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tipologia: Analitici; Id: 1465524


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Orazio Barbieri, La leggendaria liberazione di Firenze ad opera del popolo fiorentino
Responsabilità
Barbieri, Orazio+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - manuale o riveduta:
RINASCITA 457
Nel decimo anniversario della Resistenza
La leggendaria liberazione di Firenze
ad opera del popolo fiorentino
Invano i fiorentini che l'11 agosto celebreranno il decimo anniversario della liberazione della loro città, cercheranno sul calendario un segno che sottolinei quella data, e inutilmente i giovanissimi, che dai padri e dai fratelli maggiori hanno sentito narrare gli episodi di quell'evento, cercheranno a scuola nei libri di storia o di lettura un commento o un racconto sulla leggendaria liberazione di Firenze. Eppure quella fu e resta una bella pagina della nostra storia nazionale e della Resistenza europea; fu certamente uno dei più belli episodi vittoriosi di lotta armata popolare contro i tedeschi ed una delle più importanti esperienze politiche e militari di guerra partigiana.
Anche a Firenze dopo l'8 settembre si lavorava per mobilitare tutto il popolo nella lotta armata, secondo le direttive del P.C.I. Ma in quel tempo i dirigenti politici preparati erano pochi e la Federazione comunista fiorentina non aveva che scarsi e deboli legami con nuclei cittadini e delle campagne. Difficile appariva a molti di noi l'impresa di orientare larghe masse e mobilitarle nella lotta con così poche forze di partito, e ancor più deboli e male orientate erano le altre correnti politiche a Firenze e in Toscana. Ma un uomo, un comunista, seppe prendere le fila del debole tessuto politico e comprendere la forza delle masse operaie, contadine e intellettuali che volevano lottare contro i traditori fascisti e i nazisti, i quali avevano occupato in breve tempo la città. Era Giuseppe Rossi quell'uomo. Lo ricordo quando, da poco liberato dal carcere, giunse a Firenze e ci chiese di procurargli un lavoro di manovale per giustificare la sua presenza in città. Timido e taciturno, penetrava con lo sguardo intelligente gli uomini e con pronto intuito le situazioni. Egli seppe orientare noi comunisti, seppe, nel C.T.L.N., comprendere gli alleati politici, seppe proporre e fare accettare la linea politica giusta per lo sviluppo della lotta in Toscana nei momenti più difficili e decisivi, conquistando la stima dei vari Zoli, Piccioni, Ragghianti, Agnoletti, Dall'Oppio e Lombardi che componevano il Comitato di Liberazione. (Anche i compagni Renato Bitossi e Vittorio Bardini furono per un breve periodo a Firenze fra settembre e ottobre, ma poi dalla Direzione del P.C.I. ebbero serii incarichi in altre province).
Quando anche a Firenze fu lanciata la parola d'ordine della lotta armata, gli eserciti alleati non avevano ancora messo piede in Europa e l'eroico Esercito rosso, pur avendo iniziata la controffensiva, non era ancora giunto alle frontiere della Polonia.
Iniziare la lotta armata contro i tedeschi voleva dunque dire affrontare la lotta in pieno, sostenuti dalla crescente forza delle armate delle Nazioni Unite e dei popoli in rivolta, ma senza la prospettiva di una rapida liberazione per mezzo delle armate alleate. I fiorentini ne erano coscienti, - volevano combattere e contribuire alla propria liberazione. E quando il Partito comunista italiano lanciò l'appello, in occasione della dichiarazione di guerra da parte del nuovo governo Badoglio alla Germania, i comunisti fiorentini gettarono tutte le loro forze nella lotta armata. «L'Italia ha dichiarato guerra alla Germania.» — diceva l'appello — «Mai guerra fu più sacrosanta, più giusta e necessaria. Negandoci il diritto alla pace e alla libertà, il nazismo ha preteso imporci la guerra al suo servizio e per i suoi interessi» — e l'appello così proseguiva: — « :.. Dinanzi a noi non c'è che una sola via: impugnare le armi e batterci contro i nuovi vandali. Questa via il popolo italiano l'ha già scelta; da tempo i suoi figli migliori si raccolgono nelle città, nelle campagne, sui monti e si preparano alla guerra partigiana contro i tedeschi e i fascisti loro alleati B. « ... Noi ci schieriamo oggi a fianco delle Nazioni Unite e di tutti i popoli che contro il nazismo lottano per l'indipendenza, la democrazia e la libertà. Noi prendiamo il nostro posto di lotta sullo stesso fronte sul quale si batte l'Unione Sovietica, le cui eroiche bandiere sono il simbolo della giustizia e della libertà...».
Quell'appello fu raccolto prima dai militanti comunisti, poi da molti soldati nelle caserme, dagli operai delle Officine Galileo, della Pignone, dalle donne della Manifattura Tabacchi, dai tessili di Prato, dai vecchi e giovani vetrai di Empoli; da cui erano usciti i più coraggiosi combattenti antifascisti. E l'eco delle prime fucilate sui monti Morello, di Greve e di Secchieta risuonò per le campagne toscane, scosse e mosse alla collaborazione coi partigiani e alla lotta contro i tedeschi i mezzadri toscani e le donne della nostra campagna.
Ma quella larga mobilitazione di popolo e la costituzione delle gloriose brigate «Lanciotto», «Caiani», «Sinigaglia», che resero possibile la liberazione di Firenze ad opera dei fiorentini stessi, non fu facile. La via della vittoria passò attraverso dolorose e sanguinose esperienze. Il primo importante colpo dei G.A.P. fiorentini fu quello che portò all'uccisione del capitano Gobbi, comandante del Distretto militare di Firenze, che aveva messo in atto minacce e rappresaglie contro i giovani renitenti alla leva, dicembre del 1943, i G.A.P. fiorentini lo freddarono, grazie ad un piano magistralmente attuato. A questo giusto castigo, Manganiello e Carità risposero con il massacro di cinque antifascisti giä detenuti al carcere delle Murate. Secondo il metodo che sarà poi applicato in tutta la storia della Resistenza, i repubblichini fascisti fucilarono all'alba del 2 dicembre alle Cascine Luigi Pugi, Armando Gualtieri, Orlando Storai, Oreste Ristori, Gino Manetti. La città fu scossa in tutte le sue viscere: fu il primo assassinio in massa attuato a scopo di rappresaglia e d'intimidazione, ma il massacro anzichè sgomentare i patrioti suscitò nuovo sdegno e nuovi propositi di lotta. Il 15 gennaio i G.A.P. fiorentini organizzarono un altro colpo contro i fascisti: ben sette bombe furono fatte scoppiare contemporaneamente in punti diversi nei centri strategici del nemico, di cui una nell'interno della federazione fascista.
Anche lo sciopero politico-rivendicativo, proclamato ed attuato in tutta Italia del Nord per ottenere l'aumento dei salari e delle razioni alimentari e la fine della guerra, ebbe a Firenze e in Toscana una estensione imprevista, sostenuto come fu dalle azioni dei G.A.P. Il Comitato d'agitazione, diretto da Mario Fabiani, Alfredo Mazzoni e Leo Negro, aveva preparato lo sciopero in tutti i particolari attraverso un profondo lavoro fra i lavoratori della Galileo, della Pignone, dei Tabacchi, del Gas, dell'Arrigoni, della Ginori, della Superpìla, della Cipriani e Baccani, del Vallecchi a Empoli e a Prato. Le tabacchine gettarono manifestini in faccia al capo della Provincia Manganiello che era andato a tentare di dissuaderle. Quasi ovunque i lavoratori ottennero miglioramenti economici e promesse di cessazione della guerra. Incapaci di contenere l'odio popolare e lo sdegno dei giovani delle classi 1923-24-25, che si rifiutavano di rispondere al bando di Graziani, i fascisti operarono il 22 marzo il secondo massacro di giovani renitenti. Non si trattava di combattenti nè di rivoluzionari, ma di ignari giovani, semplici operai e contadini, che imploravano di aver graziata la vita. Nel freddo mattino del 22 marzo al Campo di Marte, fra lo spavento delle giovani reclute che i fascisti avevano obbligato ad assistere all'eccidio, i cinque giovani: Antonio Raddi di 20 anni, Guido Targetti di 21 anni, Alessandro Carona di 20 anni furono bersaglio prima dei moschetti, che le tremanti braccia dei soldati non riuscivano a sostenere, poi delle pistole dei fascisti, che li finirono mentre rotolavano in terra legati alle sedie.
Ma quei massacri non avevano altro potere che quello di accendere ed estendere ancor più la lotta. «... E' necessario che la protesta di tutta la cittadinanza si levi alta e potente perché gli assassini non ripetano altri massacri. Giovani fiorentini, nessun compromesso coi sanguinari fascisti» scriveva l'Azione Comunista il 24 marzo. E le azioni si moltiplicarono con maggiore audacia e con più esperienza. Il 15 aprile fu giustiziato
Giovanni Gentile, il filosofo che aveva avallato con la sua autorità le azioni, della repubblica di Salò. Il 29 aprile il console della milizia Ingarano fu freddato dai G.A.P. all'uscita dell'albergo mentre si dirigeva verso un'auto che l'attendeva: due gappisti portarono a compimento l'impresa uccidendo anche un maresciallo della milizia e il milite autista che tentava di opporsi, mentre cinque elementi di copertura provocarono lo scompiglio fra i fascisti che erano corsi in aiuto facendo scoppiare una bomba sotto l'auto.
Più vasta estensione aveva assunto la lotta partigiana sui monti dell'Appennino tosco-emiliano. Oramai non si trattava più di piccoli scontri e colpi di mano, ma di vere e cruente battaglie. Lanciotto Ballerini, Faliero Pucci, Alessandro Sinigaglia erano caduti combattendo nei primi scontri (anche Gino Menconi che aveva svolto un'intensa attività a Firenze cadde poi torturato dai fascisti nel Carrarino); col loro nome erano chiamate le brigate fiorentine che operavano in collaborazione con la Brigata Lavagnini, che agiva intorno a Siena. Dopo le prove di Vallibona e sulle colline di Greve, scendendo da Monte Giovi e da Gattaia, i partigiani della «Faliero Pucci» e della «C. Checcucci» con la collaborazione della popolazione il 6 giugno occuparono Vicchio di Mugello, isolando completamente il paese con un attacco di sorpresa. Cinque fascisti furono uccisi, dieci feriti e quattordici fatti prigionieri dopo un lungo combattimento. Poi vennero le azioni di Secchieta, sul Falterona, a Pomino (ove i tedeschi fecero strage di vecchi e bambini), l'attacco a Carmignano contro otto vagoni di tritolo che saltarono in aria insieme ai partigiani che avevano fatto il colpo, l'attacco alla Capannuccia, il combattimento di Pian d'Albero ove i tedeschi sorpresero, il 20 giugno, un centro di raccolta di partigiani privi di armi e in attesa di smistamento: ne uccisero diciassette nel corso del combattimento con nuclei della « Sinigaglia », che erano accorsi in aiuto, e ne impiccarono agli alberi diciotto tra quelli fatti prigionieri (fra cui il Cavicchi col figlio di quattordici anni). Poi il 29 giugno il combattimento di Cetica, sostenuto da 1.200 uomini delle brigate «Caiani», «Lanciotto» e «Sinigaglia», i quali catturarono 120 quintali di zucchero, armi e prigionieri. Il combattimento, che si svolse accanito per tutto il giorno con azioni frontali e di aggiramento, si concluse con cinque morti civili e con l'incendio del paese ad opera dei tedeschi, con poche perdite partigiane e con la morte di 65 tedeschi.
Ma gli episodi di lotta armata non si possono più contare: è tutto un fiorire d'iniziative partigiane, dei G.A.P. e delle S.A.P. che estendono la loro opera con cento e cento piccole azioni di disturbo in città, sostenute da sempre più larghe masse. Oramai tutto il popolo, tutti gli operai entravano nella lotta, incitati all'unità anche dalle proposte di Togliatti per un governo nazionale. L'Azione Comunista usciva più frequentemente, così l'Unità e il Combattente. Si facevano bollettini straordinari per dare notizie delle numerose azioni militari.
Sui grandi fronti di guerra le armate delle Nazioni Unite avanzano; l'Esercito rosso si avvicina alla Germania, gli alleati sbarcano a sud di Roma, il 4 giugno liberano la capitale e il 6 giugno aprono il secondo fronte sbarcando in Francia. Intanto nell'Italia settentrionale aumentava l'opposizione delle masse operaie contro la repubblica di Salò e le brigate partigiane intensificavano le azioni di disturbo contro i tedeschi. Alla preparazione e alla direzione della insurrezione parteciparono a Firenze anche i compagni Francesco Leone e Antonio Roasio (Silvati) (che con il compagno Giuseppe Rossi costituivano il triumvirato insurrezionale), insieme ai compagni fiorentini Mario Fabiani, Guido Mazzoni, Giulio Montelatici, Dino Saccenti e tanti altri.
Ora, pure alla distanza di dieci anni, il ricordo mi riporta agli ultimi giorni turbinosi dell'occupazione nazista e a quelli della liberazione della città. Nomi cari di compagni e di amici caduti, volti equivoci di fascisti rimasti in città per l'ultima bisogna, figure oscure di guastatori tedeschi, vie, piazze, giorni indimenticabili in ognuno dei quali c'è stato un dramma, un episodio di eroismo, un gesto di solidarietà, un atto di tradimento, si rianimano come cose presenti.
Il rombo dei cannoni degli alleati si udiva già in città. Le brigate partigiane che operavano sui monti circostanti erano scese nei dintorni più prossimi di Firenze con una rapida marcia di avvicinamento: la «Lanciotto» e la «Sinigaglia» dal Pratomagno e dal San Michele scesero alle pendici dell'Incontro a sud di Firenze, per attaccare alle spalle i tedeschi, mentre la «Caiani» e la «Fanciullacci» erano scese dal monte Morello e dal monte Giovi a Fiesole, a Settignano e a Cercina per prendere tra due fuochi i tedeschi in ritirata.
I colpi dei G.A.P. in città avevano causato serie perdite ai fascisti; Bernasconi, Nocentini, Manganello e Carità non si sentivano più sicuri perché i patrioti li attaccavano nelle loro stesse tane. Le squadre di azione si moltiplicavano per la partecipazione alla lotta di larghe masse di popolo: comunicazioni interrotte, sentinelle sui ponti dell'Arno colpite, automezzi distrutti o sequestrati, ingenti quantità di macchine e materiale delle fabbriche sottratto alla distruzione dei tedeschi. Gli operai della Galileo, della Pignone, e di tante altre fabbriche incrociavano le braccia e si preparavano ad assumere il controllo delle aziende.
I fascisti, incapaci di combattere a viso aperto, compivano intanto le ultime atrocità: Elio Chianesi ucciso barbaramente il 13 giugno; la famiglia Romo e la prof.ssa Cox barbaramente assassinati; ai primi di luglio Bruno Fanciullacci viene torturato e ucciso; il 17 luglio è compiuta la strage di piazza Tasso con l'uccisione di Aldo Arditi, Igino Bercilli, Umberto Peri, Corrado Fritelli e del piccolo Ivo Poli, di 7 anni, oltre a molti feriti.
La rabbia dei fascisti si sfogava sugli inermi, sui prigionieri. Ci si abbandonava ad ogni sorta di violenze e di saccheggi. Oramai la vita della città era paralizzata, i tedeschi sparavano sui passanti, impedivano il seppellimento dei morti. La battaglia si svolgeva in un clima arroventato.
Il 20 luglio l'Azione Comunista scriveva: «Popolo fiorentino, se non prendi le armi, se son insorgi per cacciare i tuoi carnefici, per difenderti, subirai la sorte toccata a tanti altri centri toscani. I tuoi bambini e le tue donne, i tuoi giovani e i tuoi uomini verranno deportati e uccisi, non ti illudere sul fatto che i tedeschi hanno detto essere, la tua, città aperta. E' una loro menzogna, una loro manovra. Non è aperta una città piena di truppe in completo assetto di guerra, di armi, di munizioni, di comandi, non è aperta una città attraverso la quale transitano colonne e colonne di militari; non è aperta una città esposta al saccheggio quotidiano, agli abusi di ogni genere, alle razzie continue, agli oltraggi più volgari.
Popolo fiorentino, non dare ascolto alle voci di pacificazione, di accordi, di tregue, che sono smentite di ora in ora dai fatti brutali che avvengono fra le tue mura, dal contegno dei soldati tedeschi, da quello provocatorio dei loro sicari in camicia nera che tentano di far nascere incidenti per sfogare la brama di sangue che li agita; chi tratta coi tedeschi, fa il giuoco loro e quello dei fascisti, li asseconda nella turpe manovra di addormentare la popolazione per portare a termine, indisturbati, i propri piani criminosi.
Le iene tedesche si avvicinano nella loro ritirata a Firenze, seminando ovunque distruzione e morte. Anche nella nostra città se ne scorgono i tristi annunci: pacifici cittadini presi in ostaggio per essere fucilati, fabbriche spogliate e devastate, negozi, magazzini e case saccheggiate, razzie di uomini in tutti i quartieri».
Nello stesso giorno il C.T.L.N. dopo una vivace discussione dovuta alla resistenza dei democristiani, lancia alla popolazione un manifesto nel quale fra l'altro è detto:
« Il Comitato toscano di Liberazione nazionale avverte la cittadinanza che un gruppo di individui fascisti e collaboratori tedeschi, tra i quali si notano il questore di P.S. Manna, il generale Somma, già comandante la divisione di camicie nere " 23 marzo ", e gli ufficiali dei carabinieri generale Carlino, generale De Leonardis e ten, col. Acconciagioco, falsamente dichiaratisi autorizzati dal C.T.L.N., hanno impartito istruzioni e preso disposizioni per la costituzione di una cosiddetta Guardia civica, alla quale vengono invitati a partecipare anche privati cittadini. Il Comitato toscano di Liberazione nazionale diffida gli agenti di pubblica sicurezza, i metropolitani e i carabinieri, nonché tutti i cittadini di Firenze ad ubbidire agli ordini di così indegni ufficiali e a corrispondere comunque ad una iniziativa che ha l'unico scopo di tentare il salvataggio all'ultima ora di fascisti repubblicani e di collaboratori del nemico. Avverte che chiunque si metterà al servizio di tali mestatori, sarà considerato un traditore e verrà, come tale, passato per le armi».
E' in questo clima di incubo e di terrore che il comando tedesco, con il consenso dei fascisti, emise il 29 luglio l'ordinanza che obbligava la cittadinanza ad abbandonare le proprie abitazioni sulla riva destra dell'Arno nel centro della città, entro le ore 12 del 30 luglio. Le ore crepuscolari del giorno 29 furono le più febbrili, le più angosciose: cittadini ignari e inermi correvano per ogni senso per cercare un parente, per mettere in salvo un oggetto (i tedeschi avevano ordinato di lasciare i mobili), famiglie intiere peregrinavano per trovare un luogo ove posare un materasso. Intanto gli uomini politici dirigenti il movimento patriottico prendevano gli ultimi accordi, stabilivano i contatti, davano le direttive sulla tattica da seguire per preparare l'attacco decisivo contro i tedeschi.
Il 3 agosto il comando germanico proclamava lo stato d'assedio e nessuno poteva più uscire dalla propria casa. Come era stato previsto e denunciato dal C.T.L.N., i tedeschi e i fascisti, nella notte fra il 3 e il 4, si ritirarono di qua dall'Arno e minarono i ponti di S. Niccolò, alle Grazie, S. Trinita, alla Carraia, della Vittoria e tutta la zona intorno al Ponte Vecchio, di qua e di là dal fiume. La notte si udirono i primi boati dello scoppio delle mine. La mattina alle 5, altre esplosioni scossero la città. I ponti e Por Santa Maria erano saltati in aria.
Di qua d'Arno si diffuse nella città un clima di squallore e di morte. Nessuno poteva uscire di casa, neanche per seppellire i morti. Fin quando sarebbe durata quella agonia? Ancora un giornale clandestino, diffuso attraverso staffette sanitarie e vigili urbani l'8 agosto chiama il popolo alla lotta:
Senza pane, senza fuoco, senza luce, senza medicine, senza acqua; fra il boato delle mine, il rombo dei mortai, il sibilo dei proiettili, che cosa ci può oramai più spaventare? Braccati per le strade, colpiti nelle abitazioni, mitragliati sulle porte di casa, di che cosa dobbiamo aver più paura? Quando l'attinger l'acqua, il ricevere viveri, il camminare, il respirare è divenuto un rischio, che cosa ci può più trattenere? Basta con questa esistenza di angoscia e di terrore! Basta col sopportare, con l'attendere, col terrore. Basta con la criminalità dei tedeschi! Basta con la mostruosità dei nazisti! «Non dimenticherò mai quei momenti. Per incarico del movimento della Resistenza mi portai in Palazzo Vecchio, che era chiuso e presidiato dai vigili urbani. Accompagnato dal comandante, sfondai la porta e salii sulla prima ghirlanda della Torre di Arnolfo.
Uno spettacolo desolante apparve ai miei occhi: forse fui il primo a vedere i nostri ponti sull'Arno crollati, accasciati nell'acqua! Tutta l'antica zona di Por Santa Maria e di via Guicciardini, un tempo brulicante di vita, era distrutta. Un lento fumo si levava dalle montagne di macerie. La città era silenziosa, come morta. I lungarni e Firenze avevano un altro profilo, un altro volto. Lontano, all'orizzonte verso Perentola e Sesto, si levavano nubi di polvere dalle auto in marcia.
Mi venne fatto di guardare la sottostante Piazza della Signoria, deserta, squallida. All'inizio di via Vacchereccia giaceva un cadavere, orribilmente gonfio. Due guastatori tedeschi scassinavano la saracinesca del negozio Sbisà. Mentre parlavo col comandante sulla situazione, un sibilo ed un colpo secco sfiorò la nostra testa; una pallottola di fucile colpì la soglia del merlo ove eravamo affacciati. Questo fatto richiamò la nostra attenzione verso l'altra sponda dell'Arno, ove vedevamo movimento di cittadini, bandiere italiane ed inglesi. Quella parte della città era stata liberata ed occupata dai partigiani e dai neozelandesi, i quali, non sapendo chi fossimo, avevano sparato contro di noi.
Sopraggiunse in quel momento un altro patriota del Partito d'Azione, col quale decidemmo di attraversare l'Arno dalla Galleria degli Uffizi. Penetrati nella prima parte della galleria, costatavamo i primi danni della esplosione delle mine. La galleria che attraversava il Salone dei Cinquecento e quella che attraversava il piazzale degli Uffizi erano devastate e le opere d'arte danneggiate. Penetrammo di qui nel corridoio sugli Archibusieri. Impiantiti sfondati, parchi pericolanti rendevano difficile • il nostro cammino. Solo aggrappandoci ai quadri e alle tubazioni che ciondolavano dalle pareti ci fu possibile procedere.
Dalle brecce aperte e dalle finestre ancora esistenti si vedevano molto prossime le macerie delle case crollate, si udiva lo scoppiettio dei mobili delle abitazioni che ancora bruciavano, si udivano i lamenti e le grida della gente rimasta sepolta, che bruciava o asfissiava, prigioniera nelle case che non avevano voluto lasciare. Era uno spettacolo che stringeva il cuore.
Giunti all'angolo del Ponte Vecchio, sempre sulla Galleria, vedevamo le distruzioni del Lungarno Acciaiuoli; attraversammo il Ponte Vecchio sempre fra il pericolo del crollo delle pareti e poi anche delle fucilate delle sentinelle tedesche. Ma giunti all'altezza di Borgo San Jacopo, ci fu impossibile proseguire, perché anche qui le mine poste in via Guicciardini avevano fatto saltare la galleria che congiungeva il ponte alla via Guicciardini. Dovevamo quindi affidarci ad una corda e calarci sull'ultima parte del Ponte Vecchio e di qui, fra le macerie (che poi risultarono tutte minate), penetrammo nella Chiesa di Santa Felicita, e poi entrammo in Boboli ove accampavano le truppe neozelandesi e i partigiani. Migliaia di profughi erano accampati sotto le logge di Palazzo Pitti. Sui feriti, sulla folla, che faceva coda per avere i viveri e per prender l'acqua, si posava il nostro sguardo. Almeno era gente che dava segno di vita, a i partigiani cantavano, snidavano i franchi tiratori. fascisti!
Dopo aver parlato coi membri della delegazione del C.T.L.N. e coi dirigenti del movimento partigiano, conferii coi comandanti alleati. Mi condussero nella Villa Torrigiani, ove portai le informazioni sui movimenti delle poche truppe tedesche che ancora martirizzavano la città. Gli ufficiali inglesi, ai quali chiedevo di far passare l'Arno anche a pochi soldati che avrebbero potuto, insieme coi partigiani e coi patrioti pronti al nord della città, cacciare i tedeschi, si rifiutarono di esporre i loro uomini.
- Alla Villa Torrigiani vidi Potente, nella sua camicia rossa e in pantaloni corti, comandante della divisione garibaldina « Arno », il quale trattava con noi e con gli ufficiali alleati l'approvvigionamento di farina e di viveri per i partigiani.
Gli alleati gli avevano detto — come avevano fatto con tutte le formazioni partigiane incontrate nella loro avanzata da Roma -- di smobilitare la sua divisione. Ma Potente, col suo tatto politico, oltreché militare, seppe, nei colloqui, convincere gli ufficiali alleati ed ottenne il riconoscimento della sua divisione e delle altre formazioni partigiane, quali unità militari inquadrate per continuare la lotta contro i fascisti e i tedeschi. Potente, inoltre, sottomise agli ufficiali alleati un piano particolareggiato di attacco per liberare Firenze coi suoi partigiani a fianco di unità militari canadesi.
La sera dell'8 agosto, Potente e Gracco tennero rapporto, nel chiostro di S. Spirito, ai comandanti delle compagnie partigiane che dovevano attaccare all'alba del 9: Tutta la divisione garibaldina era in linea. Quando calò la notte i partigiani riposarono intorno al chiostro in attesa dell'attacco. I proiettili dei mortai tedeschi continuavano a cadere distaccati l'uno dall'altro, ma in modo sconcertante nei centri abitati, nei giardini, nei cortili. I feriti - alcuni dei quali orribilmente mutilati — erano trasportati sui carretti ai luoghi di soccorso. Uno dei proiettili cadde nel cortile del chiostro, scoppiò e illuminò di sinistra luce l'ambiente. Potente era colpito! Sulla sua camicia rossa, sgorgavano flotti di sangue. Lo rialzarono i suoi compagni, il capitano inglese, anche egli ferito, volle che sull'autoambulanza fosse raccolto prima Potente. Il comandante dei partigiani fiorentini era caduto.
Il giorno dopo ripassai l'Arno attraverso la stessa galleria. In via Condotta sedeva in permanenza il C.T.L.N. di cui erano membri: Enriques Agnoletti del P.d'A., Aldobrando Medici Tornaquinci liberale, l'avv. Mario Martini democristiano, Foscolo Lombardi e Dall'Oppio socialisti, Giuseppe Rossi e Giulio Montelatici comunisti. A tutti feci una relazione sulla situazione.
Anche Luigi Gaiani, che comandava i G.A.P. fiorentini, informò il C.T.L.N. sulle ultime azioni armate.
La mattina dell'11 il C.T.L.N. fece suonare la Martinella del Bargello per dare il segnale dell'attacco generale. Le squadre d'azione uscirono nelle vie, della zona ancora occupata dai tedeschi, i partigiani di Potente passarono l'Arno in forze. Era l'ora di riscattare tutti i delitti del fascismo che per venti anni aveva tolto la libertà, sfruttato il popolo, venduto il Paese allo straniero! I partigiani della divisione «potente » (così ora si chiamava in onore del comandante caduto) e le brigate «Matteotti» e «Giustizia e libertà» respinsero i tedeschi oltre il Mugnone e tennero la linea del fronte per molti giorni, finchè il comandante alleato li costrinse al disarmo.
Sono queste le gesta dei partigiani di Firenze che suscitarono l'ammirazione di tutta l'Italia e il riconoscimento dei ministro della Guerra Alessandro Casati il quale, in un suo messaggio ai partigiani fiorentini, dichiarava fra l'altro: «Oggi mentre già risplende nei cieli d'Italia la luce della vittoria, i fratelli dell'esercito sono vicini a voi, uniti nella lotta risoluta, implacabile, che si concluderà con la liberazione. della Patria».
Sono queste le gesta che hanno dato a Firenze la medaglia d'oro, e sono stati questi stessi avvenimenti e la saggezza politica dei dirigenti del C.T.L.N. che hanno destato le preoccupazioni dei governatori americani e inglesi che non volevano Gaetano Pieraccini primo sindaco di Firenze libera.
Consapevoli della necessità di continuare la lotta i partigiani ed altri giovani si arruolarono nell'armata di Liberazione nelle cui file sulla linea gotica caddero ancora a centinaia.
Firenze celebra l'11 agosto il decimo anniversario della sua liberazione con questi ricordi ed il sesto anniversario della morte di Giuseppe Rossi con la maturità che viene da una grande esperienza sofferta, con la coscienza dei nuovi pericoli che minacciano l'indipendenza nazionale e la pace a causa del tradimento di alcuni degli alleati di allora, e col fermo proposito di difendere sempre quei beni supremi.
ORAZIO BARBIERI
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 30985+++
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Testata/Serie/Edizione Rinascita | mensile ('44/'62) | ed. unica
Riferimento ISBD Rinascita : rassegna di politica e cultura italiana [rivista, 1944-1991]+++
Data pubblicazione Anno: 1954 Mese: 7
Numero 7
Titolo KBD-Periodici: Rinascita - Mensile ('44/'62) 1954 - numero 7 - luglio


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