Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: LA PORTA I. Quando ebbe finito con me, mia madre se la prese con Adriana. « E digli a tua sorella » disse, « che finché resterà a casa mia, l'America se la può pure scordare, e la notte deve dormire qui. Qui, hai capito? E i due o tre giorni fuori con l'amica, il viaggetto di dieci giorni a Napoli, il viaggetto a Genova, é finito, basta! Già che non é più figlia mia da un pezzo, ma se vuole stare qui, qui ha da stare e qui deve dormire, e deve aiutare a casa. Va bene? E degli americani, qui, non si deve sentire la puzza. Va bene? I viaggetti, eh? Brutta maledetta impunita! ». Quello che a mia madre gli scocciava di piú, di tutta la faccenda di Adriana, erano i viaggetti, specialmente per il fatto che quando la figlia stava fuori lei si doveva sfogare da sola. Inoltre sospettava, con fondamento, che da questi viaggetti mia sorella ci ricavasse parecchio, e non si dava pace che a casa non si fosse mai visto un soldo. «Insomma si può sapere dove sei stata tutto questo mese? » urlò attraverso il tramezzo a mia sorella, che s'era alzata e si sentiva muovere dall'altra parte. Secondo i calcoli di mia madre, contando tre o quattro mila lire a notte, l'ultimo viaggetto di Adriana doveva avere fruttato sopra centomila lire. Invece non aveva fruttato niente, perché questa volta lei era finita subito a San Gallicano. Ma mia madre non lo sapeva. «Allora andiamo? » disse mia sorella entrando in cucina con le valigie. Mia madre, quando vide le valigie, quasi soffocava. « Ah! Ahé! » disse. « Troia! Mignottona! » urlò. « Ma che? Hai sentito quello che gli ho detto adesso a tuo fratello? E rivai via, adesso, che nemmeno sei tornata? E ti credi di ritornare un'altra volta, che io ti faccio tornare? Uh, sporcacciona, vattene, vattene, vattene che t'ammazzo ». LA PORTA 81 « Io l'ammazzo, a questa. L'ammazzo! » urlava. «Ma non gliel'hai detto che andavo via? », disse mia sorella. « Non m'ha fatto parlare » dissi. «Non m'ha dato il tempo ». « Vado via» disse mia sorella. «Forse torno, tra... tra qualche anno; forse non torno. Qui ci stanno un po' di soldi. La roba mia che ho lasciato qui te la puoi vendere ». Uscimmo prima che riprendesse fiato. Dalle scale la sentimmo che strillava: «Non ti crederai di avermi fatto l'elemosina, eh? Non ti credere che ci ho bisogno dei soldi tuoi! Se me lo dicevi prima, che te ne an- davi, io avevo già trovato da affittare lo stanzino, avevo trovato! Ci posso fare quattromila lire con lo stanzino... ». Per strada pioveva. Camminavamo rasente al muro. Mia sorella avanti, con la valigia piccola, io dietro. « Almeno sei guarita bene? » dissi. « Se ti si complica, mentre stai chiusa là dentro, come fai? ». « No, ho fatto l'analisi » disse seguitando a camminare. « Dice che sono guarita bene ». Camminava svelta sui tacchi alti, saltando le pozzanghere. Ogni tanto rallentava davanti a una vetrina. « Penso se mi sono scordata di comprare niente » disse. « Possiamo vedere quando stiamo là » dissi. « Caso mai te lo vado a comprare io ». « A proposito » dissi, « ti volevo comprare qualche cosa, ma questi giorni ci ho avuto delle spese... così non ho potuto ». « Qualche cosa? » disse Adriana. « Che cosa? Un regalo? ». « Beh, si » dissi. « Ma sai, le spese... ». « Che spese? » disse. « Mi pare che é da parecchio che stai senza soldi ». « Beh, come ti pare » dissi. « Comunque bene o male tiro avanti, non ti preoccupare ». «Franco» disse. Le caddi quasi addosso, inciampando nella valigia, perché s'era fer- mata all'improvviso. « Ci prendiamo un caffè? » disse. « Aspettiamo dentro che spiove ». Entrammo in una latteria vicino al Pantheon. Dentro c'erano un 82 FRANCO LUCENTINI altro paio di coppie; gli uomini guardarono Adriana, mentre si toglieva l'impermeabile. Era bionda e portava un bel vestito elegante. Ordinai due cappuccini. « Senti » disse mia sorella, « non ti potrei aiutare? Soldi non ce n'ho, lo sai, ma tutta quella roba che ho messo da parte ne ' potrei vendere un po'. Vuol dire che invece di durare tre anni durerà due, oppure me la faccio bastare lo stesso per tre, insomma si pub vedere. Di? ». « No » dissi, « te l'ho detto. Io, questo progetto tuo dei tre anni là dentro, non so se sia buono e nemmeno l'ho capito bene; ma se ci hai penato tanto per metterlo su è meglio che lo fai come hai deciso, oppure( cambialo e stacci dieci anni, stacci un anno solo, non ci stare per niente, ma io non ti voglio levare niente. Io poi mi posso sempre arrangiare magnificamente, una che mi mantiene la trovo sempre, senza che devo venirti a levare la roba a te ». Non avevo pensato che lei avrebbe tirato fuori quell'altro argomento, ma mi accorsi subito, dalla faccia, che stava per farlo. « Ha spiovuto » dissi in fretta, « vogliamo andare? ». « Aspetta » disse. « Senti ». « Sento » dissi scocciato. Senti » disse. «Quando devi fare il mantenuto di una di quelle vecchie... Dico, quando ti devi mettere con una cafona di quel tipo, magari piú impestata di me, allora... non é che io ti stia a fare ancora delle proposte, delle dichiarazioni... ma allora il mantenuto mio non lo potresti fare? A te che ti costa? Di, non lo potresti fare? ». Quando lei ricominciava con quella faccenda io non ci avevo altro argomento che quello, fondamentale, che non mi andava. Ma era difficile starglielo a sbattere in faccia ogni volta. «E il progetto? » dissi goffo. «La vita in cantina? Volevi comin- ciare oggi e già ti sei stufata? ». - « Ah, quella é una scemenza » disse. « E una scemenza ». « Sarà una scemenza » dissi, « ma ci sei stata appresso tanto tempo! Ci tenevi tanto. Poi, pub essere pure che non sia una scemenza, che ne so? In ogni modo...». « In ogni modo » disse mia sorella, « lo sai che per averti a te pian- terei tutto, in qualunque momento ». - LA PORTA 83 Si accorse di avere detto male e si morse le labbra. Batté il bicchiere col cucchiaino per chiamare il cameriere, page,. « Franco, sei scocciato? » disse. «Non sono scocciato» dissi, «ma non ne parliamo più. Non è meglio? ». « Va bene » disse. « Amore mio » disse. Pioveva ancora, ma più piano. La casa era poco dopo il Pantheon, ci arrivammo in pochi minuti. « Non c'è portiere » disse mia sorella. « È uno strazio di meno. La porta sta nel secondo cortile ». Nel secondo cortile c'era quella porta sola, e i muri erano senza finestre. C'erano solo, uno per piano, dei finestrini che dovevano essere quelli dei cessi. « L'ho affittata come magazzino » disse, cercando le chiavi nella borsetta. « Ho pagato tutto anticipato. Credi che verranno mai a scocciare? ». « E che ne sanno che ci stai tu dentro? » dissi. La porta era di legno erto, ferrata. Mia sorella richiuse a chiave e mise il catenaccio. Restammo nel buio sull'orlo della scala. «Non c'è luce? » dissi. « No » disse Adriana. « Giú ci ho un lume a petrolio, ma per la scala a che servirebbe? Accendi un fiammifero ». La scala andava giù dritta per una ventina di scalini, poi voltava a sinistra. Dovemmo accendere una dozzina di fiammiferi prima di arrivare in fondo. «Che ti pare?» disse mia sorella quando stemmo sull'ultimo gradino. La cantina s'allungava davanti a noi tra due muri alti, imbiancati a calce, contro i quali era sistemata una quantità di casse. In fondo, dietro un grande tavolo messo di traversa, si vedevano confusamente altri mobili. Il pavimento fino a un certo punto era di terra battuta, poi, dal; tavolo fino alla parete di fondo, di cemento. « Il cemento ce l'ho fatto mettere io » disse mia sorella accendendo il lume sul tavolo. « Ho fatto dare una pulita ai muri e aggiustare 84 FRANCO LUCENTINI l'impianto dell'acqua. Non m'é costato molto. Tutto il resto l'ho lasciato come stava. I mobili li ho comprati usati ». I mobili erano il tavolo, due sedie, un letto accostato alla parete di fondo e un armadio a specchio. Al muro c'era qualche mensola, con un fornello a benzina, delle stoviglie, un ferro da stiro. «Mica male-» dissi. « Pere)» dissi, « almeno sul letto, invece di una coperta americana ce ne potevi mettere una damascata. Rossa o azzurra. Tutte le donne ce l'hanno ». « Tutte le puttane, vuoi dire » rise mia sorella. « Ma io tanto ci devo dormire sola ». Oltre alla coperta del letto, tutta la roba che c'era li dentro era americana, comprese le latte di benzina che dovevano servire per il fornello e per il lume. Lei non aveva aperto le gambe per quattro soldi. Le casse dei viveri, in certi punti, arrivavano al soffitto. «Ma é un deposito dell'UNRRA! » dissi. « Sono stati gentili con me » disse mia sorella. « Le casse me le por- tavano direttamente qui con le jeep ». « Dietro quella tenda che c'é? » dissi. « Il bagno » disse. « Cioé, proprio il bagno non c'è; c'é il cesso e un lavandino ». «Insomma stai sistemata benino» dissi. «Peró... ». «Peró? » disse. S'era seduta sul letto e s'era tolte le scarpe bagnate. Si stava cam- biando le calze. « Per') ? » ripeté. « Ecco » dissi. « Ci sono diverse cose... Tutto questo sembra abba- stanza strano per essere divertente, ma per un mese o due, per qualche mese... Poi, non credi che ti annoierai? ». Mia sorella mi guardò, fermandosi con una calza sfilata a metà. « Perché? » disse. « Credi...». « Mi prendi le pantofole nell'armadio? » disse. « Quelle carine, col tacco alto ». Poi disse: « Credi che di sopra mi diverto? ». Le presi le pantofole, mi sedetti anche io sul letto. « Non so » dissi. « Io qualche volta mi diverto abbastanza ». LA PORTA 85 « Con quelle vecchie? » disse mia sorella. « No » dissi. « Con le vecchie no. Ma mi piace camminare, andare attorno ». « Beh » disse, « io credo di essere andata attorno abbastanza. Adesso mi piace stare qui. Un'altra, a forza di scocciarsi come mi scocciavo io, magari si sarebbe ammazzata. Io ho preso questa via di mezzo. Poi forse mi tornerà la voglia di andare attorno. In tre anni mi può bene tornare ». «In ogni modo» dissi, «puoi sempre uscire prima. A un certo punto, se non ti va più, non ti sforzare ». Mia sorella rise, poi diventò seria. Poi rise ancora. « Senti » disse, « se mi ammazzavo, non l'avrei fatto col permanganato. Lo sai come succede. Dopo uno s'affaccia alla finestra, strilla: "Ho preso il permanganato, la varecchina", gli fanno la lavanda gastrica. Mica decoroso. Così, qui é lo stesso. Non é che dopo una settimana, un mese, posso riuscire fuori, tornare tra quelli di sopra: "Riec-comi qua". Qui se ci sto é perché ci devo stare, perché mi tocca starci, perché non potrò uscire. Capisci? ». « Non tanto » dissi. « Perché non potrai uscire? ». Cominciò a sfilarsi l'altra calza. « Perché là in fondo, vedi? » disse indicando il vano della scala, dall'altra parte della cantina. « Là c'é un'altra porta, come quella che dà sul cortile, e chiude la scala in basso. Si pub chiudere a chiave anche quella. Quando saranno chiuse tutte e due potrò pure urlare, nessuno sentirà ». Mi alzai e sollevai il lume, guardando verso la scala. Si vedevano i grossi cardini della porta; il battente era ribattuto contro il muro, sul pianerottolo buio. Cominciai a capire. «La chiave che apre la porta di sopra, apre anche quella? » dissi. « Sì » disse. « E ce n'é una sola? ». « Si » disse. «E chi la terrà? ». « Tu » disse. «Per tre anni. Non importa che siano tre anni precisi. Mese piú, mese meno. Tre anni circa. Poi vieni .e mi apri. Non ti pare combinato bene? ». 86 FRANCO LUCENTINI « Ah, benone » dissi. « Solo che, mettiamo, se io domani mi rimettessero dentro, e se invece di tre anni circa mi dessero cinque anni circa, sei anni circa, sette anni e tre mesi, senza condizionale, circa? Tu ci avresti tutto il tempo di stirare le gambe, non ti pare? ». « Che c'entra » disse. « Puoi sempre mandare qualcuno, avvertire che mi vengano a tirare fuori ». « Ma non ti mischiare in cose pericolose » disse pure. « Non ti fare più mettere dentro! Ti tocca di stare insieme con quelli che stanno dentro, che non puzzano meno di quelli che stanno fiori, e poi con i questurini, che puzzano ancora di più. Che gusto? Stai attenta! ». « Va bene » dissi, « ma se per esempio le gambe le stirassi io, prima di potere avvertire qualcuno? Se una di quelle vecchie un giorno gli gira male, mi fa la festa? Sono cose che possono succedere. Uno può sempre crepare all'improvviso. Oppure ti può succedere qualche cosa a te, ti puoi sentire male, qui, senza nessuno. E vorresti crepare qua dentro, vuoi che io ti lascio crepare qua dentro? ». Stette ad aggiustarsi le giarrettiere, guardando in terra. « Senti » disse, « se crepo qui a te non ti deve importare; sarò crepata bene. Fuori della... Fuori... Insomma fuori. Se crepi tu... Questo è un affare mio, tu non c'entri, non te lo dico per fare una scena... Ma se crepi tu, voglio crepare pure io. Va bene? Almeno questo lo posso fare, senza che ti dò fastidio? Ci hai qualche cosa da dire? ». Io non ci avevo niente da dire, ma tutta la faccenda mi cominciava a scocciare forte. Dietro a tutti quei discorsi ci cominciavo a sentire una cosa falsa, per niente pulita. Ci avevo esperienza di donne isteriche, no? « Credo che mi stai cominciando a scocciare » dissi. « Se tutta questa gran cosa la fai per me, senti bene, ti potevi risparmiare la montatura. Questa storia che vuoi stare fuori dal mondo, solo per stare fuori dal mondo, più sta e meno mi convince. Perché proprio tre anni? Che aspetti che succeda, in. tre anni? Se lo fai per me, non ti credere che succeda niente. Se è tutta una scena che fai per me, ti devo dire che è una scena pietosa, e in tre anni diventerebbe solo più pietosa. Non ti crederai mica che io apprezzo lo spirito di sacrificio, eh? Non ti crederai di fare con me la scena madre, il finale spettacoloso, con me che arrivo in capo a tre anni, con la chiave in mano, innamorato pazzo? Non ti crederai di mettermi a me in una fesseria simile? La chiave, LA PORTA 87 cara Adriana, te la tieni tu, e io in questa storia non ci voglio più entrare. Dovevo capirlo prima, che tutta la faccenda non reggeva, che ci mancava qualche cosa. Tu non sei il tipo che vive staccata, che se ne frega, che gli piace di starsene tranquilla. A te ti ci vuole la grande passione, eh? la grande speranza! Si sa, a tutti gli ci vuole, pure a me, ma io la commedia, se la devo fare, me la faccio da me; non ci vado a mettere dentro, con l'imbroglio, uno che non c'entra ». Mi scuserai, eh? » dissi dopo. « T'ho detto quello che ti dovevo dire. Te l'avrei detto prima, se l'avessi capito prima D. Adriana si abbassò la veste, si infilò le pantofole. Venne vicino a me, accanto al tavolo, e mi dette un bacio sulla faccia. «Tu sei sempre acuto» disse ridendo, «capisci tutto. Ma pensi sempre troppo a te, sei un pochetto presuntuoso, e allora qualche volta capisci tutto, ma non capisci il resto ». « Che vuoi dire? » dissi smontato. Lei rideva, era molto bella, e si vedeva chiaro che in quel momenta se ne fregava di me, ci aveva qualche altra cosa che l'interessava. Non era la prima volta che ci facevo una figura così con una donna. « Come sei caro! » disse tenendomi abbracciato. « Come , ti voglio bene! ». « Adesso ti spiego » disse. « Tu hai capito bene, hai capita che non bastava. Non ti sbagli mai, tu! È vero che ci ho la grande passione, la grande speranza. Ma non sei tu. Pianterei ancora tutto, per te, ma quello che aspetto qui dentro non sei tu. Io pure, la commedia me la faccio da sola, non credere che sono tanto cretina. Anzi me la volevo fare tanto da sola che non volevo nemmeno starti a spiegare, perché tu non credessi che ti ci volevo tirare dentro ». «Vedi come ti sei sbagliato? E perché non mi vuoi bene! » disse baciandomi di nuovo. « È vero pure che non lo sapevi, tu, che qui c'è un'altra porta ». Avevo i capelli di lei sulla faccia, brillavano alla luce del lume. « Che porta? » dissi di soprassalto. « Quella lá » disse. Si staccò da me e girò intorno al tavolo, andò in mezzo alla cantina. « Questa » disse. ß8 FRANCO LUCENTINI A meta del muro di sinistra, da dove stavo io, si vedevano delle macchie scure che prima non avevo visto. Ma non sembrava una porta. Presi il lume e mi volevo avvicinare. « No » strillò. « Il lume lascialo la ». Lasciai il lume e mi avvicinai. « Che cos'è? » dissi. Dietro quattro tavole, inchiodate al muro di traverso, si vedeva il vano nero di una porta. La voce risuonava forte davanti a quel vuoto. « Che cosa c'è, la dietro? » dissi. « Non son disse mia sorella. « Quando presi la cantina mi dissero che li sotto non si può usare come magazzino, è troppo umido. Pare che sia uno scantinato, ma non sta nella costruzione; le fondamenta finiscono qui ». « E dove porta? » dissi. « C'è un'altra uscita, li sotto? ». « No » disse. « È scavato dentro la terra, non ci sono uscite. Non so quanto è grande, perché non ci sono mai scesa. Non so altro. Adesso mi dovresti schiodare queste tavole ». Stetti un momento a pensare che altro ci poteva essere sotto quella storia: ero ancora sospettoso, anzi più sospettoso di prima, dopo che lei era riuscita a smontarmi. Poi ci rinunciai. Accostai alla porta una cassa di latte in scatola e ci montai sopra, cominciai a schiodare la tavola in alto. « Ci hai un pezzo di ferro, qualche cosa per fare leva? » dissi. « Non viene ». Andò al tavolo e si mise a cercare nel cassetto. La vedevo cercare con la testa chinata, i capelli biondi sul viso, nel cerchio bianco del lume. Portava un abito grigio, morbido, con una camicetta bianca. Per la prima valta pensai a quando sarebbe rimasta sola, seduta davanti al tavolo, aspettando. Tornò con un coltello da cucina a un apriscatole. «Puoi fare con uno di questi? » disse. Presi il coltello ma non era forte abbastanza, si piegava. « Dammi quell'altro » dissi. Lei mi tese l'apriscatole, alzandosi sulla punta dei piedi. Nell'ombra, sembrava ancora piú morbida, con la sua faccia chiara e i capelli sciolti sulle spalle. Il lume brillava in fondo alla cantina. LA PORTA 89 « Come sei elegante » dissi. « Come sei bella ». « Che ti prende? » rise. L'apriscatole non era molto adatto, ma riuscii lo stesso a schiodare la tavola in alto. Le altre vennero via facilmente. Scesi dada cassa per schiodare l'ultima. Dalla porta veniva un odore di muffa. Una scala di legno, senza ringhiera, portava in basso; si vedevano i primi gradini. « Questo legno dev'essere fradicio» dissi. « Non possiamo mica scen- dere. Qui si rompe, caschiamo di sotto ». « Ma mica dobbiamo scendere » disse mia sorella. - Rimasi fermo, con l'apriscatole in mano, a guardarla. « Ma che vuoi fare? » dissi. « Ci vuoi scendere dopo, da sola? Che... Ma che ti credi di trovare? Che credi... Di un po', perché, prima, non m'hai fatto portare il lume? Non ridere, stupida! Che c'é, là sotto? ». « Non lo so » disse. « Non ci voglio scendere e non lo voglio sapere. Non ci voglio nemmeno guardare col lume e non voglio che ci guardi tu ». Mi cominciai a impaurire. Non credevo che fosse proprio matta, ma pensavo per forza che ci avesse qualche brutta intenzione. Guardai il coltello che teneva in mano. Lei si mise a ridere. « Quanto sei stupido! Che, hai paura che ti voglio ammazzare? » rise. Non pareva isterica, ma non mi sentivo per niente sicuro. «Perché m'hai fatto levare le tavole? » dissi. Seguitò a ridere, però non era più un riso allegro. «Perché m'hai fatto levare le tavole?» dissi ancora. « Vieni qui » disse, « mettiamoci a sedere ». Tornammo verso il tavolo. Lei ripose coltello e apriscatole, poi si mise a sedere sul letto. Io la guardavo continuamente. Sapevo che se ne sarebbe accorta, ma le tenni lo stesso gli occhi sulle mani, attento a tutto quello che faceva. « Puoi guardare sotto il cuscino » disse sconsolata. « Non c'é nessuna rivoltella ». • « Tu lo sai la vita che faccio » dissi. « Lo sai di che cos 'é che ho sempre paura. Mi dovresti capire ». YU' FRANCO LUCENTINI « Ti capisco » disse. Restammo zitti per un pezzo, pensando ognuno per conto suo. Io stavo appoggiato. all'orlo del. tavolo, di fronte a lei. Lei adesso pareva molto stanca. Si aggiustò il cuscino dietro la testa e si sdraiò. « Prendimi le sigarette, nella borsa » disse. Le presi le sigarette, tornai ad appoggiarmi al tavolo. Fumò senza parlare. Restò a guardare il soffitto. « Tu lo sai il sentimento che ci ho per .te » disse. « Si » dissi. « Non é una cosa nuova ». E non è solo_ quello » disse. c< Ci sono altre cose, che sento. Un mucchio di cose, non ti saprei dire precisamente. Se fosse diverso, se fosse una vita diversa, sono cose che si potrebbero ordinare... ci potremmo fare una figura decente, pulita. Ma c'é andata male. Così come stiamo, tutte queste cose... fanno solo un vomitò, in gola. Così come stiamo, tutto sarebbe megliq di questo vomito, di questo disordine. Se ci fosse una cosa sola, qualunque cosa, che mandasse via tutto il resto, che non desse tempo di sentire niente altro, che spazzasse via tutto... ». « La grande passione » dissi. « Che ci vuoi fare » disse. « Sono una povera puttana, no? ». Si girò sul letto per schiacciare la sigaretta nel portacenere, sullo sgabello accanto a lei. Mi sorrise con un sorriso sforzato, sembrò che volesse cambiare argomento. « Lo sai che sono abbastanza paurosa » disse. cc Non credi che potrei avere paura, qui dentro? ». « Ma certo » dissi, « specialmente con quella porta aperta II in mezzo, senza nemmeno sapere che c'è sotto. Io credo che in tre anni ci diventerei un pazzo. Una volta... ». Mi fermai di colpo, sbalordito. « Ah...» dissi. « Ah, questo » dissi. Mia sorella mi guardava, aspettava che dicessi qualche cosa, che protestassi. Mi alzai e cominciai a camminare per la cantina, guardando le scritte sulle casse dei viveri: «Army Ration C »; « Evaporated Milk »; « Safety Matches »; « Cocoa »; « Army Ration C »; « Army Ration C ». LA PORTA 91 Due volte mi fermai davanti alla porta e guardai in basso. Non si vedeva niente, veniva un odore di muffa e fango. Tornai da lei, mi sedetti sul letto. « Così la grande passione era questa? » dissi. « La paura? Quello che deve spazzare via tutto, ripulire tutto, é la paura? ». « Non ho trovato altro » disse. « Io non ho saputo trovare altro ». Mi prese una mano e la carezzava, poi la lasciò. «Non credi che ce ne sia abbastanza di sopra, di paura? » dissi. « Ma é sporca » disse. « È diversa. Quella che aspetto qui é un'altra ». Lei aspettava la paura bianca, assoluta. Ce l'aveva già sulla pelle. «Non so che dire » dissi. « Per il gusto mio é un po' forte. Mi sem- bra pure un po' inutile. Non capisco che cosa speri». « Spero una cosa » disse. « Aspetto qualche cosa ». « Ma che cosa? » dissi. « Qualcuno » disse. « Come? ». « Aspetto qualcuno » disse. « Ma tu mi vuoi fare diventare scemo » dissi. « Che é adesso que- sta novità? Chi aspetti? ». « Oddìo » si lamentò, « non ti posso spiegare, non te lo so spiegare. Sono così stanca. Stanotte non ho dormito per niente. Vorrei dormire ». «Oh! e dormi! » dissi. «Mettiti a letto e fatti una bella dormita. Dopo discorriamo ». « Perché vedi» disse, « io credo che lá sotto... ». (( Niente, niente» dissi, «adesso non voglio sapere niente. Mettiti a letto e dormi. Ci abbiamo tutto il tempo per discorrere dopo. Va be- ne? Ti metti a letto? ». «Va bene» sorrise, sollevandosi sui gomiti. «Mi fai alzare? ». Mi tolsi dal letto perché potesse mettere giù le gambe, l'aiutai ad alzarsi. « Come sono stanca! » disse, cominciando a spogliarsi. Sistemò la giacca e la camicetta sulla sedia, con cura. La sottana e le calze le mise ripiegate sulla spalliera del letto. « Mi dài la camicia? » disse. « Sta nell'armadio, in basso ». Stava per togliersi la biancheria, poi mi guardò. Prese la camicia e andò dietro la tenda. 92 FRANCO LUCENTINI La sentivo muovere i barattoli della cipria, della crema per la notte. Mise fuori un braccio perché le dessi un asciugamano, che stava nell'ar- madio. Poi volle il pettine, che stava nella borsa. Mi sedetti sul tavolo, aspettando. « Ah! » strillò. « Lo sapevo che m'ero scordata qualche cosa! ». « Lo spazzolino da denti » dissi. « No? ». « SI» rise. « Te lo posso andare a comprare » dissi, « ma a quest'ora dovrebbe essere chiuso ». Venne fuori dalla tenda. « Puoi prenderlo alla farmacia notturna » disse. « Io intanto vado a letto. Tu puoi stare fuori, mentre io dormo, puoi andare a un caffè. Dormirò un paio d'ore ». « Oppure...» disse. « Se vuoi che t'aspetto alzata... Tu torni subito e ci salutiamo, non ne parliamo piú... Ne riparleremo quando tornerai, tra.., tre anni ». « Ma tu sei scema» dissi. « Mettiti a letto. Torno tra un quarto d'ora, tu vedi di dormire subito ». « Comprane dieci » disse. « Come dieci? ». «Eh...! ». « Ah » dissi. Si infilò sotto le coperte, con la faccia verso il muro. « Ciao » dissi carezzandola. « Dormi ». « Ciao ». Per la scala mi accorsi di avere finito i fiammiferi. Tornai indietro e cercai di ritrovare la cassetta dei « Safety Matches » che avevo visto prima. Mia sorella pareva che giá dormisse. Presi i fiammiferi e tornai su, aprii la porta. Attaccata alla chiave della porta c'era un'altra chiave, che doveva essere quella del portone. La provai nel portone prima di uscire, perché era chiuso. Andava bene. « Che, sa una farmacia notturna qui vicino? » chiesi a un tizio. « A piazza San Silvestro » disse. « Non credo che ce ne sia una più vicino ». «Sa che or'è?» dissi. « Le tre ». LA PORTA 93 A San Silvestro, quando chiesi gli spazzolini, il farmacista mi guardò strano. Lo sentii parlare piano con la cassiera, mentre uscivo. Presi per il Tritone e arrivai al Caffè Notturno, chiesi un caffè doppio. • «Corretto? » disse. «Mistrà? ». In quel momento mi ricordai che mia sorella aveva detto di aspettare qualcuno, e poi aveva detto un'altra cosa. « Perché vedi » aveva detto, « credo che là sotto... ». « Lasci stare » dissi, « ripasso dopo ». Tornai correndo verso il Pantheon; girai un pezzo, di corsa, prima di ritrovare la strada, il portone. Per la scala per poco non mi rovinavo. Il lume brillava sempre sul tavolo. Adriana dormiva tranquilla, voltata verso il muro. Stetti un po' a guardarla dormire, incerta. Volevo prendere il lume ma pensai che si sarebbe svegliata, avrebbe avuto paura. Tornai alla cassa dei fiammiferi, ne presi quattro o cinque scatole. Poi andai diretto alla porta; tenendomi con una mano al pavimento cominciai a scendere. La scala pareva abbastanza solida e non scricchiolava nemmeno. Dopo il quarto scalino dovetti lasciare la presa, in alto, e continuai tenendomi forte ai lati. A un certo punto il piede che spingevo in basso trovò il vuoto, lo scalino era rotto; cercando piú sotto, per trovare l'altro scalino, toccai terra. Sopra la testa, a qualche metro, vedevo il riquadro illuminato della porta. Aspettai un minuto o due, nel buio, senza muovermi. Non si sentiva nessun rumore, l'umidità era grandissima. Alla fine accesi un fiammifero, e lo tenni alto sopra la testa, finché non si fu consumato. Poi ne accesi un altro. Poi ne accesi un mucchietto insieme e mi girai intorno, senza muovermi dal posto dove stavo. Pensai di risalire subito, perché non c'era altro da vedere: era un pozzo quadrato, con si e no tre metri di lato, completamente vuoto. Le pareti erano senza rientranze né aperture, il fondo era di fango e pietre coperte di muffa. Per urlo scrupolo andai attorno lungo le pareti, accendendo altri fiammiferi; guardai un'altra volta per terra e negli angoli. Poi risalii, badando a non fare rumore. Rientrando chiamai: «Adriana! », perché non s'impaurisse. 94 FRANCO LUCENTINI Non rispose. Quando fui vicino vidi che dormiva sempre come prima, col respiro appena più pesante. Mi sedetti accanto al letto, aspettando che si svegliasse; poi mi alzai un'altra volta e andai a guardare dietro la tenda, girai un po' per la cantina, guardando i pacchi e le casse. Una cassa era aperta e mezza piena di riviste americane e romanzi; presi una rivista e tornai a sedermi accanto al letto. In quel momento Adriana aprì gli occhi, mi guardò, fece un grande urlo. Saltai sul letto, prendendola per le braccia. « Adriana » strillai, « amore mio, che c'é, che é stato? Che hai? Tesoro, che hai? Sono io! Di che hai avuto paura? Che hai visto? Non avere paura. Ci sto qui io ». Lei stette un momento a guardarmi, esterrefatta, con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Poi chiuse gli occhi, li riaprì. « Oddio » disse, « m'ero sognata... ». Mi misi seduto sul letto e la sollevai per le spalle, cercando un altro cuscino da metterle dietro la testa. « Aspetta » dissi, « ti prendo un altro cuscino, ti porto qualche cosa da bere ». «No» disse, «stai qui. Stai qui ». « Sto qui » dissi. « Non avere paura ». La tenevo stretta contro il petto e la sentivo che tremava. « Appòggiati -così » dissi, sistemandola con la testa e le spalle appoggiate a me. «Non avere paura ». Seguitava a tremare. Ogni tanto pareva che si calmasse, poi all'improvviso tremava più forte. «Mi sono sognata...» disse. «Non parlare» dissi, «stai calma. Adesso stai calma, tesoro, non parlare». La camicia le era scesa dalle spalle, la ricoprii. .Le carezzavo le braccia, i capelli, il viso. Masse una mano sulla coperta, cercando la mia. Prendendole la mano pensai a tutta la vita che aveva fatto, alla vita che avevo fatto io. Alla vita che facevamo tutti. Le tenni la mano stretta, senza parlare, mentre lei tremava sempre più piano. Alla fine si calmò, girò la testa e mi guardò, sorrise. « Povera me » disse, .« quanto sono stupida. Che sorella stupida che ci hai ». LA PORTA 95 «Non sei stupida » dissi. « Sei un amore. A tutti gli può succedere di credersi chi sa che, di volere fare chi sa che, e poi dopo si vede che non si può fare, che non gli si fa, che é meglio fare come tutti. Anche a te ti può succedere, hai visto? Queste non sono cose per te... Tu sei piccola... carina... ». Si mise a ridere. « Non sono mica piccola. Sono alta » disse. « Va bene » dissi, « sei alta. Ma adesso ce ne andiamo via, torniamo a casa. Tutta questa roba la vendiamo e ti prendi una casetta in cam- pagna. Ti piacerebbe, no? E il sogno di tutte le... di tutte le ragazze di farsi la casetta in campagna, e tu invece viene qui a farti questi sognacci ». Rise e mi carezzò la faccia. « Che amore che sei! » disse. « Ma che t'eri sognata? » dissi. Ricominciò a tremare, ma si calmò subito. « Ho sognato uno » disse. « Che entrava uno ». « Ma chi? » dissi. « Uno...» disse. « Quello che... T'ho detto, prima, che aspettavo qualcuno... Qualcuno che deve entrare...». « Qualcuno che deve entrare da quella porta? » dissi. (' Si » disse. - « Ma se là sotto è chiuso » dissi, « se è tutto chiuso. Non l'hai detto tu che é chiuso? ». « Si » disse. « E allora, se é chiuso, chi deve venire! O forse credi che ci sia già? È qualcuno che ci sta già, là sotto? ». « Non so » disse. « Non credo che ci sia già ». « Ma allora chi è? Come può venire? E un mostro? ». « Si » disse. « Così. Più o meno. Sai, in tre anni, credo che mi verrà una paura così grande... aspetterò così forte... che qualcuno dovrà venire, anche se non c'è nessuno, adesso ». « Uh » dissi baciandola, « scema! ». « Cosi » dissi, « quando torno, ti trovo a letto con un orribile mo- stro, e magari madre di qualche mostricciattolo ». Mi guardò ridendo. 96 FRANCO LUCENTINI « Tu sei sempre cosh » rise. « Con te non si pub parlare. Perché poi dovrebbe essere orribile? Potrebbe essere un bellissimo giovane! ». Giusto » dissi. « Ma allora a che ti serve che sia uno spettro, un mostro? Non ne puoi trovare uno che non é mostro, senza stare a girare tanto? Senza..., senza stare a... aspettare tanto? ». Seguitò a ridere e risi io pure, ma ridevo stonato. Lei . se ne accorse e non rise piú. Voltò piano la faccia in sú, con gli occhi azzurri spalancati, guardandomi senza espressione. Respirava appena, con la bocca sotto la mia. Bestemmiai e mi volli alzare, ma non mi potevo muovere. H. Fuori doveva essere giorno, a momenti. Il lume s'era quasi spento. «Franco, dormi? » disse. Guardavo il soffito, che non si vedeva quasi piú, le ombre radu- nate agli angoli. Lo specchio dell'armadio luccicava come gli specchi delle camere mobiliate, la sera, tra gli ultimi sospiri e le lenzuola spie- gazzate, col sudore addosso freddato. « No » dissi. « Non avere paura » disse. « No. Di che? ». « Che io adesso mi credo... pretendo... ». « Non ho paura » dissi. « Vuoi andare via subito? ». « Non lo so ». S'era aspettata quella risposta, ma incassò male lo stesso. La sentii che s'aggrappava alla coperta, all'improvviso. Poi restò ferma, supina. « Tu lo capisci » disse, « che io adesso devo restare qui? E chia- ro... adesso? ». « Non lo so » dissi. «Tu che farai? ». « Ma, il solito, credo ». Restammo un'altra volta in silenzio, a lungo. Il lume si spese del tutto. LA PORTA 97 Ricominciò a parlare, ma non parlava a me. « Non avrò paura subito » disse. « Adesso ci avrò questo da pensare. Per parecchio tempo. Dopo comincerò a stare sveglia, a guardare la porta, il buio dietro la porta, aspettando. Ma non é come t'ho detto. Forse non è come t'ho detto. Non so che cosa aspetto. Ma aspetto che tutto questo si rompa. Qualunque cosa. Un urlo, una crepa, qualche cosa. Qualcuno. Una crepa, alla fine una crepa della terra, lá sotto. È tutta la vita, tutti questi anni, che l'aspetto. Ma fuori non c'è tempo di starci a pensare, no? Fuori ci abbiamo il tempo di farci delle speranze, alte speranze, e allora si ricomincia, non succede niente. Non si arriva mai avanti abbastanza, fuori... Ci abbiamo sempre qualche bella pensata, qualche bella consolazione, e allora non ci abbiamo piú voglia abbastanza di uscire, eh? La porta resta chiusa ». « Resta chiusa » ripeté. « Se c'è qualcuno, di lá, non entra ». «Tu credi che c'é qualcuno, di lá? ». « Credo... Non lo so » disse. « Ci può essere. Ci dovrebbe essere. Mi sento che ci dovrebbe essere. Un'uscita... ci dovrebbe essere. Se no... ». «Perché, se no? ». « Ah, dio » disse, « se no... ». «Se no? ». « Ma é perché nessuno ci ha coraggio » strillò. « Perché nessuno... nemmeno tu. Se credete che non c'è nessuno, perché non ci andate a guardare? Tutto sarebbe meglio, no? Sempre meglio di questi porci, di questa porcheria. O no? ». « Non lo so » dissi. « Ma se c'è... » disse. «Può essere che non c'è, che tutto questo non si può rompere... Ma se si rompe... se qualche cosa succede... allora questo basta, allora é finito, no? ». «Perché? » dissi. Ma non capisci... ». « No » dissi. La sentivo inghiottire, nel buio. «Mi vuoi bene?» disse. Il tempo non passava mai. « Accendi il lume » disse. « Mi devo vestire ». Stette a vestirsi tremando, perché faceva freddo e umido. Si rimise 98 FRANCO LUCENTINI l'abito grigio, le scarpe. Andò dietro la tenda a truccarsi. Riuscì fuori e accese il fornello. Vuoi che ti preparo qualche cosa, un po' di caffè? » disse. « No » dissi, « non importa lo prendo fuori ». Scaldò una tazza di latte per sé, ne bevve meta. « Andiamo » disse. « Ti accompagno ». In mezzo alla cantina si fermò, prese di tasca qualche cosa. « Le chiavi » disse. « Non me le vuoi tenere? ». Non le risposi. Guardavo il muro, di sbieco. Dovevo averci una faccia astiosa, invelenita per la noia e il sonno. Senza più guardarmi si avvicinò alla porta del sotterraneo, fece per buttare le chiavi la in fondo. « Aspetta! » strillai. « E io come esco? ». Rimase ferma, col braccio piegato. Lentamente, con una smorfia avvilita, arrossi. Fino al collo e ai capelli. « Che stupida! » disse. « Dio, che stupida. Come non ci pensavo! ». « Ce le puoi buttare dopo » dissi imbarazzato, mentre salivamo le scale. Ma non sarebbe stato lo stesso, come se ce le avesse buttate davanti a me. Anche l'ultima scena, una scena innocente, le era andata male. Ci aveva fatto un'altra figura da stupida, per giunta, davanti a me. Se la pieta che ci avevo per lei fosse stata un po' più grande, appena, di quella che ci avevo per me, allora qualche cosa, forse, si sarebbe potuta davvero rompere... Io l'avrei potuta spaccare, per lei e per me. Ma per un'altra pieta non c'era posto. Ci fu solo un momento, all'ultimo, mentre stava per richiudere la porta. Pensai a tutto il tempo di paura che l'aspettava, fino a quando sarebbe scesa per la scala di legno, per riprendere la chiave... E poi a quando sarebbe risalita, a quando si sarebbe ritrovata un'altra volta nella luce grigia di sopra, come adesso mi trovavo io... Volevo prenderla per la mano, dire, ma non mi mossi. Davanti alla porta richiusa, restai a sentire i passi . che scendevano. Tornai al Caffè Notturno. Ma anche gli altri caffè, ormai, stavano aprendo. « Mi fa un caffè doppio » dissi. a Corretto? ».. LA PORTA 99 « Si » dissi. « Mistrá ». C'era un tizio, all'altro capo del banco, che mi guardava. Mi venne vicino, mettendosi tra me e la porta. «A te non ti avevamo detto di sgombrare?» disse. Ci avevo talmente sonno che non capii subito. « A me? » dissi. « Ma tu chi sei, che vai cercando? ». « Andiamo » disse, prendendomi per un braccio. Al barista disse: «A questo, il caffè glie lo diamo noi! ». In Questura mi fecero aspettare tutta la mattina, poi mi fecero passare da un vice-commissario. «Quanto tempo è che sei tornato?» disse. «Perché? » dissi. « Non mi fare perdere tempo » disse. « Ti abbiamo rimpatriato due mesi fa, ti abbiamo diffidato a tornare. Allora? ». « Ma io la famiglia ce l'ho qui » dissi. «E la residenza pure ce l'hai qui? ». « Ho fatto domanda » dissi. « Beh » disse, « se non ci hai altro da dire, adesso ti prendi un mese e poi ti rimpatriamo un'altra volta. Dopo, se ci vuoi provare a tornare, sempre a disposizione ». Si voltò al poliziotto che m'aveva accompagnato. « Questo resta a disposizione per gli accertamenti » disse. Gli accertamenti cominciarono il pomeriggio; li faceva un com- missario-capo. « Tu lo sai che stanotte hanno ammazzato uno? » disse. M'ero immaginato una cosa del genere; se no, non ci avrebbero sprecato un commissario-capo. « Tutte le notti ammazzano qualcuno » dissi. « Stai attento a come rispondi » disse. « Dunque, di quello di sta- notte tu ne dovresti sapere qualche cosa, lo dovresti almeno conoscere, perché era un pederasta conosciuto ». «Perché? » dissi. «Adesso sto pure sulla lista dei pederasti? ». «Sulla lista delle persone per bene...» disse alzandosi dalla sedia e allungadomi due schiaffi, « certo che non ci stai », disse rimettendosi a sedere. too FRANCO LUCENTINI Doveva essere uno scherzo in voga, perché me l'avevano già fatto altre due volte. Dopo volle sapere che cosa avevo fatto io quella notte, e natural- mente ci ebbi delle altre difficoltà. Alla fine, sebbene m'era riuscito di inventare una storia verosimile, ci avevo la faccia gonfia. « Tu, o ne sai qualche cosa di questo » disse in conclusione, prima di telefonare all'ufficio accettazione del carcere, « o ne sai qualche cosa di qualche cos'altro ». Questo significava che sarei rimasto dentro fino a che lui non trovava chi aveva maltrattato il pederasta. Almeno. Nel carrettone eravamo cinque. « Voi, non dite una parola » dissero i poliziotti. Ci fecero scendere al solito posto. Il capo-scorta suonò, una guardia apri il portone, il cancello. « Cinque e tre agenti » disse il capo-scorta. All'ufficio accettazione ci levarono le catenelle, all'ufficio deposito ci levarono il resto. « Ma le sigarette non si possono tenere? » dissi. « Si sono sempre potute tenere! ». « Ah, se te le vuoi tenere...» disse. Nella cella di perquisizione ci riprovarono, riuscii a salvarne la metà. Un altro paio le volle quello che mi accompagnò al Braccio, prima di lasciarmi al piede della scala. « Viene uno! » disse. « Manda sempre » disse quello di sopra. «Che hai fatto? » disse quello di sopra quando arrivai. «Ho rubato» dissi. Quello doveva stare seduto sopra una sedia tutta la notte, e gli andava di discorrere, se gli capitava. Ma io ce n'avevo abbastanza delle domande. «Allora, perché t'hanno messo isolato? » disse. Sulla porta c'era scritto "isolato", infatti. « Non lo so » dissi. « Non mi va di discorrere. Ho sonno ». « Ah, come ti pare...» disse. Richiuse la porta. Dopo un po' riapri lo sportello, disse che non dovevo fumare. Disse che con quelli come me ci volevano le nerbate. La mattina appresso mi riportarono in Questura per gli accertamen- LA PORTA 101 ti, poi un'altra vota due giorni dopo, poi per una settimana di seguito, tutti i giorni. Alla fine si calmarono, cominciarono a cercare da un'altra parte. A me mi lasciarono in aspettativa, sempre « isolato». Dopo quattro mesi dovettero fare posto a un'infornata di politici, mi tolsero l'isolamento. « Dài una pulita » disse la guardia. « Fai bene la branda e metti la roba tua da una parte. Arrivano due. Sta attento che sono persone per bene, non sono delinquentoni come te. Sta attenta che te ne puoi pentire ». Arrivò un tizio distinto, bene in carne, con un giovanottello mezzo deficiente, dall'aria feroce. Quello distinto era pure molto gioviale. « Anche lei politico, naturalmente! » disse appena entrato, stendendomi la mano. « Ho rubato » dissi. Rimase sconcertato, con la mano per aria. «Ma... politicamente? » disse. « No » dissi. « Non credo. Ho rubato a una banca ». Quello si incazzò spaventosamente, mandò a chiamare il sotto-capo, disse che non s'era mai visto mettere i politici con i delinquenti comuni. Alla fine si dovette calmare, visto che non c'era altro posto. Accettò le scuse del sotto-capo. «Del resto» disse sorridendo il sotto-capo, « loro sono qui di passaggio! La loro posizione, spero, sarà presto chiarita! ». « Ah, lo credo bene » lo rassicurò quello, « lo credo bene! Come lei sa, Sua Maestà si interessa direttamente di noi! ». Il giovanottello non aveva detto una parola. Venne da me e guardò la roba che avevo sistemato sopra la mensola accanto alla finestra. « Tu sgombra la roba tua e mettila là » disse indicando la mensola vicino alla porta, dalla parte dei buglioli. « Sposta pure la branda, qui ci dobbiamo stare noi ». « Hai sentito quello che ha detto? » disse il sotto-capo. « Fai presto, che si devono sistemare le altre brande ». Per tutto il tempo che stettero a sistemarsi, il giovanottello seguitò a cercare un modo per farmi mandare in cella di punizione subito, 102 FRANCO LUCENTINI finché ci aveva ancora le guardie a portata di mano. Ma era troppo stupido anche per quello. Il giorno dopo però trovarono un pretesto. Fu quello distinto, a trovarlo. Chiamò la guardia di nascosto e gli fece vedere che tenevo in mano uno dei pioli per attaccare i panni. Disse che l'avevo staccato dal muro per tirarglielo. Io l'avevo staccato per romperci certo pane secco che m'era rimasto dei giorni prima. Alla punizione ci restai una decina di giorni e poi mi dovettero passare all'infermeria. Quando tornai al Braccio i due politici non c'erano piú; forse Sua Maestà s'era interessata. C'era uno per truffa e un altro per accertamenti. Quello per truffa ci aveva i parenti che gli portavano da mangiare e ci aveva pure parecchi soldi sul libretto. Quando veniva lo spesino, la mattina, ordinava una quantità di roba, ma non ci dette mai niente. Quell'altro mi faceva un mucchio di domande e dopo qualche giorno andò via. Credo che gli accertamenti non li dovevano fare a lui, ma che lui era venuto a farli a me. Io ci avevo ancora la febbre di quando era stato alla punizione, ma in infermeria non mi ci vollero più rimandare. Tutto il giorno stavo steso sulla branda e guardavo l'ombra dell'inferriata che camminava sulla parete di sinistra, poi verso le tre passava sulla porta e la sera piano piano, a destra, finiva. La sera, strillava qualcuno dalle finestre dell'altro Braccio: «Scassa, cancelliere », e tutti rispondevano. Poi suonava la campanella e nella cella s'accendeva la lampadina sopra la porta. Quello della truffa piegava bene i calzoni e si metteva a letto. La mattina veniva lo spesino che era ancora buio, apriva lo sportello. « Giovanotto » chiamava. Chiamava quell'altro; io, lo sapeva che non ci avevo niente sul libretto. « Giovanotto » diceva, « c'é la marmellata Cirio, la volete? ». Quello voleva la marmellata Cirio, la mozzarella, il vino, tutto quello che c'era da comprare. Poi si rimetteva a letto e dormiva fino alla sveglia. Io invece non mi potevo riaddormentare. Poi suonava la sveglia, gli scopini portavano l'acqua, vuotavano i buglioli. Dopo veniva il sotto-capo con la guardia che batteva i ferri. Una volta, quando vennero, io stavo ancora a letto. « Che é successo? » disse il sotto-capo. « Stai male? ». LA PORTA 103 «Sì» dissi. «Allora perché non hai chiesto visita? ». « Eh... eh... » dissi. « Uh... » urlai. « Uhà... uhà... » urlavo. Quelli mi guardavano incuriositi, perché io prima ero stato sempre calmo. « Adesso calmati » dissero. « Noi ripassiamo dopo ». Quando ripassarono m'ero calmato. ((Ti sei calmato? » dissero. « Sì » dissi. ((Ti serve qualche cosa? ». « No » dissi. « Grazie, non mi serve niente ». Quello della truffa mi offri un bicchiere di vino. « Grazie » dissi. « Non bevo ». Tutto quel giorno e il giorno appresso pensai a Adriana. Alla paura di sopra e a quella di sotto. All'idea che ci aveva avuto lei di andarsi a mettere là sotto. Alla porta che guardava lei e alla porta che guardavo io. Dalla porta che guardavo io adesso, ci entravano gli scopini, il sotto-capo, le guardie, il prete, il barbiere; quelli per truffa, per politica, per furto, per ammazzamento. Poi sarebbe cambiata, l'ombra dell'inferriata non ci sarebbe nemmeno passata più, la sera, e ci sarebbe entrata qualche vecchia, qualcuna meno vecchia, ma meno fessa no; qualche altro borghese, militare o prete; qualche amico e parente da farci qualche bella conversazione, tanto da riaggiustarsi i coglioni un momento; qualcuno che sarebbe entrato contento di trovare un amico, ma che poi non avrebbe saputo che dire, nemmeno lui. Alla fine, poi, non sarebbe entrato più nessuno. Ma io non ci avrei avuto la soddisfazione di vederlo. Dalla porta che guardava Adriana, già adesso nessuno ci entrava più. « Cara Adriana » scrissi, « ti scrivo a casa nel caso che fossi tornata. Se sei tornata credo che hai fatto male, credo che ci avevi avuta una buona idea, anche senza la paura, anche senza la speranza di qualcuno che doveva venire e di tutta quella faccenda della crepa, della cosa che si poteva rompere. Non mi pare che ci sia un'altra rottura possibile, oltre a quella dei... Pere) non sono più tanto sicuro. Credo che ci avevi 104 FRANCO LUCENTINI ragione quando dicevi del coraggio, che nessuno ce l'ha. Credo che tu ce l'hai avuto, e pure se sei tornata ce l'hai avuto lo stesso. Credo che se qualcuno si merita qualche cosa, sei tu. Adesso solo ho capito quello che volevi dire, col fatto del mostro. Ma se per te qualcuno verrà, non sarà perché avrai avuto paura. Sara. perché sei come io non t'ho saputo vedere in tempo, perché sei così calma e gentile, così leggera, così an- gelo. Oramai, per volerti bene da vicino é tardi. Tu, oramai, per me non ci puoi avere che pieta. Io non so che farò, ma non m'importa. Di averti incontrata a te, un momento, mi deve bastare ». Ci vollero altri tre mesi prima che trovassero quello che aveva sistemato il pederasta. Anzi, pare che non era nemmeno sicuro che era quello, ma a me in ogni modo pensarono di darmi il cambio, visto che c'ero stato quasi un anno. Mi dettero il foglio di via e mi misero sul treno. « Stai attento a non tornare » dissero. « Hai visto che succede a tornare. E puoi essere contento che t'é andata bene ». Scesi alla prima stazione e tornai a casa. « Stai zitta » dissi a mia madre. « Non ti fare sentire. Non si deve sapere che sto qui ». « Che hai fatto? » disse. «Sai niente di Adriana? » dissi. « No » disse. « Non s'è fatta più vedere. Tu che hai fatto? ». «Non é arrivata una lettera mia per Adriana? » dissi. « No » disse. « Ma perché ti cercano, che hai fatto? ». « Niente » dissi, « é per quella faccenda della residenza. Per adesso resto qui, ma bisogna stare attenti al portiere ». Restai a letto una settimana, per vedere di farmi passare la febbre. Ogni volta che suonavano il campanello saltavo. Non avevo paura che fossero i poliziotti, pensavo che poteva essere Adriana. Perché poi la cosa, adesso, non era più così spirituale come s'era messa al principio. Adesso me la sognavo, la notte, che ci stavo a letto. Il giorno ci ripensavo. Tutto il giorno e la notte, alla fine, ci stavo a pensare. Ma c'erano di mezzo quelle due porte chiuse. Poi, non sapevo nemmeno se lei stesse ancora là dentro. Poteva essere che se ne fosse andata, senza tornare .a casa. Poteva essere capitata qualche altra cosa. Non aspettai che la febbre mi fosse passata. Mi alzai una sera verso LA PORTA 105 le sei, andai in cucina a farmi la barba. Ci avevo le gambe deboli, ma la testa non mi faceva male, anzi mi sentivo leggero. « Che, mi dái una stirata ai calzoni? » dissi a mia madre. « Che, stai meglio? Esci? ». « Vado a fare due passi » dissi. Per la strada non ci avevo fretta, mi fermavo a guardare le vetrine. Al Pantheon mi misi a sedere sul muretto e guardavo i gatti, di sotto. Non faceva freddo. Mi sarebbe piaciuto di andare ancora un po' a spasso per le strade, aspettare ancora un po', ma oramai ci avevo impazienza. Entrai in un caffè e presi un cognac, poi andai difilato alla casa, entrai nel secondo cortile, davanti alla porta mi fermai senza sapere che fare. La porta era chiusa, come l'avevo lasciata l'anno prima; non c'era nessun segno per capire se Adriana era uscita o no. Tornai sulla strada e mi fermai sul portone a pensare, mi accesi una sigaretta. Dopo tornai e bussai forte con un pezzo di mattone, tre volte. Poi bussai ancora, ma più forte non potevo bussare, sarebbe venuta gente. Aspettai una mezz'ora, con l'orecchio alla porta, ma non si senti nessun rumore. Cercavo di ricordarmi la lunghezza della scala, della cantina, per capire se lei avrebbe potuto sentire o no. Poi ricominciai a bussare ogni tanto, più forte, approfittando del rumore di qualche camion, delle saracinesche che si chiudevano, nella strada. Prima che chiudessero il portone me ne andai. Tornai a casa e mi rimisi a letto. Due sere dopo stavo un'altra volta appoggiato al portone di quella casa. Pioveva. M'ero portato delle vecchie chiavi, del filo di ferro, per vedere se mi riusciva dì aprire, ma non s'era aperto. Avevo bussato ancora, ma nessuno aveva risposto. Poi ero andato girando un po' per le strade finché non aveva cominciato a piovere. Adesso stavo riparato sotto il portone e guardavo il selciato bagnato, la gente che passava con gli ombrelli. Di fronte al portone c'era una macelleria, si vedevano i manzi appesi, la segatura per terra, una che stava alla cassa e ogni tanto rispondeva al telefono. Più in lá c'era una latteria, usci una ragazza in grembiule, senza ombrello e corse rasente al muro fino alla macelleria. Aveva cominciato a piovere così forte che le gocce rimbalzavano dentro al portone; mi tirai più indietro. Attraverso l'acqua, il negozio di fronte non si vedeva quasi piú, la ragazza stava sulla porta 106 FRANCO LUCENTINI aspettando che la pioggia rallentasse. Poi traversò la strada di corsa, infilò a testa bassa il portone, si fermò di colpo. « Sei tu! » disse. Restai a guardarla nel buio del portone, senza potere parlare. Pareva dimagrita e ci aveva tutti i capelli bagnati, incollati alla faccia. « Sei tu » disse. « Come stai? Franco. Che... Come stai, tu? Franco? Eh... Bene. Io... Franco ». Portava un grembiule bianco legato sul davanti, macchiato, con una blusetta stinta. Teneva in mano un pacchetto involtato in carta di giornale. «Franco, Franco » diceva. « Franco ». Mi prese un braccio e lo stringeva forte, tirando la manica. Inghiottivo e non potevo parlare. Le carezzai la mano che teneva il pacchetto, fredda e bagnata, le aggiustai la manica del grembiule, che s'era appiccicata intorno al polso. Stesi la mano per carezzarle la faccia e lei si accostò di piú, mi strinse convulsa mentre le baciavo la bocca fredda, nel buio, con un tuono nelle orecchie sempre più vicino, che stava per scoppiare. Ma lentamente si staccò e si passò una mano sulle labbra. Poi le braccia le ricaddero lungo il corpo e rimase ferma, guardando il muro dietro a me. «Amore mio» dissi, ma la voce non suonò. «Adriana» dissi, e le presi una mano, ma lei la ritirò. « T'avevo mandato una lettera » dissi. « Una lettera dove ti dicevo che io, adesso... ti volevo bene, ma tu... Credevo che tu» dicevo, adesso invece non era più come... Era finito. Guardava sempre il muro, aggiustando la carta bagnata del pacchetto, che si rompeva. « Si » disse. « È finito ». « Ho freddo » disse. « Ero uscita un momento, così in grembiule... ». « Così» dissi, « adesso esci? Non stai più sempre lá sotto? ». « Ero andata a comprare qualche ovo » disse. « Quelle fresche sono meglio di quelle in polvere che ci ho giù ». « Io ero venuto l'altro ieri » dissi. « Ho bussato ma non hai sentito ». « Ma andiamo giù » dissi. « Non prendere freddo ». « È che giù... » disse. LA PORTA 107 Girava nelle mani il pacchetto delle uova, pareva imbarazzata. « È che giù ci ho gente » disse. « Non so... Se vuoi venire... ». Mi appoggiai al muro. « Chi ci hai? Uno? » dissi. « No » disse. « Sai, qualcuno, delle conoscenze. È venuto un ame- ricano... No, non per quello che pensi tu... Non lo faccio più, adesso. Ma poi ci ho una donna che fa la pulizia, mi lava un po' di roba, e c'è qualche altra persona, si sta un po' a parlare... ». « Per me » dissi, « anche se ci hai un americano... posso venire giù un momenta... Stiamo un po' a sedere... ». Si avviò per la scala della cantina, dove adesso ci avevano messo un lume. Io scesi dietro a lei. « Così la porta... » dissi. « Quello che doveva entrare...? ». « Ah..., ah, niente » disse. « Niente ». L'americano era un sergente inglese, la stava aspettando in fondo alla scala. « Allò » disse. « Giò » disse mia sorella, « questo si chiama Franco, é un amico ». «Amico» disse l'americano. Altri quattro o cinque stavano seduti al tavolo in fondo. Una donna stava lavorando al fornello, ci venne incontro e prese il pacchetto delle uova. « Questo é un amico » disse mia sorella a quelli che stavano in- torno al tavolo. « Piacere » dissi. « Ah, piacere! » dissi quando vidi che uno era un prete. « Tanto piacere! ». Gli altri erano una ragazza che era un tipo di mezzo tra una troia e un'impiegata, con un pettone; un sergente italiano; e un borghese ,d'una trentina d'anni, tutto vestito bene. « Don Aldo » disse la ragazza, « ci stava dicendo che la conver- sione degli atei é sempre un miracolo, perché non si può fare senza l'intervento della grazia ». « Ma allora » disse il sergente italiano, « ciò vuol dire che i miracoli si possono verificare pure oggigiorno! ». Ma certamente! Certissimamente! » disse Don Aldo. « Senza an- 108 FRANCO LUCENTINI dare tanto lontano, ci basti il miracolo quotidiano dell'Eucaristia! ». «Appunto» disse la ragazza. « E come dicevo pure io. Questo dovrebbe convincere pure le teste di legno ». « E dovrebbe convincere » disse sorridendo Don Aldo, « anche certe testoline bionde che mi so io... ». • « Certe testoline bionde ostinate...» continuò guardando mia sorella. « E ho detto tutto! ». « No, continui, Padre » disse il borghese vestito bene. « L'argomento mi interessa profondamente ». « Il dottor Micheli » disse Don Aldo rivolto a me, « é giornalista. E da buon giornalista vuole andare a fondo di ogni questione. E fa bene! Lo spirito del giornalismo é un po' come quello della religiosità, quando sia illuminato dalla 'fede ». Il discorso non pareva molto chiaro, ma sembrò che il dottor Mi-cheli lo apprezzasse e anche il sergente italiano annui con la testa. La ragazza col pettone s'era appoggiata coi gomiti sul tavolino per sentire meglio. Guardai Adriana, ma non pareva che ci trovasse niente di straordinario, anzi entrò pure lei nella conversazione. « Anche mio... il mio amico, qui, ha lavorato in un giornale » disse. «Ah, un collega! » disse il dottor Micheli, ma non pareva molto convinto. Però si alzò e mi dette la mano. « Permette? » disse. « Dottor Micheli ». « Piacere » dissi. Adriana » dissi, « io devo andare via, mi accompagni? ». «Non prenda freddo, signorina » disse il dottor Micheli. « Si metta almeno qualcosa sulle spalle ». «No, lo accompagno solo fino alla porta ». Vidi l'americano che ci veniva appresso; voleva trovare Adriana da sola, per la scala, quando sarebbe riscesa. Al principio della seconda rampa mi fermai, la presi per le braccia e la misi contro il muro, 'scrollandola. «Adriana» dissi. «Che é successo? Che t'è successo? Che hai fatto? Come l'hai potuto fare? ». « Ahi » disse. «Non mi fare male ». Guardandola adesso vidi come era dimagrita, come era ridotta, con gli occhi annebbiati e la pelle della faccia senza colore. I capelli pare- LA PORTA 109 vano grigi, la voce non si riconosceva più. La paura doveva essere cresciuta, lá sotto, mentre lei non se ne accorgeva. Doveva essere salita su da quel pozzo mentre lei credeva ancora di resisterci, di potersi difendere. Poi doveva averla presa all'improvviso e sbattuta, sfasciata del tutto. M'ero immaginato una cosa così fino dal principio. Ma non m'ero immaginato che lei al momento dello sfascio avrebbe chiamato il prete... Il prete e quegli altri... Adesso ci stava in mezzo. Lei, che per quanto avesse fatto e girato, in una merda simile non c'era stata mai. « Adriana », dissi carezzandola. « È stata la paura, no? E per la paura che stai crisi? Che ti sei ridotta a stare con quelli? ». « Perché? » disse. « Che ci hanno, quelli? ». « Non sono come gli altri? » disse. « Come gli altri? » dissi. « Come gli altri? Si. Si, ma...». « Tu ci hai di meglio? » disse. « Conosci qualcuno meglio, da mandarmelo qua? ». Volevo ancora rispondere, mi pareva che ci dovesse essere qualche cosa da rispondere, ma non c'era. C'era una cosa sola, forse ci avrei avuto ancora la faccia di dirla, ma lei lo disse prima. « Che, tu ti credi... » disse. « Tu ti credi di essere meglio, tu? ». Cominciai a risalire per andarmene. Poi mi fermai, dissi: « Non mi volere male » dissi. « Ti voglio bene. Adesso non ci ho la forza di dirti le altre case che ti volevo dire. Ci ho la febbre, mi sento male. Tornerò quando stare, meglio. Adesso ti volevo dire che io... si, hai ragione, non sono meglio, forse non sono meglio. Ma se ti ricordi come eri tu quando ti ho lasciata qui, quando aspettavi qualcuno da quella porta... Tu, allora, eri meglio. Aspettare che qualcuno entrasse di là sotto era da pazzi, forse era pure stupido, ma era sempre meglio di adesso, di come sei ridotta adesso... tu ». Ricominciai a salire e la lasciai in basso che rideva. Mano mano che saliva era una risata sempre più forte, quando fui in cima era un urlo che riempiva tutta la scala. Poi fini e sentii la porta che si richiuse. Per la strada faceva freddo, tutti i negozi erano chiusi. Camminai un pezzo per le strade intorno al Pantheon, poi mi pare che voltai per l'Argentina e andai verso il fiume. Poi tornai indietro e non so dove 110 FRANCO LUCENTINI andai, fino quasi alla mattina. Al primo caffè che trovai aperto entrai, chiesi un caffè doppio. Mi accorsi che era il Caffè Notturno quando vidi quello appoggiato al banco che si alzava e mi veniva incontro. « A questo, il caffè glie lo diamo noi » disse. Quella notte non pare che avessero ammazzato nessuno, perché al carcere non ci restai nemmeno due mesi. Dopo però mi dovettero mettere all'ospedale per un altro po' di tempo e ci ebbi maniera di mandare avanti la domanda per la residenza, con certi soldi che m'aveva trovato mia madre. Quando tornai da Adriana la cantina era piena di gente. Stavano seduti sulle casse svuotate o per terra, appoggiati al muro. Il prete e il dottor Micheli, con altri due, stavano al tavolino e pareva che ci avessero fatto una specie di ufficio. Mia sorella stava seduta pure lei sopra una cassa, con due americani. La strappai dalla cassa e andai dritto dal prete, tenendola per un braccio. « Che le avete fatto? » dissi. Agguantai il prete pel collo e li scrollavo tutti e due, lei e il prete. Il dottor Micheli s'alzò e se ne voleva andare. « Stai li » dissi. « T'ammazzo ». Le lasciai il braccio e la presi per una mano. « Che t'hanno fatto? » dissi. « Questo bagarozzo che ci ha fatto, qui sotto? La missione? La parrocchia? Tutti questi altri perché ce l'hanno chiamati? Per spartirsi meglio la roba? Per averci i testimoni a scarico? ». Guardai il letto che pareva mezzo sfasciato. «A te pure ti si sono spartita, eh? » dissi. «Tutti quanti o solo il comitato? E la roba tua se la sono spartita questi quattro, no? ». Mia sorella non disse niente. Guardava da una parte e 'cercava di liberare la mano. Il prete, quando vide che lei stava zitta, con uno strattone si liberò e si alzò in piedi. « Se lei crede di doverci rivolgere degli appunti per quel che riguarda la distribuzione » disse, « può esaminare il registro e parlare liberamente con tutti i nostri assistiti. La invito, in ogni modo, a valersi di modi più civili. Per ogni altra cosa, se é parente dell'Adriana, può rivolgersi qui al signor Commissario ». LA PORTA 111 Niente da dire, l'avevano messa in mezzo per bene. Il signor Commissario era uno di quegli altri tre. «A disposizione» disse. «Vice-commissario di polizia Borino. Lei non mi sembra una faccia nuova ». « Se é per la questione della residenza » dissi, « non vi credete di mettermi paura. Sulla lista di quelli da rimpatriare non ci sto più». « Sulla lista delle persone per bene » disse alzandosi e allungandomi due schiaffi, « ancora "non ci stai ». Adriana approfittò dello scatto che feci e tirò via la mano, corse dall'altra parte della cantina. Altri due mi tennero per le spalle e il dottor Micheli, che s'era alzato un'altra volta per scappare, si rimise a sedere. « Questo resta a disposizione per gli accertamenti » disse il commissario a quelli che mi tenevano. Disse il prete: «Sia indulgente, sa, signor Commissario. Se é per quello che ha fatto a me, che per poco mi strozzava, e credo che l'intenzione di strozzarmi veramente ci fosse, gli perdono di cuore. Quanti mai, sapesse, anche tra i più sciagurati, come questo, avrebbero diritto più alla nostra compassione che alla nostra giustizia! ». « Ma in questo modo » disse il dottor Micheli, « lei, Padre, viene a giustificare i delinquenti! ». « Ah, no certo, caro dottore » disse il prete. «In questo modo, io vorrei ricordare che la carità si deve esercitare anche con i discoli! La stessa Chiesa, del resto... Ma non vorrei tediarla con argomentazioni filosofiche! ». « No, continui Padre » disse il dottor Micheli. « L'argomento mi interessa profondamente ». Venne davanti al tavolo il sergente italiano e salute,. « Sono le sette » disse. « Faccio distribuire il latte? ». « Si, ma mi raccomando » disse il prete, « il massimo ordine, ché non abbiano a ripetersi incidenti ». «Non é un affare da nulla» continuò sorridendo rivolto al corn missario, «tenere a bada tutti questi figlioli! Ma sono tutti buoni figlioli, mi creda, anche i più discoli, in fondo in fondo. E poi c'è anche delle gran brave persone, sa ». 112 FRANCO LUCENTINI « Ah, si » disse quello, intenerito. « Tu » disse a me, « adesso vatti a mettere in fila per il latte. Poi ci avremo tempo di discorrere ». « Sergente », chiamò, «dài un gavettino pure a questo ». Il sergente mi mise in mano una scatoletta di carne vuota, con una galletta. « Stai qui in fila » disse. « Allineàti! » disse. « Anche le donne! » disse alla ragazza col pettone, che oramai stava pure lei coi proletari e cercava di passare avanti come se ci avesse avuto ancora qualche diritto. Un'altra, che era . incinta, stava da una parte. « Lei torni pure a sedersi, signora Bertozzi » disse il sergente. « Le farò portare là la sua razione ». Intanto quelli che stavano al tavolo s'erano fatti apparecchiare e aspettavano che la donna al fornello avesse finito di cucinare per loro. Adriana non si vedeva. Mi voltai e la vidi due file dietro la mia, col suo grembiule macchiato e con una scatoletta vuota e la galletta in mano. Volevo andarle vicino, ma gli altri non mi fecero muovere finché iI sergente con un vecchio ché portava il bidone del latte non fu passato e il latte non fu distribuito a tutti. Era latte concentrato allungato con l'acqua e un po' di caffè. Lo passai, con la galletta, a un bassetto che mi stava vicino. « Tieni » dissi, « strozzati ». Corsi da Adriana, che s'era appoggiata alla porta della scala e stava inzuppando la galletta nel latte. « Vieni » dissi. « Facciamo presto. La porta di sopra era aperta, quando sono venuto. Non l'hanno mica richiusa? ». « Non vengo » disse. « Sai, qui o là é uguale... qui mi dànno da mangiare, da dormire... Non vengo ». « Ah, ti dànno da mangiare!» dissi. « Si » disse. « Certo che... Beh, loro lo sai come sono... Prima mangiavo a tavola, fino a poco tempo fa. Adesso mi devo mettere in fila pure io, per il latte. Ma tanto che gli fa, no? ». « Si» dissi. « Adesso però senti, amore, vieni un momento su. Vieni, tesoro, andiamo un momento da... Stai così magra, sbattuta... Ti LA PORTA 113 vorrei portare da un medico, uno che conosco... Ti vorrei fare vedere... ». « No » disse. « Non importa... Non m'importa... Non m'importa più di niente... Ci avevo sperato, sai?... Adesso é finito, tutto... Ci avevo sperato sul serio, tanto tempo, che di .là sotto... ». Restò con la galletta inzuppata che le sgocciolava sul grembiule, già pieno di macchie, a guardare fisso un punto dietro a me. Mi voltai e vidi che guardava la porta del pozzo, in mezzo alla parete di fronte. « Adriana » dissi, « amore mio, vieni via. Adesso non pensare più a... Non pensare a quello che avevi sperato. Non c'era niente da sperare, lo sapevi anche tu. Lo sapevamo già tutti che da quella porta non ci sarebbe entrato nessuno, mai ». Con la bocca aperta, bagnata di latte agli angoli, mi stette a guardare fisso, un minuto. « Ma tutti questi... » disse, « tutti questi... DA DOVE CREDI... TU... CHE SONO ENTRATI ? ». Da un angolo della bocca il latte le rotolò sul mento, cadde sul grembiule macchiato. FRANCO LUCENTINI
| | Trascrizione secondaria non visualizzabile dall'utente | |
|
|