Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: M FATL di Tino Ranieri il documentario difficile La speculazione dei produttori e degli esercenti e le carenze legislative rendono difficile il contatto del grosso pubblico con la più qualificata produzione do-cumentaristica. L'importanza dei festival e le gravi responsabilità della critica Il nostro è il paese delle cose che si trascurano, si vanificano, si ignorano. Non sempre tante negatività allignano sullo stesso terreno, ma quando questo terreno è il cinema nazionale —così ricco di mobilità — è dato vedere cenerentola, il vascello fantasma e l'X algebrico convivere in piena armonia. Stiamo parlando dell'affare del documentario italiano. Il documentario esiste, malgrado le apparenze contrarie. Anzi ha compiuto da poco i settant'anni, poichè il primo « dal vero » (era il termine con cui si designava agli inizi il film documen-taristico) fu girato al palazzo reale di Monza nel 1896 ad opera del fotografo torinese Vittorio Calcina. Registrava alcuni momenti « privati » di re Umberto e della regina Margherita ed era stato commissionato dalla produzione francese Lumière. La circostanza del settantennio è passata sotto silenzio, pur in un clima che non è certo avaro di commemorazioni. Ma sarebbe il fatto meno grave se si desse almeno atto al documentario di vivere, e sopravvivere, oggi, e se ci si chiedesse più spesso tra quali difficoltà si esplichi questa sopravvivenza. Esiste. Come no. C'è una mostra del documentario a Venezia ogni estate. Vi sono serate specializzate, altre manifestazioni. Il Festival dei Popoli è in stragrande maggioranza festival di documentari. Come tutti gli anni, il mese scorso una giuria di critici ha assegnato il Nastro d'argento per la categoria (a Diario di bordo di Ansano Giannarelli e Piero Nelli). Centoventi premi annuali di qualità attendono di essere offerti dalle apposite commissioni di Stato ai saggi migliori. Il MIFED alla Fiera di Milano ha la sua brava sezione riservata al documentario. Padova ha la sua mostra del film scientifico, che è evidentemente documentario. Este ha il suo convegno sul film-inchiesta, che è evidentemente docu mentario. All'estero le rassegne di Cracovia e Bilbao, Mannheim e Tours aspettano i nostri documentari. Si ha dunque l'impressione di parlare di qualche cosa di concreto. Dov'è allora che la situazione si sfalda, sfuma, si imbroglia? Proprio dove dovrebbe invece consolidarsi: subito al di qua delle occasioni più o meno ufficiali, ossia 'quando il nostro documentario necessiterebbe di un suo mercato e di un preciso, diretto, costante rapporto col grande pubblico in pubblica sala. Agli spettatori — è vecchia storia — il documentario arriva malissimo: non selezionato, non sostenuto né dalla pubblicità né dalla critica, seguendo canali misteriosi dei quali la produzione e l'esercizio hanno tutto l'interesse a tacere il tracciato. Così giocato allo sbaraglio il documentario è divenuto per molta parte del pubblico un pleonasmo sgradito, il convenzionale furto di dodici minuti. Lo spettatore protesta e non si può affermare che abbia torto. Soltanto, molte volte ignora che un prodotto migliore, un modo migliore di trascorrere quei do- dici minuti avvicinandosi ad argomenti più importanti e meglio dibattuti ci sarebbe. In luogo dei documentari sdolcinatamente turistici o sfacciatamente pubblicitari che ci perseguitano (e che non di rado continuano a inseguirci, anche per anni, da un cinema all'altro) il frequentatore della pubblica sala non rifiuterebbe probabilmente di conoscere, citiamo a caso, A cuore fermo, Sicilia di Gianfranco Mingozzi (premiato a Venezia), La camorra o Resistenza a Roma o La patria di marmo di Giuseppe Ferrara, La buona stagione di Renzo Renzi, Labanta negro di Piero Nelli, la coraggiosa indagine di Piero Livi e Aldo Serio sul banditismo sardo Il cerchio del silenzio, il film di Luigi De Sanctis sullo scandalo di Agri- gento L'India è in Sicilia, il resoconto di Mario Carbone sull'alluvione in Toscana Firenze novembre '66, e tanti altri saggi di nostri valenti documentaristi, Alberto Caldana, Carlo Di Carlo, Giovanni Angella, Libero Bizzarri, Gigi Di Gianni, Vittorio Armentano, Michele Gandin, Valentino Orsini, Andrea A. Frezza, Virgilio Tosi... Questi film sono là nelle loro custodie quadrate di metallo. Aspettano e il pubblico li aspetta. Qual è il diaframma? Una situazione di crisi Come sempre in casi consimili la responsabilità risale a molti; come sempre, il fatto che risalga a molti non diluisce tale responsabilità. L'anno scorso la sezione documentaristi dell'A.N. A.C. ha pubblicato sull'argomento un Libro Bianco, che venendo praticamente a coincidere, o quasi, con l'entrata in vigore della nuova legge sul cinema ha destato un certo scalpore. In qúel-l'ampio rapporto sono ricostruiti i fatti che dal '45 in poi hanno mantenuto il documentario nazionale in uno stato di crisi permanente, ovvero i vari ordinamenti legislativi che, intesi teoricamente a creare « degli strumenti di infor- mazione del pubblico e di formazione di nuovi quadri artistici », hanno perpetuato invece l'equivoco del documentario ibrido, a metà tra l'iniziativa privata e l'iniziativa statale, rivolto soprattutto ad assicurarsi nel minor tempo possibile i contributi-premi stanziati dallo Stato e assegnati dai cosiddetti « comitati tecnici ». Tale prassi portò quasi subito, e marcatamente dopo il '49, quando le cose del cinema passarono in mano al ministro Andreotti, a una sfrenata corsa alla speculazione. Le case produttrici maggiori avevano stretto un accordo con distributori ed esercenti per l'abbinamento esclusivo 900 di Marzabotto. E' questo un esempio di documentario civilmente impegnato Carlo di Carlo: La menzogna dei documentari ai film di maggior incasso; al di fuori del « cartello » collocare un documentario era assolutamente illusorio, con la conseguenza che il piccolo produttore si vedeva obbligato a cedere il proprio film alle case del monopolio a prezzi irrisori. Uccisa così l'iniziativa indipendente, si puntava essenzialmente sulla quantità a scapito della qualità. Era l'epoca in cui il mercato veniva invaso da documentari squallidi e precipitosi, era l'epoca in cui i registi di stomaco forte giravano e montavano un cortometraggio in quarantott'ore; e conseguiva evidente da tali premesse che fossero. i galantuomini a fare anticamera o a vedersi respinti a margine: il giovane Maselli, il giovane Zurlini, il giovane Vancini. E' una politica siffatta che provoca in massima parte l'allontanamento del pubblico dal documentario. La legge del '56 pone qua e là riparo ad alcuni inconvenienti, frena gli eccessivi incassi e si oppone all'andamento monopolistico della produzione, donando maggior respiro agli indipendenti. Ma gli esercenti sabotano i prodotti e non li proiettano, contravvenendo alle disposizioni della programmazione obbligatoria, e le commissioni tecniche continuano a dare scarse garanzie d'imparzialità e di rappresentatività, esposte come sono a pressioni di parte e ad adescamenti ad opera dei produttori. D'altronde i pochi miglioramenti strappati a fatica sono cancellati dalla successiva legge del '59, che riporta il documentario al buio totale (per modo di dire, perché trionfano, privilegiatissimi, i cortometraggi in Color) favorendo la rinascita dei « cartelli ». Altri sei anni di disordine ed ecco infine l'auspicata « nuova legge » varata dal centrosinistra, che dovrebbe sbloccare una volta per tutte il carro impantanato. Essa presenta — sulla car ta — alcune innovazioni di buona volontà: la votazione comparativa dei film a cura delle commissioni, la pubblica proiezione delle opere concorrenti, l'assegnazione non obbligatoria dei 120 premi ecc., provvedimenti che dovrebbero volgere in definitiva a favore della qualità. Tutte belle cose. All'atto pratico comunque siamo ancora ben lontani dal toccare con mano gli eventuali benefici, giacché a distanza di quasi un anno e mezzo dall'andata in vigore della legge Corona tutto è fermo sul fronte dei cortometraggi. Lo segnala con qualche preoccupazione, nei suoi ultimi numeri, il Giornale dello Spet- tacolo: « L'ammissione ai benefici di legge dei documentari per il 1° trimestre del 1965 è tuttora bloccata. La Commissione, dopo aver visionato tutti i cortometraggi in concorso, deve ancora procedere alle determinazioni conclusive, anche per quanto concerne la graduatoria, ma non ha potuto riunirsi per impedimenti di vari membri residenti fuori Roma. Ne consegue... che non esiste attualmente sul mercato nazionale alcuna disponibilità di documentari validi ai fini della programmazione obbligatoria e dell'acquisizione degli abbuoni erariali, salvo i sei prodotti dall'Istituto Luce per conto di Enti pubblici... ». I limiti della nuova legge In poche righe il comunicato ci fa intendere che parecchie enormità non sono dunque affatto scomparse. Ed è chiaro che le more di legge tornano a tutto vantaggio dei profittatori di ieri, i quali si preparano — già si son preparati — a gabbare il santo per l'ennesima volta. Un esempio per tutti. Pareva che con la soppressione dei contributi erariali ai cinegiornali, questa fu- tre nesta categoria dovesse scomparire dalle pubbliche sale a vantaggio del documentario; già infatti s'erano verificate le prime chiusure nel settore. Senon-ché la nuova legge prevede la cumulabilità per l'esercente delle riduzioni fiscali sui cinegiornali d'attualità (2% ) con quelle sui documentari (3%). I grossi produttori si lanciano a coltivare nuovi cinegiornali — sempre più gonfi di pubblicità, com'è facile controllare — offrendo in più all'esercizio vecchi documentari già muniti della programmazione obbligatoria, i quali diventano in tal modo soltanto veicoli di speculazione per far godere agli esercenti le percentuali conglobate. Questa oggi l'umiliante funzione cui adempiono molti dei documentari che ci capita di vedere. O che magari non vediamo, perché facendo la cosa anche più sporca i proprietari del cinema, privi di controllo, omettono tranquillamente di proiettarli limitandosi à iscrivere il titolo del documentario in borderò. Tutte queste gravi carenze e licenze vanno portate dinanzi all'opinione pubblica. Il documentarista stesso — e non mancano nella specialità uomini integri e di coraggio — si è fatto negli ultimi tempi, se non più ottimista, più combattivo. Occorre aiutarlo. Dovrebbe dargli una mano la stampa cinematografica, tuttora troppo sorda davanti ai problemi del cortometraggio (manca del tutto, nei quotidiani italiani, una informazione critica al riguardo). Dovrebbe assicurargli la sua solidarietà lo spettatore, fischiando dove occorre, applaudendo se è il caso di applaudire, segnalando, denunziando ogni abuso che gli capiti di riscontrare. L'azione senza dubbio va estesa e l'importanza della questione reclama l'interesse di tutti noi. Solo così « il buono, il brutto, il cattivo » del documentario sarà finalmente sceverato e potremo riconoscere nel bene e nel male i responsabili.
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