Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: RECENSIONI 741 RAYMOND WILLIAMS, Marxismo e letteratura, Bari, Laterza, 1979, pp. 288. Per Marx, ricorda Williams, « tutta la teoria `separata' è ideologia, mentre la teoria genuina — la `conoscenza reale positiva' — è l'articolazione della `coscienza pratica' » (p. 94). Questa opposizione, anche se stinta col tempo e spesso volontariamente cancellata dalla stessa tradizione del pensiero marxista, esercita su Williams un forte fascino. Fascino inquietante, perché Williams sa bene che tutta la sua riflessione non può non essere `separata', né d'altra parte è personaggio da ripiegare sul consolante ossimoro di una `pratica teorica'. Tutto il suo libro, che Laterza ha fatto bene a offrire al pubblico italiano in tempi brevi, vive in questa contraddizione: fare i conti con la tradizione senza la sicurezza di un'ottica che solo una diversa coscienza pratica collettiva potrebbe offrire. Cosí le riflessioni di Williams assumono il tono e le cadenze del discorso a se stesso, della discussione del proprio itinerario intellettuale, come egli dichiara nella vivace intro- duzione autobiografica. • Qui Williams ricorda i momenti essenziali di un percorso culturale, in cui giungono a saldarsi e a interrogarsi reciprocamente una preparazione letteraria professionale ed una per cosí dire privata consuetudine con la politica e in particolare con il marxismo. Non mancano naturalmente i nomi classici, da Lukács a Brecht, da Sartre a Goldmann e ad Althusser, fino al recupero, senza dubbio di grande importanza per Williams, di Gramsci, Adorno, Benjamin. Quel che caratterizza però Williams, e il suo stile di pensiero, è l'evoluzione del marxismo inglese dallozdanovismo ortodosso degli anni nei quali egli percorreva i primi passi del suo curriculum accademico, fino al New Left e all'acribia spregiudicata e insieme un po' nostalgica degli intellettuali separati da qualsiasi organizzazione di massa. Il libro, ho detto, può leggersi come un monologo teorico: le punte vi appaiono sempre smussate, i dissensi smorzati; sul rifiuto polemico e intransigente prevale la pacata considerazione che sa valorizzare ogni esperienza teorica esaminata, ne sa trarre un utile per il quadro complessivo della discussione. La `e' del titolo non segna perciò un momento di polemica (si ricordi l'identico titolo di Luperini del 1971), ma piuttosto il doppio registro della formazione dell'autore e la tensione teorica di sintesi che urge dietro la sua complessa esperienza di critico. Il libro è costruito in tre parti: la prima (« Concetti basilari ») sostanzialmente introduttiva, ricostruisce il percorso semantico di quattro categorie forti della riflessione teorica, dal loro primo affacciarsi nel lessico intellettuale della tradizione europea fino ad oggi. Ma non si tratta soltanto di un lessico ragionato. Di cultura, linguaggio, letteratura, ideologia si descrivono i laboriosi processi di accumulazione connotativa e di graduale trasformazione denotativa. Seguono due altre parti: « Teoria della cultura » e « Teoria della letteratura ». Anche queste sono articolate in capitoli dai titoli simili a voci di enciclopedia: Struttura e sovrastruttura, Determinazione, Generi, Forme etc. Tuttavia la suggestione enciclopedica s'arresta qui. La lettura infatti non fa mai dimenticare che l'autore non ha istinto di sistematore, ma piuttosto di indagatore insoddisfatto, di suscitatore di dubbi, di decostruttore di troppo immediate ovvietà. Dubbi, questioni, interrogativi che tutti si riconducono al nodo centrale cui ho accennato all'inizio: come è possibile un pensiero teorico che non sia completamente `separato' e quindi corporativo, irrimediabilmente conservatore, a dispetto di ogni camuffamento di novità? Questo dunque il quadro, non di un'estetica marxista, vecchia o apparentemente nuova, ma delle condizioni di pensabilità della produzione culturale, e di quella specifi- 742 RECENSIONI camente letteraria, all'interno di un progetto, marxista, di rinnovamento. A segnare con chiarezza questo interesse dominante stanno le acute notazioni di Williams sulla dialettica tra passato e presente, tra considerazione « scientifica » di qualche cosa che è già concluso e qualche cosa che è ancora aperto, in cui ci troviamo a vivere e ad operare. Questa dialettica può essere indagata sotto diversi aspetti: sociale vs individuale, oppure struttura vs sovrastruttura. Williams non accetta questa rigida contrapposizione che reifica processi storici estremamente fluidi. La polemica, pur smorzata almeno formalmente, colpisce sempre l'affollata tradizione del marxismo accademico e le sue desolanti sicurezze. A conclusione di una non sempre facile riflessione sul linguaggio, Williams, ampliando i termini del discorso, annota: « Allo stesso tempo, seguendo Volosinov, possiamo renderci conto di come — proprio allo stesso modo che il processo sociale altro non è che un'attività tra individui reali —l'individualità sia — in funzione dello stesso fatto squisitamente sociale del linguaggio (sia esso discorso `esteriore' o `interiore') — il fondamento attivo, tra esseri fisicamente distinti, della capacità sociale, il mezzo di realizzazione di ogni vita individuale. In questo senso preciso, la coscienza è essere sociale, è il possesso — tramite lo sviluppo di rapporti sociali attivi e specifici — di una precisa capacità sociale che è appunto il `sistema di segni' » (p. 55). Williams individua lucidamente nella socialità della coscienza individuale il superamento marxiano dell'opposizione di interiore-esteriore, soggettivo-oggettivo, superamento che si attua nella concretezza del processo storico e non nella proiezione metafisica dell"assoluto'. È quindi comprensibile che egli ritorni con insistenza su questo nodo: « Questa versione del marxismo », scrive ancora, « trascura in particolare il fatto che `pensare' e `immaginare' sono fin dall'inizio processi sociali (comprendendo naturalmente anche quella capacità di `interiorizzazione' che è parte necessaria di ogni processo sociale tra individui reali) e divengono accessibili solo in modo indiscutibilmente fisico e materiale » (p. 83). Qui si trovano le premesse per affrontare anche la pM generale questione del configurarsi sociale e della funzionalità assegnata alla produzione culturale, condizione necessaria, sia essa esplicitamente o implicitamente definita, di qualsiasi esercizio di critica letteraria. Williams non ha dubbi: « L'astrazione comune di `struttura' e `sovrastruttura', altro non è, dunque, che l'ostinato conservarsi proprio di quelle stesse forme di pensiero che egli [Marx] attaccava; e che a ciò egli abbia finito per dare un certo grado di sanzione — nel corso di altre argomentazioni, e date le difficoltà intrinseche a ogni formulazione di tal fatta —, è indubbiamente vero; ma è anche significativo il fatto che, ogni volta che Marx s'è impegnato in un'analisi approfondita, o ha individuato la necessità di siffatta analisi, abbia dimostrato al tempo stesso flessibilità e specificità nell'uso dei suoi stessi termini » (pp. 103-4). Si è citata per esteso questa pagina perché, al di là della sua importanza specifica per illuminare un importante passaggio dell'argomentazione di Williams, chiarisce bene lo stile intellettuale dell'autore, il suo genuino desiderio di indagine, mai paralizzato dall'osservanza sacerdotale ad un presupposto testo sacro. Marx è studiato, non soltanto citato. E la validità del suo pensiero è da Williams dimostrata e non presupposta. Cosí egli distingue con molta chiarezza tra determinazione e determinismo, indicandone non solo la diversità, ma l'appartenenza ad opposti stili di pensiero: « Fu cosí che, con amara ironia, una dottrina critica e rivoluzionaria, si mutò — non solo in pratica, ma anche a questo livello di principio — in quelle vere e proprie forme di RECENSIONI 743 acquiescenza e reificazione contro cui un senso alternativo di `determinazione' s'era proposto di operare » (p. 114). Perché? Perché, cosí facendo, si rimuove proprio il significato fondamentale della critica marxiana alla presunzione borghese di impermeabilità tra sociale e individuale, tra materiale e spirituale. Il senso del materialismo marxista non consiste per Williams nel rovesciamento del rapporto gerarchico di dipendenza, che conserva intatta la visione di una realtà rigidamente bipartita, ma al contrario nell'indicazione critica di come la realtà nella sua concretezza materiale sia profondamente unitaria, articolata, dialettica. Perciò Williams annota: « La subordinazione di tutte le attività umane (fatte salve alcune attività definite `personali' o `estetiche') alle modalità e alle norme delle istituzioni capitalistiche entrò sempre piú nella pratica. I marxisti, con l'insistere su quest'aspetto e con il denunciarlo, caddero in un'ambiguità pratica, poiché in realtà l'insistenza costante fini per diluire la protesta. Si sente spesso ripetere che l'insistenza fu `troppo materialista', un 'materialismo volgare', quando invece la verità è che non fu mai abbastanza materialista » (p. 122). Che Williams abbia ragione si potrebbe mostrare facilmente. La rigida contrapposizione di struttura e sovrastruttura non solo appare rassicurante nella ricostruzione storiografica, offrendo una ricetta sicura ad ogni indagine, ma è soprattutto consolatoria dell'immobilismo politico. Invocare l'inadeguatezza del quadro strutturale è stato, ed è ancora, uno dei piú sperimentati strumenti dell'acquiescenza opportunistica agli automatismi della società capitalistica. Williams, pur mantenendosi nel quadro della polemica culturale, non manca di segnalarlo: « Il concetto di `sovrastruttura' fu quindi un'accezione non tanto riduttiva, quanto elusiva » (p. 123). Assegnare ad una supposta sovrastruttura il mero ufficio di rispecchiare la struttura economico-sociale significa precludersi sia ogni possibilità di iniziativa di trasformazione, sia di intelligenza dei reali intrecci in cui i concreti problemi storiografici volta a volta si presentano. Merito di Williams è di illuminare quanto tenacemente tuttavia resista questa dottrina del rispecchiamento, pur dissimulandosi sotto il trasformarsi delle formulazioni discorsive, talvolta ariose e stimolanti, senza mutare però il proprio nocciolo teorico essenziale. Variante del rispecchiamento è per esempio la goldmanniana teoria dell'omologia. Ad essa Williams rivolge sostanzialmente due critiche. La prima, piú ovvia, è che nel delineare i grandi quadri omologici, lo storico finisce con l'applicare un selettore obbligato, sí da accogliere tutto quel che appare già pertinente al sistema, da rifiutare come irrilevante quel che non lo è: « solo l'evidenza culturale che s'attaglia all'omologia viene direttamente introdotta; altre evidenze vengono tralasciate, spesso con la motivazione che l'omologo è l'evidenza significativa » (p. 141). La seconda critica è però la piú acuta, quella di maggiore valenza teorica. Scrive Williams: « Sul piano teorico, il problema sta nel fatto che all"ordine sociale' — in questo caso, termine formale per processo sociale e storico — va attribuita una forma inizialmente strutturata e la forma piú spesso a portata di mano è 1"ideologia' o la `visione del mondo', che è già palesemente — se pure in modo astratto — strutturata » (p. 141). In altri termini, la realtà sociale viene letta alla luce di un sistema di valori che essa stessa ha prodotto come immagine di sé. La coerenza dell'omologia è quindi meramente formale, la sua ricostruzione esclusivamente descrittiva. Si disattende perciò la pur ostentata avvertenza di Marx che altro è quel che una società è, altro quel che fa credere di essere. La lezione di Goldmann non appare tuttavia inutile. Williams, come già ho detto, è maestro nel sostituire una scontata, e in fondo vana, polemica con una coerente, non 744 RECENSIONI eclettica, utilizzazione dei segmenti teorici analizzati. In questo caso la ricostruzione di sistemi di omologia diventa utile quando la si assuma nel quadro di riflessione teorica sull'egemonia. In ogni società v'è un sistema ideologico dominante, che tende a presentarsi come omologo alla struttura sociale; meglio: che pretende di essere l'unica lente che riveli decifrabile la complessità disordinata delle cose. Questo sistema non è tuttavia l'unico, ma la sua forza consiste nel saper condizionare a sé gli altri possibili sistemi ideologici. « Si potrebbe affermare a buon diritto », soggiunge Williams, « che tutte, o quasi tutte, le iniziative e i contributi — anche quando si situano su posizioni palesemente alternative o di opposizione — sono in pratica legati all'egemonico: la cultura dominante produce cioè, e limita al contempo, le sue stesse forme di contro-cultura» (p. 151). In che modo? Perché è questo il vero problema, non solo storiografico e perciò ricostruttivo, ma anche storico e quindi propositivo, di una pratica di rinnovamento. Secondo Williams, « i modi di dominio operano una selezione dell'intera gamma della pratica umana, e di conseguenza la escludono. Ciò che essi escludono può spesso apparire come di pertinenza dell'ambito personale o privato, o naturale, o metafisico; anzi, di norma, proprio uno di questi termini viene usato per definire l'area esclusa, poiché ciò che il dominante ha effettivamente in pugno è la definizione dominante del sociale » (p. 166). Quel che va individuato non è dunque l'astratta rappresentazione di un sistema ideologico omologo del quadro sociale, ma il concreto funzionamento di questo sistema, cioè i selettori che esso mette in opera per accettare o per rifiutare quel che è congruo o incongruo al quadro dei valori da conservare. Siamo qui però lontani dal simmetrico corrispondersi di due piani, struttura e sovrastruttura, l'una riconoscibile nell'altra secondo un sistema di riflessioni speculari. È invece chiara la specifica funzione dell'ideologia nella conservazione e nella riproduzione sociale. Come concretamente funzionano i meccanismi dell'ideologia, come quelli piú specifici e specializzati della letteratura? Questi problemi sono affrontati nella terza parte del libro (« Teoria della letteratura »), nella quale purtroppo si avverte un calo di tensione teorica, reso piú evidente dall'estrema parsimonia di esempi storiografici specifici. Williams stesso se ne scusa nell'introduzione. Ma il problema non è solo redazionale: ciò di cui si avverte il bisogno non è un accademico apparato di note, di rimandi eruditi, ma un campo di referenze per delle categorie che, in loro assenza, perdono di incisività teorica. Un esempio può essere la trattazione dei generi letterari. Qui l'approfondimento storiografico è tutt'uno con il chiarimento del loro statuto teorico, nonché della loro pertinenza sociale. II semplice riferimento alla `letteratura classica' non basta infatti a dar conto del problema e lascia irrisolta la questione categoriale. Dagli antichi la cultura feudale e postfeudale, secondo la definizione di Williams, non trae soltanto un sistema topografico e dei canoni, ma un'eredità ideologicamente assai piú rilevante: la concezione stessa di una tradizione patrimoniale della letteratura, che risale alla prima cultura ellenistica. È qui che al panorama articolato di diversi usi sociali della poesia, ciascuno vincolato ad un proprio statuto espressivo nelle forme e nei contenuti, si sostituisce un ventaglio di scelte soggettive tra modelli. L'osservanza al genere non è piú perciò l'adeguarsi ad un canone di occorrenze sociali specificamente stabilite, ma la combinazione tra la libertà di chi crea e i vincoli di diversi `alla maniera di...', per un pubblico omogeneo in sé e all'autore, capace di intendere gli scarti virtuosistici dal modello prefissato. Quanto sopravvive questa concezione del genere, a quali trasformazioni viene sottoposta? L'accenno che Williams fa al permanere della tragedia (p. 239) 1 RECENSIONI 745 sarebbe stato assai interessante da sviluppare. Ma sempre che si fosse ricondotta questa permanenza alle diverse domande sociali e alla significativa permanenza dell'istituzione teatro e dei suoi professionisti. Analogamente maggiore spessore storico andava riconosciuto alla nozione stessa di `letteratura', che proviene da tempo piú remoto del Rinascimento, nel quale si riadatta e si riadopera l'antica categoria di humanae litterae. Anche qui è probabile che sarebbe riuscita utile una piú stringente analisi della figura sociale del letterato, del suo periodico riaffacciarsi nella storia della cultura europea, ogni volta con una funzionalità anche di poco spostata, nel gioco intrecciato di tradizione e adattamento. Dove però l'incompiutezza del discorso desta maggiore rincrescimento è nella definizione del concetto di arte. Williams scrive: « Si può quindi piú facilmente individuare la funzione ideologica delle astrazioni specialistiche di `arte' ed `estetica': ciò che esse rappresentano, in modo astratto, è uno stadio particolare della divisione del lavoro. L"arte' è un tipo di produzione che va visto come separato dalla norma produttiva borghese dominante: la produzione di merci. Sul piano della fantasia, deve quindi essere separata da tutta la `produzione'; descritta dal nuovo termine `creazione'; distinta dai suoi processi materiali; e distinta infine anche da altri prodotti del suo stesso genere o di generi strettamente connessi (`arte' da `non arte', `letteratura' da `paraletteratura', o `letteratura popolare', `cultura' da `cultura di massa') » (p. 201). Se questo va tutto bene per la definizione di arte formulata nella seconda metà del secolo scorso e ancora vitale nella prima metà di questo secolo, ora è possibile che le cose stiano diversamente. Non è un caso che sia venuta meno la complementare figura sociale dell"artista'. Per parecchio tempo la definizione di artista sovrastò quella dello specifico campo di attività (scrittore, pittore, musicista); oggi sarebbe invece molto imbarazzante suggerire un'immagine coerente di artista. La produzione artistica appare assai meno separata dalla produzione tout-court. Che significa ciò? Viene il sospetto che sia ormai inattuale la dichiarazione di Williams: «Dobbiamo dunque rifiutare 1"estetico' inteso sia come una dimensione astratta separata, sia come una funzione astratta separata, e dobbiamo rifiutare 1"estetica' per quel tanto che poggia su tali astrazioni » (p. 204). Viene il sospetto che ciò appartenga già al senso comune. Che sempre meno si distingua tra letteratura vera e propria e letteratura commerciale. La figura ideologica dell'artista, contro cui Williams combatte e contro la quale ciascuno di noi sarebbe gratificato di poter combattere, per il piacere di aver ragione dei miti della propria infanzia, non esiste piú. Ma a eliminarla non sono state le affilate armi di una vigile critica, quanto il progredire stesso del sistema generale di mercificazione delle relazioni sociali. Come ci appare ormai remoto il laboratorio dei coniugi Curie, cos( si fa di giorno in giorno meno credibile il pittore, il musicista, il poeta, separati, anzi in conflitto con i grandi sistemi di selezione e di distribuzione dei `prodotti artistici', che precostituiscono l'attesa del libro, dello spettacolo, del- l'esposizione, come di qualsiasi altro prodotto commerciale, combinando i nuovi mezzi pubblicitari con la rifunzionalizzazione al mercato delle occasioni offerte dalla tradizione (recensioni, premi). Il problema sembra dunque essere: il grande editore, il grande mercante d'arte, l'imprenditore di spettacolo sono da considerare solo distributori o tendono ad inserirsi nel vero e proprio processo di `creazione'? La questione, sempre e non a caso elusa nella sostanza dagli specialisti di sociologia della letteratura, non è irrilevante neppure per il critico. Il superamento della figura dell'artista non ha infatti un solo sbocco. Da una parte c'è la strada larga e ben battuta della sostanziale autonomia del testo. 746 RECENSIONI Il testo può, anzi deve, venir considerato, analizzato, notomizzato in quanto tale, staccato cioè dalla figura del padre autore divenuta ormai irrimediabilmente opaca, ma disarticolato anche dal contesto della sua produzione. La critica testuale semiologica si pone quindi, e a ragione, come la piú fedele erede della critica testuale filologica, perché ne mutua l'assunto teorico fondamentale, essere cioè il testo, al di là di ogni accidentalità fenomenologica, una pura essenzialità trascendentale. Ma c'è un'altra via d'uscita per la critica dopo lo scacco della morte dell'artista: riportare l'opera non all'immagine enfatica di un creatore individuale, ma al complesso quadro istituzionale e ideologico della sua produzione e della sua fruizione. $ senza dubbio in questa direzione che si muove Williams, e per questo il terreno piú importante appare proprio quello delle mediazioni specifiche. Dietro i generi, le convenzioni, le forme, devono cioè riapparire le istituzioni culturali e le figure sociali, il contesto funzionale loro proprio, specifico per ciascuna società, nella quale è spesso arduo indagare il continuo ridisegnarsi del conglomerato di residui tradizionali e di nuove insorgenze di cui è fatta ogni opera letteraria. Perciò una mappa dei fenomeni storici che assegni preventivamente a diversi specialisti livelli separati d'indagine, raramente approda a qualche significativa novità storiografica. Williams cita la celebre lettera di Engels a Bloch sulla complessità degli avvenimenti storici: « Se cosí non fosse », conclude Engels « l'applicazione della teoria ad un periodo qualunque della storia risulterebbe piú facile della soluzione di una semplice equazione di primo grado » (p. 106). Bisogna riconoscere che di siffatte equazioni, logoranti esercizi scolastici, è costellata la storia di una critica che ha sempre amato proclamarsi marxista, ma che non è mai stata inquietata dall'urgenza di mutare la propria immagine scoprendo e conquistando il proprio passato e non soltanto proiettandovi sopra la lunga ombra malinconica della sua banalità quotidiana, con lo scambiare per universale quel che è soltanto ossessivamente ripetitivo. DIEGO LANZA
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