Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: RECENSIONI ROLAND BARTHES, La chambre claire. Note sur la photographie, Cahiers du Cinéma, Paris, Gallimard-Seuil, 1980, pp. 193. Non è possibile eseguire la lettura di questo ultimo volume di Barthes senza pensare continuamente alla morte dell'autore investito da una di quelle auto che egli considerava uno dei « miti d'oggi ». Questo libro infatti sembra esprimere un po' il presentimento di una morte imminente e, in un certo senso, aspettata e accettata. Dopo la morte della madre che egli aveva amorosamente assistito negli ultimi tempi e della quale si era sentito anche un po' padre « moi qui n'avais pas procréé, j'avais, dans sa maladie même, engendré ma mère » (p. 113), non aspettava altro che la sua morte: « je ne pouvais plus qu'attendre ma morte totale, indialectique » (p. 113). Tutto il libro è quindi pervaso da questo tema centrale: la morte; tuttavia il testo non è triste né funereo. Questo volume, d'altra parte, non si propone di essere un trattato o uno studio semiotico della fotografia. L'autore ha altre preoccupazioni. Il punto di vista è quello dello « spectator », del destinatario: la fotografia interessa in quanto fonte di emozioni. Essa, come oggetto concreto, può essere analizzata nella dimensione dello « studium ». La fotografia è cioè un oggetto osservabile con distacco, oggetto freddo, anatomicamente sezionabile con la precisione del laser, che presuppone la presenza di un « operator » fotografico, di uno « spectrum » o oggetto e di uno « spectator » o destinatario e che svolge la funzione sociale dell'informare, sorprendere, significare (cfr. reportage fotografico di avvenimenti o di situazioni). Ma la fotografia è anche fonte di « punctum », cioè qualcosa che colpisce e « qui part de la scène, comme une flèche, et vient me percer », infatti il latino « punctum » designa proprio « piqûre, petit trou, petite tache, petite coupure » (p. 49). Il « punctum » è determinato essenzialmente da due componenti: il dettaglio e il tempo. Spesso non è tanto il soggetto della fotografia, sostiene Barthes, che colpisce, quanto un suo dettaglio, e colpisce perché dato e sintesi memoriale di un mondo irrimediabilmente perduto (dimensione tempo). L'essenza della fotografia è la testimonianza dell'intimo, del vissuto, del « ça a été », anche se paradossalmente, come nel caso della foto di un condannato che attende l'esecuzione, essa è proiettata nel futuro: colpisce per quello che avverrà, per quello che sarà di 11 a poco. Il dettaglio quasi mai coincide con il soggetto intenzionale o « spectrum » della foto, quasi sempre è qualcosa di involontario, qualcosa che sta 11 per caso. Sarà il fondo stradale, una cintura, una collana, una mano appoggiata distrattamente su una gamba, uno stalliere che tiene fermo il cavallo su cui siede la regina Vittoria, un cappello, un lenzuolo, dei denti ecc. Ma la foto è anche appiattimento, anzi « avec la Photographie, nous entrons dans la Mort plate » (corsivo dell'autore, p. 145) e i fotografi inconsapevolmente non sono altro che « des agents de la Mort » (p. 144). Sarebbe interessante leggere tutto il 736 RECENSIONI volume secondo il bipolarismo dei campi semantici opposizionali Vita/Morte. Si noterà immediatamente che il campo semantico del secondo termine è piú esteso e quantitativamente prevalente (la foto è inanimata, cadavere vivente, anestesia, non dialettica, immobile, malinconica, impietosa, il « ça a été » ecc.). La seconda parte del libro è dominata dall'immagine della madre, di questo amore filiale, ma fortemente edipico che si innesca e si manifesta, quasi un'idolopea ossessiva, attraverso l'osservazione delle antiche foto della madre in un tumultuoso affollamento di fantasie e di ricordi: madre-bambina, madre-ragazza, madre-madre. L'autore attraverso questo compiacimento quasi narcisistico dei propri ricordi, si pone tuttavia a paradigma di emozioni fondamentalmente e profondamente umane. Questo compiacimento non dà fastidio, lascia scorgere spaccati della sua vita intima, ma non è per niente una confessione totale. Barthes utilizza con sobrietà tecniche e terminologie semiotiche facilmente accessibili anche ad un lettore medio; d'altronde egli non si considerava un « maestro » e non aveva, come tanti altri, « paternità » piú o meno celate da vendere. Il suo linguaggio pacato, da intima conversazione, non scientificamente arrogante, ma, anzi, tendente a « incrinare il sapere dissertativo », come aveva già avvertito in « S/Z », rende questo volume amabile, scorrevole, di piacevole lettura. Barthes non è forse anche l'autore de Le plaisir du texte? ALFONSO PAOLELLA ROSEMARIE ZIEGLER, Aleksej Krucënych als Sprachkritiker, in « Wiener Slavistisches Jahrrbuch », Wien, Böhlau, 1978, pp. 286-310; SERENA VITALE (a cura di), L'avanguardia russa, Milano, Mondadori, 1979, pp. cxvIII-345. Sino a qualche tempo addietro, bastava solo il nome di Krucënych, per provocare ilarità nei colleghi. Un'ilarità diffidente, a dire il vero, poiché l'interlocutore restava nel dubbio tu volessi giocargli una beffa, tanto gli pareva improbabile che qualcuno dedicasse il proprio tempo a questo farceur. E a nulla valeva assicurare, sconcertati dalla reazione — che in Unione Sovietica assumeva persino toni indignati —, che lo studio di Krucënych era necessario, per avere una immagine piú precisa dell'avanguardia futurista, nelle sue origini e nei suoi sviluppi. Nemmeno tale argomento, di un quadro storiografico che ricostruisca minuziosamente la trama degli eventi, argomento di solito accolto con grande rispetto nel nostro paese, neanche questo serviva a dare un briciolo di dignità all'opera di Krucënych. E ora bisognerebbe cominciare un capitolo su Krucënych ma ho paura: l'aristocrazia della stampa si metterà a strillare Peccato, bisognerebbe sapere chi era Kruënych! Già negli anni Trenta, quando apparvero questi versi, in un poema di Nikolaj N. Aseev dedicato a Majakovskij, era considerato sconveniente parlare di Kruèënych. Eppure, Kruèënych era stato un protagonista dell'avanguardia russa prerivolu-zionaria, eroe delle serate futuriste e bersaglio prediletto degli strali borghesi. Con i suoi modi sprezzanti, con le sue sequenze di suoni prive di senso, recitate fra ster- RECENSIONI 737 minati sbadigli, riusciva a mandare su tutte le furie ogni sorta di pubblico. Un numero sicuro, il suo, nel teatro futurista! La zaum', o lingua transmentale, ch'egli aveva escogitato, ebbe un grande successo di scandalo, come si sa: se ne occuparono subito brillanti conferenzieri, per dirsi turbati da quelle « mine vaganti sotto le patrie lettere », sussiegosi psichiatri, che raffrontavano la zaum' alle parafasie dei folli, autorevoli linguisti. Jan Baudouin de Courtenay, che alla zaum' dedicò due articoletti, scriveva sdegnato: « si vendicano sulla lingua degli orrori e delle mostruosità della vita! ». Un reazionarissimo giornalista moscovita mise addirittura in guardia gli sbadati borghesi, contro la zaum'. Chi attenta alla lingua, scriveva, attenta in realtà agli assetti sociali, che sulla comunicazione linguistica si fondano. E concludeva: « Krucënych è un nemico della patria. Non mi meraviglierei affatto se si scoprisse che è anche un socialista! ». Rozzo, ma efficace. Krucënych fu stimato da Majakovskij (che lo chiamava « gesuita della parola »). Aseev, Chlebnikov, Pasternak, ma soprattutto da Matju"sin, Malevic, Lisickij, Terent'ev, Tret'jakov. Malevic e Matjus"in lo ritennero piú intéressante di Majakovskij stesso. Kornej Cukovskij, brillante giornalista e protostorico del futurismo russo, scrisse che l'intera età prerivoluzionaria delle lettere russe si sarebbe potuta definire « età di Krucënych ». Ma ebbe anche violenti detrattori, capintesta dei quali fu il colto ed elegante poeta Benedikt Livgic, futurista per poco e per caso. L'oblio, dunque, venne dopo, negli anni Trenta. Fu Vladimir Markov, poeta émigré e studioso eminente del Novecento russo, a togliere Krucënych dall'ingiusta dimenticanza, facendone anzi l'eroe del suo Russian Futurism: A History, che apparve a Berkeley, nel 1968. Due anni prima, l'altro grande studioso dell'avanguardia russa, Nikolaj Chardziev, concludeva i festeggiamenti degli ottant'anni di Krucënych, al Dom pisatelej di Mosca, affermando che era ormai tempo di togliere Krucënych dal banco degli imputati, per dargli il posto che gli conveniva nella letteratura russa, e definendo i suoi testi dei « classici », addirittura. La cultura accademica l'ha dunque afferrato, con la sua lingua cartacea, e dopo averlo masticato ben bene, ce lo ridarà trasformato in mille noterelle, articoli, saggi, volumi. I primi già appaiono anche in Unione Sovietica. Ma Krucënych si è rivelato coriaceo e poco commestibile. Cosí, lo si prende in piccole quantità, di solito con cibi piú appettibili: per ora, almeno. Fra i lavori dedicati a Krucënych, apparsi negli ultimi anni, va segnalato l'articolo della studiosa viennese Rosemarie Ziegler. La Ziegler ha girato in lungo e in largo l'Unione Sovietica, rovistando archivi, raccogliendo testimonianze, ritrovando testi ritenuti persi ormai per sempre. Nessuno come lei oggi conosce cosí compiutamente l'opera di Krucënych. Dal suo lavoro, appare come Krucënych abbia testardamente perseguito, prima ancora che il futurismo russo s'annunciasse e per tutta la sua vita, l'ideale di una comunicazione immediata e spontanea. Egli riteneva ci fosse una lingua naturale e profonda, schiacciata dall'altra, quella sociale e convenzionale. Tale lingua, che egli chiamò zaum', si manifesterebbe nei momenti in cui la ragione dorme, o almeno sonnecchia: nelle varietà molteplici della verbigerazione, ma anche nei lapsus, negli scorsi linguistici. Attorno a questa scoperta, Krucënych lambiccò per tutta la vita. Per darle un fondamento lesse soprattutto Freud, che egli conosceva già bene nel 1915, al punto da consigliarlo agli amici, indicando anche i libri e le edizioni piú appropriati ai loro interessi. Siamo quindi ben lontani dalla immagine solita, di un Krucënych semincolto buffone. i 738 RECENSIONI Negli anni Sessanta, Kruèënych venne riscoperto anche da alcuni giovani scrittori sovietici, che ne fecero il loro portabandiera. Il piú significativo è il ciuvascio Gen-nadij Ajgi, poeta fra i maggiori di questi due ultimi decenni, ingiustamente ignorato da noi, in Italia (mentre, invece, in Francia sono apparse già due sue raccolte). Ajgi e gli altri allargarono presto il loro interesse a Malevic, agli oberiuty, in una parola a tutta l'avanguardia sommersa degli anni Dieci e Venti, all'avanguardia dileggiata e dimenticata, in evidente contrapposizione all'altra avanguardia quella lefista e costrut-tivista, che conosceva anch'essa una rinnovata fortuna, in quegli anni. Che l'avanguardia russa fosse tagliata orizzontalmente, cosicché i vari gruppi in cui si organizzò sono sovente combinazioni superficiali ed effimere, ne erano consapevoli anche i protagonisti. Recensendo gli spettacoli di Kruèënych e Majakovskij, che erano andati in scena ai primi di dicembre del 1913, al teatro Luna-Park di Pietroburgo, il pittore e musicista Michail Matju"sin assumeva i due testi come esemplari di due diverse tendenze del futurismo, l'una astratta e alogica, mentre l'altra, che Matju"sin riteneva assai meno interessante, puntava piuttosto a una revisione dei contenuti, salvando le forme della comunicazione artistica tradizionale. Ora, questa linea alogica, astratta e asociale, della quale l'operetta di Kruèënych, Matjusin e Maleviè Pobeda nad solncem è il testo piú rappresentativo, si coagulò soprattutto, attorno a Kruèënych, negli anni che precedettero la rivoluzione. Questi cercò invano di darle un assetto stabile e autonomo, prima con Kul'bin, poi con Larionov e la Goncarova, poi con Matjusin e Maleviè, poi con la Rozanova e Aljagrov (Jakobson), poi, nel Caucaso, con Zdaneviè e Terent'ev, e infine al suo ritorno a Mosca, con la scuola degli zaumniki. Ma anche negli altri raggruppamenti futuristi tale tendenza era largamente rappresentata, da Bol'"sakov, Gnedov, Ignat'ev, Rjurik, dal fantomatico Lotov. Dopo la rivoluzione la linea alogica e asociale rivisse soprattutto nei niëevoki, il fugace manipolo di dadaisti russi, e negli oberiuty, coi quali nulla ebbe a che fare Kruèënych, ma per i quali i suoi testi avevano avuto certamente una rilevante importanza. Gli oberiuty, un gruppo di prosatori e poeti che si costituí a Leningrado nella seconda metà degli anni Venti, erano legati a Malevic, a Tufanov, autore di un trattatello sulla zaum' e inventore assieme al pittore Boris Ender di una pasigrafia, a Matju"sin, a Terent'ev, l'estroso teorico del « 41° ». Terent'ev si rivela una figura chiave di questa linea. Egli infatti, a differenza di Kruèënych, preferí mantenere una certa distanza dal « Lef », per cui emigrò a Leningrado, divenendo un singolare regista teatrale. In questo ultimo decennio sono apparsi molti testi inediti degli oberiuty, sono state pubblicate le memorie e i lavori teorici di Matju"sin, i diari della Guro, lettere di Kruèënych, Matjusin, Maleviè, raccolte di Kruèënych (ma rimangono ancora inedite le sue memorie sul futurismo), gli scritti teorici di Maleviè, e svariati articoli, saggi, volumi, specie su Maleviè, che oggi conosce una grande fortuna. Cosicché l'avanguardia russa comincia ad apparire in una diversa luce. Serena Vitale cerca di dare una sistemazione, se pur provvisoria ed ipotetica, a questo materiale, con la sua antologia dedicata all'avanguardia russa, dove sono riportati i testi degli autori che ho sin qui menzionato, di Kruèënych in particolare, che nel volume fa un po' la parte del leone. L'antologia è preceduta da un lungo saggio, nelle prime pagine del quale l'autrice dà la chiave teorica del lavoro. L'avanguardia è negazione di convenzioni artistiche, di istituti comunicativi, di assetti sociali, dice. Tale criterio, che serve alla Vitale per discriminare la sua materia,
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