Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: In un sottobosco musicale e letterario nascono ogni anno, storie di «mafia» e di briganti, di banditi e di eroi. Restano in secondo piano: spesso la loro risonanza è ristretta ai confini della regione: vengono accolti da un uditorio specializzato o — singolare destino — dal pubblico delle fiere, delle feste patronali. Un pubblico, quest'ultimo, spesso più attento ai risvolti musicali che non al valore ed al significato del testo, tanto è il condizionamento operato dai tradizionali mezzi di diffusione - (dischi, TV, radio, sale da ballo) -, per cui resta loro difficile accogliere forme e mezzi di espressione che non siano quelli più commerciali. Negli anni scorsi comunque, si è cantato di Chessman a Grazzano Visconti, la «cittadella dei cantastorie»: e Salvatore Carnevale, il sindacalista «da bruciare», ucciso dalla mafia, ha avuto la sua storia, scritta da Ignazio Buttitta e musicata da Ciccio Busacca: lo stesso Busacca ha cantato le gesta di Giuliano «re de li briganti» su versi di Turi Bella e sugli stessi versi hanno costruito la - loro storia Orazio Strano e Franco Li Causi. Adesso è uscito un libro di versi di Ignazio Buttitta, Lu ' trenu di li soli, contenente una Vera storia di Salvatore Giuliano che forse non verrà mai musicata. E Otello Profazio, l'autore di tante canzoni sulla mafia, l'ultima delle quali è intitolata I frati di Mazzarino, si appresta ad incidere una Storia del brigante Musolino che sarà edita dalla «Cetra» ed incisa su di un microsolco a 33 giri. L'industria discografica confina queste opere tra i prodotti «tollerati»; li pubblica come uno scotto da pagare al complesso dell'intera produzione. Non prima, tuttavia, che altri abbiano già battuto la stessa strada, in modo da attenuare ogni rischio. Così abbiamo visto entrare in circolazione le storie di Salvatore Giuliano dopo che il cinema, con Rosi, aveva assolto alla funzione di «testa di ponte», infrangendo quella resistenza che veniva opposta alla trattazione di un argomento così scottante. Ma c'è di più: nonostante il tono spregiudicato usato da Rosi, le storie cantate del bandito — pubblicate dopo — conservavano di Giuliano una immagine «ottocentesca», quella di un bravo figliolo che diventa bandito per l'ingiustizia patita. Cioè, come avverte Leonardo Sciascia in un Iucido saggio introduttivo al libro di Buttitta - la verità dei cantastorie è quella dell'antica affermazione e rivolta dell'individuo contro lo Stato; del diseredato contro il ricco; del docile che finalmente scatta contro il prepotente della vendetta sociale, insomma, che di volta in volta prende figura in Antonio Di Blasi detto Testalonga, nei fratelli La Mattina, in Francesco Paolo Varsalono, in Giuliano. II cantastorie — dice ancora Sciascia — deve obbedire «ad una precisa richiesta, non contrastare al sentimento della piazza, muoversi senza scarti nella leggenda, né, del resto, potrebbe». Buttitta, il quale aveva collaborato con Busaccca; accedendo alle necessità di quest'ultimo, ha ora allargato il proprio orizzonte per assurgere ad una poesia più vigorosa, di autentico realismo civi!e. Sono scomparse le coordinate lungo le quali si veniva delineando, sin'ora, la figura di Giuliano e il problema del banditismo siciliano. Sentite: «Ora nun semu cu l'occhi chiusi / sapemu Giuliano zoccu fu / ni ficiru di iddu tutti l`usi / ca ci sirvia ed ora non servi cchiù / Sti genti sunnu ancora a lu cumannu / Sicilia sinu a quannu?». In questo quadro, come si configura l'opera di Profazio e la nuova impresa che egli ha quasi portato a termine? Indubbiamente, Profazio non è poeta; e non è neppure il cantastorie nel senso che dicevamo prima. Ma le sue numerose canzoni sul Sud, sulla Calabria. (è calabrese puro sangue) e sulla mafia ci dicono che Profazio non rifugge dall'impegno civile. Si ascolti la canzone sui frati di Mazzarino, nella quale egli affronta il caso (ma la canzone è stata scritta dopo la prima sentenza) con ironia e, deformando i motivi addotti dagli imputati e quelli accolti dalla Corte, giunge fino al grottesco. Così, sulle prime, la sua potrebbe parere una giustificazione (come a noi apparve), mentre si tratta di una dilatazione, fino — appunto — ai limiti del grottesco di una realtà presunta. Dice la canzone: «E li frati furû assolti / la paura di li morti / fìgghi mei non è peccatu / s'hannu beni cumpurtatu / E li frati furû assolti / di li giudici e la corti». Fin qui sono i fatti, cioè il senso della sentenza di primo grado. Ma Profazio introduce la «sua» verità: «La giustizia nta 'sta terra / a li forti non fa guerra / e a li poveri sutterra / Sia pe' drittu ca pe stortu / fissa e poveri hannu tortu / Ca li ricchi — è 'na minditta! — / sempri cadunu a la dritta». Infne, la «morale» che non è quella di Profazio ma quella che si può dedurre dalla sentenza di Messina: «E perciò non fari beni / si non quandu ti conveni / Si ci sunnu cosi gravi / megghiu i mani mi ti lavi / La morali amici beddhi / è: sarvativi la peddhi!». Su Musolino — un personaggio che sembrerebbe ormai «esaurito» nella trattazione letteraria e cinencatografica — Profazio ha condotto studi «originali». Nel paese di origine del brigante, ha trovato testimoni oculari del suo dramma, alcuni versi di una canzone a Iui attribuita, l'aria di un motivo che egli usava canticchiare quando si trovava alla macchia. Profazio si è trovato di fronte ad un personaggio singolare: di lui, dice Profazio, non si può dire che abbia ucciso per protestare contro l'ordine costituito, contro la giustizia, la società. Quella di Profazio è quindi la ricostruzione non di un periodo storico, di una congiuntura sociale, ma di un personaggio, attraverso il fitto groviglio delle psicologie e del concetto dell'onore e della vendetta. Come nella tragedia greca, Musolino vede nel fato, nella «malasorte», ogni causa dei suoi mali. Musolino si ribella all'ingiustizia, ma la sua ribellione investe soltanto coloro che di questa ingiustizia egli ritiene diretti responsabili, cioè i compaesani i quali deponendo contro di Iui, lo fecero condannare. Uccidere un carabiniere, secondo il Musolino di Profazio, è motivo di spiacevole necessità. Profazio ha diviso la sua Storia del brigante Musolino in diversi episodi, cantandoli — anche qui a differenza dei cantastorie — su tre motivi diversi: la rissa che portò all'arresto del giovane, tradito da un cappello rimasto sul luogo; Ia condanna «a ventun'ossa» (ventun'anni), la fuga, la vendetta («Carogna, carogna», cantata sull'aria di una splendida ballata), gli amori con Violante, l'incontro col padre, la cattura da parte dei carabinieri. La storia si chiude con l'ultimo, rassegnato grido di protesta di Musolino: «A mia tutti mi chiamanu briganti / mi chiamanu briganti e assassinu / eppi a lottari cu la mala sorti». Con la Storia del brigante Musollno andrà dunque ad arricchirsi quel panorama di storia cantata che — con tutti i limiti rilevati — rappresenta pur sempre una testimonianza preziosa e una variante non trascurabile all'ormai uniforme produzione di musica leggera. | | Trascrizione secondaria non visualizzabile dall'utente | |
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