie femmine dicendo che non poteva lasciare le sue figlie con una donna traviata come mia sorella. Ma la ragione non era questa: la ragione vera era che intendeva aggravare180
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mia sorella del peso di quattro uomini compreso il suocero e di due bambine piccole, perché così sperava che al suo ritorno non ci fosse più. Il marito trovò tutto giusto e mia sorella sopportò tutto, anche il fatto che nessuno più le rivolgeva la parola o la guardava in faccia mentre era obbligata a servirli a tavola e in tutto il resto che loro occorreva. Il terribile Giovanni per non incontrarsi con lei si fece servire per tutto l’inverno il pranzo sotto il basso dal padre.
Qualche ora prima che mia suocera partisse per C... andai a salutarla facendole anche qualche bel complimento come sapevo che piaceva a lei per poterla disporre benevolmente verso mia sorella; ma lei partì baciando ed abbracciando con espansività ostentata tutte le donnaccole del vicinato che si presentavano e che anche loro trassero qualche sollievo durante la sua assenza mentre che a mia sorella che aspettava con ansietà di vedersi anche lei baciare ed abbracciare inviò a distanza un semplice arrivederci sgarbato e feroce. Mia sorella andò a nascondersi ed a piangersi la sua sventura.
Il mio cognato Giacomo, durante l’assenza della madre, verso i primi tempi fu insopportabile, ma poi, pian piano, si rimise un po’, come io prevedevo. Verso quei primi tempi vidi un giorno mia sorella fuor di sé, perché aveva recapitato una lettera di un’amante del marito; ma io cercai di calmarla dicendole che ormai una donna di famiglia come lei, madre di figlie, non doveva pensare più a certe stupidaggini, ma alla casa ed all’educazione delle figlie. Mi ricordo a questo punto che mia suocera era proprio lei che incitava i figli a scialarsi e divertirsi con le donne e non solamente il figlio Giacomo per fare distruggere sempre più mia sorella, ma anche i figli celibi, aggiungendo: « E poi che venga da me qualche altra bagascia con la pancina gonfia, che me la vedrò io! ». Mi ricordo anche di un certo Papalia Francesco piccolo negoziante di R..., amico d’infanzia e compare di mio cognato Giacomo, perché gli ha battezzato tutte e tre le figlie; ora finché mia suocera nutrì la speranza che il Papalia avesse sposata qualcuna delle sue figlie ed allora lo accolse sempre a braccia aperte; ma quando poi seppe che il Papalia si era fidanzato già gli fece capire chiaramente che lei non aveva più alcun piacere che lui andasse a trovarla. Il Papalia capì subito e non ci andò più. Anche il Papalia, se volesse, potrebbe dire tante cose sulla disgraziata vita di mia sorella oltre a coloro che ho indicato di già aH’Ill.mo Signor Giudice Istruttore.
Vengo ora ai casi che più da vicino interessano me e mia moglie. Sento che mentre mi avvicino a quest’ultima epoca mi assalgono iMEMORIALE DAL CARCERE
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brividi fin dentro al midollo delle ossa; ma spero di farmi forza e coraggio e di poter raccontare.
La vigilia di Natale mia moglie pretendeva insieme al fratello Lorenzo, sceso a bella posta, che io fossi andato insième a loro a C... per passare il Natale colla madre. Io dissi allora a mia moglie che ero pronto ad andarci ma che però doveva venire con noi anche mia sorella Anna. Mia moglie e suo fratello mi risposero che per mia sorella Anna era impossibile ed io quindi di rimando lasciai libera mia moglie di andare lei dove avesse voluto perché io mi stavo a casa mia. Mio cognato Lorenzo capita l’antifona se ne andò e mia moglie subito si mise a letto. Io passai il Natale del 1939 e non ricordo più se anche il Capodanno del 1940 solo a tavola e con la serva e la madre della serva in cucina e con il pranzo preparato da me. Da mia sorella non ci potevo andare, perché avrei suscitate delle reazioni poco piacevoli non solo da parte di mia moglie ma anche dei presenti in N... della famiglia Armoni; né mia sorella poteva assolutamente venire da me dato che mia moglie in ispecie non voleva più vederla affatto e se la serva si permetteva in quel tempo di portare qualche nipotina in casa mia, aveva poi di che buscarne quando io mancavo. La sera della vigilia di Natale ricordandomi del detto di Salomone che diceva: «Agli uomini che soffrono date da bere perché così dimenticano per un poco le loro miserie», benché in genere non bevessi, bevvi quasi una bottiglia di vermouth, mi stordii e mi coricai vicino a mia moglie, giacché ormai si era imposta da tempo che dovevo dormire nel letto matrimoniale ed io lo facevo per evitare maggiori guai e complicazioni.
Dopo il Capodanno ed anche prima e fin quasi verso il maggio dovevo vedere fra i piedi per uno, due giorni di ogni settimana l’insegnante Lorenzo che scendeva da C... e veniva a mangiare e bere e dormire in casa mia dato che da mia sorella non ci voleva andare. Ogni qualvolta che quell’individuo bussava al portone io sentivo che il cuore incominciava a tumultuare nel petto, che il respiro imi veniva meno e come una corda nella testa che volesse rompersi. Vedevo il modo sfacciato ed impudente e da fare da padrone con cui quell’individuo si presentava in casa mia senza cercare poi di persuadere affatto la madre di riconciliarsi con mia sorella, dato che lui rappresentava la dottrina, la sapienza ecc. e quindi come tale avrebbe dovuto rappresentare anche la bontà della famiglia Armoni, e non ero capace di sopportare affatto la sua presenza. Forse la presenza degli altri l’avrei sopportata, ma la sua no. A volte quando lui arrivava mi met182
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tevo a letto e rifiutavo di mangiare per fare capire chiaramente la sua poco bene accetta presenza, ma né lui, né mia moglie fingevano di vedermi e scialavano più che mai. E giacché mi trovo voglio dare un saggio della finezza del professore Armoni. Una sera per soffocare il mio dolore volli prendere parte anch’io alla loro allegria sforzandomi di bere quanto loro. Al culmine dell’allegria, il professore per esternare la sua soddisfazione, prese un Portogallo e lo scaraventò con tale forza alla ragazza di servizio, che per poco non la rese monocola. La poverina rimase di sasso, stava per piangere, ma poi si trattenne. La mattina appresso mia moglie se la prese con la ragazza di servizio perché non aveva saputo anche dopo il colpo continuare a ridere e scialare. Inoltre quandg la ragazza di servizio non era pronta a servire il professore, questi si metteva a gridare all’uso dei carrettieri e la picchiava. Anche gli altri componenti la famiglia Armoni quando la ragazza andava da loro e non era pronta a servirli la picchiavano di santa ragione. Verso febbraio, capito ormai mia moglie che io senza di mia sorella non ci andavo a C..., ci andò lei sola con la servetta e rimase per vari giorni. Al suo ritorno si presentò col fratello e la sorella più piccola per tenerseli con sé una settimana. Io non parlai, ma si vede che la mia faccia non doveva essere tanto chiara, giacché dopo un giorno o due, come Dio volle, se ne andarono.
Fi! verso febbraio mi sembra che un giorno mentre mia sorella si trovava nel negozio domandò all’Ottavio non so più che cosa per diverse volte senza che l’Ottavio avesse avuto l’educazione di rispondere o di guardarla almeno in faccia. Allora a mia: sorella le scappò detto: «Ma bisogna essere proprio villani! ». Il mio suocero stava seduto fuori ed intese. Entrò dentro, si avvicinò a mia sorella, le appuntò le dita negli occhi ed urlò : « I miei figli sono i primi di N... perché figli della migliore famiglia di N... e non come te che sei figlia di quello ubbriacone miserabile pezzente di tuo padre! Se parli ancora un’altra parola ti metto sotto i piedi e non ti metto ora, perché non ti metto! ». Mia sorella si mise a piangere e non so se accorsero tutti i vicini del negozio, ma se non accorsero sentirono assai bene. Dopo questo fatto feci sapere al mio suocero che avrei venduto l’orto, col frutto del quale lui si ubbriacava, per mezzo della persona di servizio alla quale rispose: «Se quel miserabile del tuo padrone vende l’orto io ammazzo sua sorella! ».
Verso i primi di marzo, arrivato al colmo dell’esasperazione per la continua presenza del professore, un giorno chiamai mia moglie eMEMORIALE DAL CARCERE
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le feci capire che io intendevo studiare ed occuparmi dei fatti miei e che data la continua presenza del fratello non lo potevo fare.
Lei allora mi rispose che l’aveva capito bene, però, dato che il fratello era ammalato non aveva il coraggio di dirgli d’andare da mia sorella oppure in casa dell’Aurora. Poi concluse che se io avessi voluto, potevo anche metterlo alla porta. Io tacqui e non parlai più. Fu dopo quest’epoca che ebbi una serie di attacchi al cuore ed al cervello che per poco non restai. C’erano dei momenti in cui la testa non me la sentivo più ed in me subentrava allora un altro individuo navigante nell’infinito delle tenebre e destinato a perire miseramente ed inesorabilmente. In un giorno che la testa non me la sentivo affatto ed il cuore batteva più del solito ed un certo essere feroce e strano tentava a qualunque costo aprirmi il cranio per masticarmi le cervella, barcollando mi portai in cucina gridando e mi misi colla testa sotto il rubinetto. Mia moglie s’intimorì e mandò a chiamare di corsa il dott. Castagna. Il Castagna mi trovò nello studio sdraiato sul lettino che serviva ora per il professore e quando entrò era così emozionato e stravolto che per un pezzo rimase quasi muto ed indeciso su ciò che avesse dovuto fare.
10 lo guardavo, notavo la sua perplessità, ma badavo al mio stato. Egli poi si decise, mi fece un’iniezione di canfora, mi ordinò il canfidrolo e se ne andò. Dopo che il Castagna se ne andò l’attacco si ripete più forte. Verso sera presi alcune gocce di canfidrolo e si ripete più forte ancora. Allora smisi la canfora e non mandai più a chiamare il Castagna. Né lui si sentì in dovere di venire più da me, non dico come amico, ma neanche come ammalato; però ogni tanto mandava la serva ad informarsi come stavo. Dopo alcuni giorni mi intesi un po’ meglio ed allora decisi di recarmi a M... dal dott. Nino D’Ascola mio medico di fiducia. Il dott. D’Ascola mi osservò attentamente e mi esortò di stare tranquillo, perché non c’era niente né al cuore, né altrove che mi dovesse impressionare. Io allora mi tranquillizzai da questo lato ed in seguito stetti un po’ meglio anche perché mi sforzavo di pensare
11 meno possibile ai guai e sempre allo scopo di star meglio.
Verso aprile vidi all’improvviso in casa mia cognata Elena, dato che da mia sorella non ci voleva andare e dato che i fratelli non la potevano più vedere giacché aveva preso a bastonate la madre a C...
Io feci capire che non intendevo tenerla e così i fratelli se la portarono da mia sorella. Verso maggio sgravò mia sorella e fu contenta perché finalmente aveva dato alla luce un figlio maschio. In questo frattempo un giorno mentre andai per visitare mia sorella vidi PElena con un184
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occhio fasciato ed ammaccato da fare orrore. Seppi poi che l’Ottavio per un nonnulla l’aveva pestata a quel modo. Mia sorella mi disse: « Neanche le bestie fanno così! ».
Intanto le scuole si chiusero e siccome mia sorella non aveva potuto cambiare casa perché ancora ammalata nel letto, mia suocera mandò dicendo che lei restava sempre a C... finché quella donna non se ne fosse andata per i fatti suoi. Io stesso trovai la casa sopra del negozio da don Angelo Chiarenza e diedi al figlio L. 200 in anticipo per accomodarla. Quando mia sorella se ne andò voleva portarsi con sé anche un quadro che una volta le aveva regalato la suocera. Ma TElena si oppose dicendo che non era roba sua. Mia sorella insiste ed allora il marito la prese a schiaffi sgravata come si trovava da circa quindici giorni e da fare pietà anche alle bestie della foresta e dicendole che da quel momento in poi lei, per nessuna ragione al mondo, doveva permettersi di mentovare i suoi familiari. Ritornando mia suocera da C... le cose, con la sua vicinanza si aggravarono di nuovo e mio cognato non potendo fare altro, rilegò ora mia sorella disopra
il negozio. Infatti, dato che per entrare ed uscire di casa non c’era altra via che il negozio, egli, non appena notte lo chiudeva e portava con sé la chiave ovvero la dava al fratello Ottavio adducendo come scusa che di sera non si poteva lasciare il negozio aperto; né si poteva ormai avere più fiducia di mia sorella; e faceva capire chiaramente nel medesimo tempo a tutti, compreso me, che non aveva piacere che si andasse a trovarla. E se i vicini volevano parlare con lei o qualche amica voleva andare a trovarla, dovevano farlo quasi di nascosto. Anch’io ora ci andavo raramente perché avevo paura d’incontrarmi con quelle facce torve ed ogni volta che salivo da lei sentivo che il respiro mi veniva a mancare. Una sera che passavo colla motocicletta mi fermai e salii da mia sorella. Vi trovai il marito stravolto al solito suo e Pasquale il figlio maggiore di mio cognato Gennaro Grandi seduto vicino a mia sorella. Dopo un po’ mio cognato Giacomo scacciò bruscamente Pasquale che sapeva che andava di quando in quando da mia sorella per portarle un po’ di conforto, dicendo che dato che lui era nemico con suo padre non voleva che andasse in casa sua. Pasquale scornato e mortificato se ne andò. Allontanatosi, mio cognato si mise ad urlare contro mia sorella e per poco non le scaraventò in testa un boccale d’acqua di terra cotta che per quella volta mandò in frantumi sul pavimento. Dopo un po’ disse: «E se proibisco anche tuo fratello di venire in questa casa, son padrone e neanche lui ci deve venire!MEMORIALE DAL CARCERE
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Hai capito? » e detto ciò se ne andò. Verso gli ultimi tempi mio cognato aveva ridotta mia sorella a fare lei anche il bucato in casa, né io potevo mandare la servetta o la madre di costei ad aiutarla, magari pagando io quest’ultima, perché erano guai, non solo per mia sorella ma anche per me nei riguardi di mia moglie. Un giorno dissi a mia sorella: «Ma come fai la mattina; ti senti in condizione di alzarti? ». E lei: «Come vuoi che faccia? Non mi sento perché, specie la mattina, mi sento paralizzata, ma con quattro figli piccoli mi debbo alzare lo stesso! ».
A giugno, quando scoppiò la guerra, m’intesi rinascere ed aspettavo di giorno in giorno di essere richiamato giacché ormai non ero capace d’interessarmi più di nessuno, compresa mia sorella.
Verso luglio, un giorno che mia moglie picchiò la servetta più forte del solito raccolsi nell’aria dalla bocca di quest’ultima questa frase: «Io parlerei?! »; e siccome da un certo tempo avevo notato un nuovo atteggiamento di mia moglie nei nostri rapporti sessuali, non dimenticai più la frase. Un pomeriggio che mi trovai solo con la servetta, dato che ora mia moglie entrava ed usciva di casa senza darmi più conto dove andasse e che facesse, né, io del resto, glie lo chiedevo, le domandai perché quel giorno aveva detto quel « Parlerei ?! » a denti stretti. Dapprincipio la servetta negò, ma poi, dietro le mie insistenze alquanto aspre, mi dichiarò che mia moglie amoreggiava col medico Castagna. Mi disse che quando io mancavo lei se la faceva sempre alla finestra dirimpetto allo studio del Castagna, che una mattina il Castagna, mentre io ero all’ufficio, colla scusa che cercava di me, era salito sopra e si era intrattenuto in salotto con mia moglie e che tutto ciò lo sapeva anche la padrona di casa che abitava sotto di noi e forse anche il resto della famiglia. Io non volli sapere niente più, le raccomandai se si fosse accorta di altro per l’avvenire di riferirlo a me e mi serrai nello studio. Nello studio intesi che la mia casa ormai era definitivamente crollata e che ora per davvero non c’era alcuna via di scampo. « Anche le corna! » mi ripetevo chiuso in me passeggiando su e giù e poi soggiungevo: «Dote no, posizione sociale no, intelligenza no, bontà niente del tutto: ed anche disonesta? ». E poi soggiungevo ancora: «Eh già! La meraviglia sarebbe stata se fosse stata onesta!». Non so più quanto tempo rimasi in questo stato. Fino a questo momento non conoscevo l’odio, ma da questo momento in poi odiai non solo mia moglie e tutta la sua famiglia, ma anche il genere umano, dato che anche il genere umano, contribuiva per la sua parte alla186
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mia completa rovina, per opera di un Castagna che io, fra l’altro, avevo stimato sempre amico. Ora più di prima non potevo sopportare la gente e specie la casa del Castagna che avevo di rimpetto. A mia sorella non la odiavo, però le sue sofferenze non mi facevano più né caldo e né freddo e così fu, si può dire, fino alla fine. Dopo un certo tempo mi calmai un po’ perché pensavo di aver trovato la via d’uscita. Mi dissi : « Adesso farò di tutto per farmi richiamare, a fine guerra me ne andrò all’estero e così lascerò per sempre questa terra maledetta ». Cercai d’impormi la calma e di mostrarmi piuttosto cortese con mia moglie per quanto le mie forze me lo acconsentirono, sia per non rivelarle in qualche momento di maggior stravolgimento il suo fallo, altrimenti sapevo che lei sicuramente si sarebbe rivolta alla sua famiglia ed i fratelli, dato che mi permettevo di calunniare una Santa come mia moglie, chi sa che cosa avrebbero fatto nei miei riguardi. Una sera più tardi per evitare che la faccenda si propagasse di più, giacché ancora speravo che la cosa la sapessero solo i padroni di casa e che per un certo riguardo a me non dicessero niente agli altri, mentre andavo a letto dissi a mia moglie, dato anche che sapevo che lei tuttavia quando passava davanti al Castagna s’intratteneva colla moglie e qualche volta entrava anche dentro: «Vedi che io sono nemico col dott. Castagna e quando passi davanti alla sua casa ti prego quindi di non fermarti, perché certo non è giusto! ». Mia moglie impallidì e non profferì verbo.
Dopo alcun tempo me ne accorsi che il dott. Castagna si faceva notare col fucile per andare a caccia, cosa che non aveva fatto mai fino allora e che ora più di prima mi guardava dall’alto in basso facendomi capire che non sapeva cosa farne più della mia amicizia. Ma io ormai non pensavo a nessuno ed attendevo ora per ora di andarmene sotto le armi dato che avevo fatto una domanda al Ministero ed ero stato chiamato già per la visita. Verso agosto mi scrisse il mio amico Saverio Attila già richiamato dicendomi che se io gradivo essere richiamato subito bisognava insistere direttamente al Comando di Zona Territoriale di Palermo. Difatti verso fine settembre andai io personalmente a Palermo e portai con me mia moglie sempre per non insospettirla ma principalmente per non lasciarla sola. Mi recai dal comandante la Zona Territoriale e^gli raccomandai caldamente la mia domanda. Il comandante mi rispose che se ne sarebbe interessato vivamente e di stare tranquillo che fra qualche giorno sarei stato richiamato. Ma passò tutto ottobre ed io non fui richiamato lo stesso. MiMEMORIALE DAL CARCERE
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vidi ancora una volta perduto ed allora pensai di prendermi un mese di licenza a novembre colla speranza di andarmene verso il nord per cercare di avere un posto colà anche provvisorio. Mi portai in Prefettura per chiedere la licenza, ma mi si disse che, dato lo stato di guerra, le licenze ufficiali erano abolite e che bisognava arrangiarsi, se mi fosse stata urgente, col Podestà. Parlai col Podestà ma me la rifiutò anche lui adducendo che non potevasi prendere una simile responsabilità. Persa anche quest’altra speranza mi stavo rassegnando ad attendere ancora il richiamo, quando il 12 novembre, mentre mi trovavo sul pianerottolo della scala della mia casa e con gli operai che mi stavano mettendo l’impianto della luce elettrica, mi vidi consegnare dal postino una lettera. Ero solo, l’apersi e lessi: «Ti avverto che il dottor Castagna ha avuto rapporti con tua moglie e tutt’oggi ». Gli occhi mi si oscurarono, le gambe intesi che si piegavano e per poco non caddi a terra. Cercai di dominarmi e non so come riuscii a mantenermi in piedi, a nascondere la lettera in tasca ed andarmene pel momento in una stanza ove non c’era nessuno. Un certo individuo strano introdottosi di colpo nella mia testa mi disse: «Te lo dicevo io che la cosa era già di pubblica ragione? Tu non ci volevi credere! ». Quel certo individuo strano non mi lasciò quasi più ed ancora di quando in quando si piglia gusto a perseguitarmi. Né mi ricordo più ciò che avvenne in seguito con precisione, giacché la continua presenza di quel maledetto individuo mi faceva vedere tutto indistinto ed avvolto d’ombre. Però mi accorgevo con un certo compiacimento che ormai il cuore non mi tumultuava più come prima e se non fosse stato che di quando in quando avvertivo come un chiodo conficcato sulla sommità del cranio, per il resto, potevo dire di sentirmi bene. Io però, d’ora in poi, continuerò a raccontare lo stesso come se nei giorni che si susseguirono vedessi tutto distinto e sgombro d’ombre.
La notte non dormii e me la feci girandomi e smaniando nel letto come mi accadde anche le altre notti che vennero dopo. E se dormivo facevo dei sogni opprimenti ed ossessionanti che lo strano individuo poi me li faceva subito dileguare. Il giorno dopo, mentre mia moglie gridava con la servetta in cucina ed io mi trovavo nella stanza da letto e gli operai nel salotto, profferii: «Dì alla puttana che si stia zitta, ché basta quanto si è frustata e che ci sono gli operai in casa! ». Mia moglie mi raggiunse nella stanza da letto e mi disse: «Cosa avete detto? Perché avete detto quelle parole? ». Io risposi: « Io non so niente! Tu lo sai meglio di me! Se tu sapessi però che cosa dice largente di188
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te, andresti or ora a buttarti a mare! ». Mattina di giovedì mi alzai presto ed incominciai la nenia di questa canzone: «Quanto è bella sta figliola, manco a Napoli ci sta; e si pettina e s’incannola, tutti quanti l’amore fa». Ogni tanto sostituivo la parola figliola con puttana o fontana e ci provavo un gusto matto a gridare forte ed a farmi sentire anche dai vicini. Poi vennero gli operai e smisi di cantare. Più tardi uscii per un po’ perché mi mantenevo calmo ed affabile, non solo cogli estranei, ma anche con mia moglie, e, benché meccanicamente, agivo e facevo tutto secondo il solito. Verso mezzogiorno gli operai se ne andarono ed io mi intesi assai più libero. Nel pomeriggio ripresi la nenia; mia moglie allora si avvicinò a me e mi disse: «Questa canzone la dovete cantare per le vostre sorelle e se continuate ancora mando a chiamare i miei fratelli! ». Io sorrisi per farle capire che non avevo paura, però non cantai più. Dopo che mia moglie si fu allontanata, lo strano individuo pronto mi disse: «Te lo dicevo io di stare zitto perché altrimenti ne buscavi? Beh, non ti dar pensiero, che anche così si sta bene! ». Io però più tardi ricominciai la nenia, perché ormai non potevo farne a meno, ma la durai un poco e sottovoce in modo che non mi sentisse mia moglie e poi la smisi completamente. Sera di venerdì, dappoiché mia moglie aveva dato l’allarme, venne mia sorella da me, mi portò nello studio e mi disse: « Son venuta per stare con te stasera, perché Giacomo non c’è — era da molto che non veniva più da me —. Ma insomma che hai? Ti sembra giusto che la devi ingiuriare puttana? ».
« A chi ? ».
« Andiamo! Dimmi che cosa è successo! ».
«Nulla! Ma giacché lo vuoi sapere, a te, lo dico! Mia moglie mi fa le corna col medico Castagna. Hai capito ora? ».
« Vedi, mi si accappona la pelle! » e mi mostrò il braccio. « Però io non ci credo! E come l’hai saputo? ».
« Ho ricevuto una lettera anonima; però io lo sapevo da tempo e perciò me ne volevo andare ».
« Senti, io ti dico di calmarti perché non è vero. Ma se dovesse essere vero certo che il dott. Castagna è stato un vero mascalzone, perché con te non si doveva permettere un fatto simile! Però io, ti ripeto, non ci credo e ti dico di calmarti, perché sicuramente si tratta di gente che vuole male a te ed a tua moglie e non bisogna dare loro gusto ».
Poi mia sorella insistè ancora che mi calmassi, mi portò tanti paragoni, mi disse anche che tutto al più si poteva trattare di un semMEMORIALE DAL CARCERE
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plice corteggiamento e siccome io non ne avevo più voglia di sentire parole le promisi che mi sarei calmato e così andammo a raggiungere gli altri in cucina dopo averla raccomandata di non dire niente a mia moglie della lettera anonima. Più tardi però si chiusero tutt’e due nel salotto e mia sorella messa alle strette lasciò capire a mia moglie che io forse avevo ricevuta una lettera anonima; ma nel contempo le disse di stare tranquilla che si trattava sicuramente di gente perfida che voleva mettere zizzanie nelle famiglie, poiché si sapeva molto bene che non c’era niente di vero e quindi non si potevano dire che delle falsità.
Mattina di sabato andai a M... ed al ritorno seppi che mia moglie durante la mia assenza aveva mandato a chiamare il fratello Ottavio.
Così mi spuntò l’alba di quel maledetto giorno del 17 novembre 1940. Né avrei creduto mai che l’alba appresso avesse trovato me nella caserma dei carabinieri e mia sorella Anna nella bara situata in una stanza della mia casa, per quanto lo strano individuo che sempre più prendeva salda dimora in me, si era messo ora, fin dal mattino, a tormentarmi la vita con sentimenti lugubri e funerei. Quando penso a quel giorno ed a tutti gli altri che si susseguirono, sento che affiorano alle labbra questi versi, se non sbaglio, di un poeta tedesco:
«Signor, chiamami a te, stanco son’io,
« Pregar non posso, senza maledire! ».
Verso le dieci feci sapere a mia moglie che se neanche quel, giorno avesse voluto alzarsi mi sarei messo io a cucinare, e siccome lei rispose che intendeva rimanere a letto, mi portai in cucina ed incominciai a preparare. Verso l’una la pentola stava per bollire quando intesi bussare al portone. La servetta andò ad aprire e dopo un po’ vidi entrare in cucina mio cognato Giacomo senza salutare e per giunta, alle mie parole piuttosto cordiali dato che lo sapevo assente rispose con semplici monosillabi. Mi disse invece andando difilato verso lo studio : «Sentite cognato, debbo dirvi una parola! ». Io lo seguii e giunti nello studio ci sedemmo l’uno di fronte all’altro. Senza tanti preamboli mi chiese gesticolando colla mano:
« Fuori la lettera! ».
Io intesi che la parola mi veniva meno come un tempo, ma mi dominai subito e risposi:
« Quale lettera? ».
«Andiamo! Voi mi conoscete chi sono io! Se non me la date colle buone me la darete colle cattive! ».
«Ma vi dico che non vi capisco? ».190
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« Voi mi capite anche bene! E vi dico che me la dovete dare, perché io per questa sorella ci tengo al suo onore».
A questa sua affermazione volevo sorridere, ma non fui capace. Poi risposi:
« Io non so di lettera, ma ammesso che sapessi, son cose che riguardano esclusivamente la mia onorabilità e non voi! ».
«No, son cose che riguardano me! E vi dico, ancora una volta che me la dovete dare immediatamente! » e fece Tatto di alzarsi per aggredirmi. Io rimasi calmo e continuai: «Non credo che mi costringerete a buttarmi dal balcone oppure scapparmene di casa come mi trovo ed andare gridando per le vie del paese? ».
« Ah, ah! Non credevo mai che foste arrivato ad uno stato tale di vigliaccheria! Si vede allora che non solo siete vigliacco, ma anche mascalzone, perché debbo credere ora che la lettera l’avete inventata voi! Ma io so ben donde proviene la lettera,- e perché non la volete consegnare, perché stamattina appena arrivato, non volendo, la piccola Giuseppa mi ha dichiarato che tempo fa, durante la mia assenza, una sera venne dalla mamma mia sorella Aurora col bambino e con Antonio e mangiarono insieme tante cose belle ».
L’Aurora era sgravata dopo mia sorella, però mia sorella non conosceva il suo bambino perché il marito le aveva proibito di andarla a trovare.
Mio cognato concluse:
«Io ancora non ho parlato con mia moglie, ma parlerò subito e poi faremo i conti ».
Al ricordo di mia sorella tremai ancora una volta e pensando a lei cercai anche ora di umiliarmi di fronte a mio cognato, pigliandolo colle buone e dicendogli che non era il caso di badare a delle sciocchezze; che io non ci facevo caso di niente, che ormai andava pigliando piede il libero amore e tante altre cose belle. Mio cognato per tutta risposta si alzò e si avvicinò con queste parole : « Me la vuoi dare sì,
o no? Più tardi vedremo se me la darai! ». Poi entrò da mia moglie dicendo: «Alzati e cammina!». Mia moglie si mise a piangere, fece per vestirsi, ma poi si coricò di nuovo, continuando a piangere. Mio cognato per consolarla le disse che lui era sicuro che lei non aveva fatto niente e che seppure l’avesse fatto di non avere paura che c’erano quattro fratelli a suo lato per difenderla e così uscì.
Rimasto solo lo strano individuo incominciò a ridere sarcasticamente nella mia testa: «Ah, ah! Ti dissi di star zitto? Adesso te laMEMORIALE DAL CARCERE
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sbrighi tu! Cornuto e bastonato! E non solo bastonato ma per quanto vogliono addossare la colpa a te ed a tua sorella! ». Mi fece ricordare anche che qualche giorno prima la suocera era andata in casa di mia sorella per bastonarla e che con mio cognato Giacomo c’era poco da scherzare, giacché, pur essendo ancora ragazzo, una volta l’onorevole Barca aveva dovuto, per non farsi strappare un documento dalle mani, metterlo alla porta colla pistola in pugno. A questo punto lo strano individuo mi lasciò ed al suo posto si sostituì nella testa una morsa di ferro che me la stringeva sempre più e non mi lasciava né pensare né agire se non secondo la sua volontà. Questa morsa di ferro mi tenne sotto la sua stretta per vari giorni e se qualche volta cercavo reagire, allora si stringeva sempre più fin quasi a spappolarmi il cervello, obbligandomi a mettermi sdraiato se non avessi voluto andare a finire per terra.
Intanto entrai in cucina, dissi alla persona di servizio di cuocere la pasta per sé e per la piccola Livia che mi sorpresi di vederla lì per quanto era presente fin dal giorno prima, e di mangiare loro, perché
10 non volevo mangiare.
Ritornato ai casi miei mi misi a passeggiare dallo studio al salotto. Mi vennero per la mente tante idee ma non fui capace di attuarne nessuna. Ad un certo punto presi mille lire dal tavolino del salotto e
11 misi nel tiretto della scrivania, per andarmene a Palermo, ma poi più tardi quando pensai di vestirmi per uscire non fui capace di farlo. Me ne accorsi in questo mentre che avevo la pistola nella scrivania e la portai nel tiretto del salotto ma non ricordo più se per evitare che l’avessi a portata di mano io oppure mia moglie o i suoi fratelli. Più tardi ancora venne una persona che desiderava parlarmi per certi documenti: prima lo feci salire, ma poi gli feci dire dalla persona di servizio che non c’ero in casa. Verso le quattro ebbi un momento di tregua e presi una tazza di caffè. Dopo il caffè mi affacciai al balcone per mirare il caseggiato ed il mare ed al loro posto vi trovai solamente una distesa oscura ed un cielo di un fosco porporino. In questo frattempo venne FOttavio e si portò via la Livia dicendo che doveva condurla dalle monache. Non avevo più pace ed andavo su e giù. Ad un certo punto vidi spuntare mia sorella e mi rallegrai perché ora da me si trovava fuori pericolo. Entrò nel salotto e mi disse : « Perché non gli dai la lettera? ».
« Perché no! Sai che vogliono mettere in campo ora? Che sei stata tu a scriverla d’accordo con Aurora ».192
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« Si? E come? ».
«Dicono che tempo fa, una sera è venuta da te l’Aurora, e così l’avete concertata! ».
«E come poteva venire da me Aurora se io sono carcerata? Io ancora non conosco il suo bambino. Se l’abbia scritta o meno l’Aurora io non lo so! E poi, dico io, andavo a menarmi la zappa nei piedi? Loro non possono che non possono vedermi ora; immaginiamo quando tu fossi diviso dalla figlia! Ma se loro adesso vogliono affermare questo, vado dritta a buttarmi a mare! ».
«Sei sicura del fatto tuo? ».
« E lo puoi mettere in dubbio? ».
« Già! Hai ragione! Non so più quel che dico! ».
In questo mentre intesi bussare giù al portone. Aprii il balcone della stanza da pranzo e vidi mio cognato Giacomo. Dopo un pò lo raggiungemmo nella stanza da letto ove c’era anche mia moglie già alzata. Mio cognato mi disse con aria di comando: «Ti sei deciso a darmi la lettera? ».
Io non risposi e stetti al mio posto guardandolo. Lui allora fece: «Lo so, lo so chi ha scritto la lettera, perché stamattina me l’ha detto Rosa e Livia! ».
«Come? » risposi io. «Oggi avete detto Giuseppa ed ora Rosa e Livia? ».
«Anche Giuseppa!» si fece portare dalla cucina la piccola Giuseppa, se la pose sulle ginocchia ed incominciò a dire: «È vero bella che venne la zia Aurora con Antonio? È vero figlia che avete mangiato cose belle? » e, siccome la bambina sorrideva vergognosa e non rispondeva lui insistè ancora intimorendola. La bambina ora spaventata stava per dire sì. Mia sorella che fino allora guardava trasognata, a questo punto si fece avanti, alzò le mani al cielo ed urlò disperata: «No, non è vero! Lo giuro, lo giuro! ». S’inginocchiò, si scoperse il seno e continuò fuor di sé «Non è vero! Lo giuro su questo latte che nutrisce quell’innocente! ».
Io mi avvicinai a mia sorella e le dissi: «Alzati! » e poi rivolgendomi a mio cognato profferii « E voi egregio signore, vi prego di essere più umano e di ricordarvi che siete in casa mia! ».
«Finché c’è mia sorella ci sto di diritto; e, se parli ancora ti piglio a calci nel culo » e si slanciò contro di me. Le donne si misero in mezzo e lui si fermò. Mia sorella allora mi chiamò e mi portò nella stanza da pranzo. Quivi giunti mi supplicò : « Dagli la lettera, ti prego, dagliela! ».MEMORIALE DAL CARCERE
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A questo punto ci raggiunse mio cognato seguito da mia moglie. Si avvicinò inferocito e dandomi una schiaffo profferì, portando la mano alla tasca di dietro: «Se non mi dai la lettera, ti faccio saltare la testa in aria! ». Le donne lo afferrarono ma io ero già nel salotto. In un attimo mi trovai colla pistola in mano, sbucai nella stanza da pranzo e gridai per intimorirlo di gettare la rivoltella ed uscire fuori. Lui diede un urto più forte per divincolarsi dalle donne ed io allora lo puntai. Vidi un’ombra distaccarsi per venirmi incontro, ma il colpo era partito. Da questo momento divenni tutto spirito di conservazione e scaricai tutti gli otto colpi della pistola perché davanti a me non vedevo altro che ombre che mi volevano uccidere. Né so come son rimasto vivo. Dopo un certo tempo che non so precisare mi sembrava di girare insieme alla casa, ma senza sapere ancora dove mi trovassi. Poi ebbi come un barlume di coscienza e mi vidi nei pressi del balcone dello studio insieme a mia moglie e mio cognato che si contorcevano e si lamentavano vicino a me; e, non vedendo più mia sorella, mi ricordai che prima c’era anche lei presente. Mi slanciai verso la stanza da pranzo e la trovai per terra immobile e supina. Mi buttai sopra, la chiamai, ma non avuta risposta dal suo labbro, la baciai freneticamente e scappai in mezzo alla strada.
A questo punto non posso fare a meno a non invocare, con tutte le forze della mia anima lacerata e dilaniata, la maledizione eterna sul capo di coloro che mi hanno portato a quel passo estremo.
Quando fui in mezzo alla strada, da quel momento, tutto il mio essere divenne una sola idea: impietosire il mondo per quella donna distesa immobile nella mia casa e che aveva tanto sofferto durante la sua vita; e, del resto non mi occupavo più.
Né ricordo più che dissi, che feci e che vidi in mezzo alla strada e nella caserma dei Carabinieri, né quando fui portato via da N##*. Né mi rammento più quanto tempo passò prima che mi accorgessi che mi trovavo custodito nel carcere ed ancora oggi a volte mi domando: è sogno o realtà, ero io o non ero io, è vero o non è vero? Un’altra cosa mi ricordo ancora di quei primi giorni indecifrabili: mi ricordo che volevo piangere ma che il pianto non veniva. Il pianto venne dopo che vidi varie volte mia sorella durante la solitudine della notte e dopo che una notte mi disse: «Taci ormai, non ti disperare, perché lo so bene che non sei stato tu ad uccidermi. E prego sempre il Signore perché non permetta che tu soccomba, e non per te, perché ormai il tuo ed il mio destino si confondono, ma per i miei figli, perché so che un giorno,194
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quando saranno in condizione di poter conoscere il bene dal male, si accosteranno sicuramente a te e solo allora ed in te troveranno queiraffetto che il mio povero cuore, dato che Lui ha creduto così, non gli ha potuto dare ». Dopo queste parole potei piangere profusamente ed il pianto incominciò a rendermi dei momenti sopportabili di vita. Ormai è finita e non ho altro da sperare dal mondo! Troppo amai e troppo soffrii, a dirla coi poeti. E l’amore e il dolore mi hanno lasciato solo amarezza e non altro che amarezza! E se qualcuno, che è venuto a trovarmi, mi ha visto calmo e forse sorridere, ed avrà scambiato questa mia calma e sorriso per indifferenza e cinismo, può stare certo e sicuro questo qualcuno, che non è atto a comprendere tuttocciò, che sotto la veste della calma e del sorriso, si può racchiudere e contenere in un cuore umano.
Ed ora voglio chiedere una cosa a Dio. Voglio che Lui attraverso la sua Provvidenza faccia sì che il cadavere di quella martire, di quella santa martire, perseguiti fino alla tomba, e, se può, anche fino alPoltre tomba, gli autori del suo continuo ed ultimo martirio. E non per sete di vendetta, no; perché il mio cuore non sa cercare vendetta, ma perché si ricordino, una volta tanto nella vita, che anche loro sono uomini e non soltanto bestie feroci.
E poi voglio ancora che la Giustizia scenda per un istante dalle alte sfere in cui la Divina Sapienza l’ha messa, e mettendosi a cercare attraverso le miserie del mio cuore, si faccia anch’Essa miserie del mio cuore; indi, risalendo con calma e serenità al suo giusto posto, mi giudichi.
Ed ho finito. Però prima di chiudere definitivamente mi permetto ancora di richiamare l’attenzione della Giustizia su di un fatto molto importante. Se al mio posto i componenti la famiglia Armoni avessero trovato uno dei frateli Audino o altro individuo consimile, sto sicuro che non solo avrebbero rispettato e venerata mia sorella, ma per quanto mia moglie non si sarebbe mai azzardata a mettermi il disonore in casa. Ma loro sapevano di avere a che fare con un coniglio, con un uomo accondiscendente, che si umilia, incapace a reagire, trepido e pauroso come lo sono tuttavia ed ora che vado rientrando in me. Né so prevedere ciò che mi succederebbe per la paura se dovessi in questo momento incontrarmi ancora una volta coi signori Armoni. Né penso che mio cognato Giacomo si sarebbe avventurato per la seconda volta, giacché lui se li sa guardare i mali passi, di ritornare in casa mia quel maledetto giorno del 17 novembre per strapparmi la lettera, se avesseMEMORIALE DAL CARCERE
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anche lontanamente previsto che io non ero più io, ma già sotto il dominio della stretta della morsa di cui ho parlato dianzi la quale ormai non mi lasciava più agire e pensare come un tempo quando io ero io. Ma lui era sicuro del fatto suo giacché mi aveva esperimentato ancora una volta verso l’una quand’era venuto inerme e colla sola arroganza ed ecco perché osò ritornare per la seconda volta. E non solo che osò ritornare, ma per quanto cercò d’introdurre nella mia casa l’usanza dei gangster americani di cui lui era tanto ammiratore, se non altro attraverso il cinematografo, sicuro che facendo al modo dei gangsters avrei consegnato ora anche la lettera, dato che la borsa l’avevo consegnata già da tanto tempo; e, non certo per attentare la mia vita, giacché la mia vita non solo faceva molto comodo a sua sorella che allora rappresentava mia moglie, ma anche a lui ed a tutto il resto della sua famiglia. Ed in tema di gangsters voglio dire anche che durante la grande guerra potei esperimentare che tutti i gangsters della portata di mio cognato ed anche più famosi di mio cognato, di fronte al pericolo ed alle pallottole del nemico erano soli loro a gettare le armi ed a fare marcia indietro, non solo, ma ad incitare anche i valorosi ad imitarli, giacché i gangsters diventano tali perché non sanno affrontare le responsabilità ed il peso della vita che non è cosa lieve, come la prostituta diventa prostituta perché non sa sopportare il peso dell’onestà, dappoiché, data la loro pochezza di mente, non immaginano neanche la vera gioia che dà l’eroismo ed il sacrificio. Ed è bene che sappia mio cognato che è questa la vera ragione per cui gli eroi e le donne oneste sono stati sempre pieni di bontà, perché bontà è anche sinonimo di comprendonio e d’intelligenza. E solo così mi posso spiegare ora la malvagità dei gang-sters e delle prostitute e perché quella sera del 17 novembre mio cognato Giacomo di fronte al pericolo si rivelò vero gangster, e cercò di salvarsi, facendosi scudo di sua moglie e di sua sorella. Ma io, ripeto, in quel momento, non ero più io e quindi non potevo pensare, come la penso ora, la sua vera indole ed intenzione; né ero più in condizione di poter vedere chiaro fisicamente, giacché vedere chiaro coll’occhio fisico significa vedere chiaro coll’occhio chiaro della mente; ed ecco propriamente la vera ragione per cui mi trovo ora nel baratro profondo in cui mi trovo. Saverio Montalto
Direttore responsabile: Alberto Carocci Iscrizione n. 3045 del 30-12-52 del Tribunale di Roma istituto grafico tiberino - Roma - Via Gaeta, 14 | |
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