Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: ~j 1 488 RECENSIONI Quesnay, 1694-1774; p. 113 Baudeau, 1730-1792; p. 113 Savérien, 1720-1785; p. 125 Dupont de Nemours, 1739-1817; p. 142 Linguet, 1736-1794; p. 168 Gourcy, -1805; p. 194 d'Holbach, 1723-1789; p. 203 Butel-Dumont, 1725-1788; p. 241 Restif de la Bretonne, 1734-1808. Linguet fut guillotiné le 27 juin 1794. On lit chez Guerci que ce fut pour avoir « encensé les despotes ». Mais la citation est plus complète chez de Feller: « pour avoir encensé dans ses écrits les despotes de Vienne et de Londres ». Quant à Butel-Dumont, de Feller nous apprend qu'il a écrit des Recherches sur l'administration des terres chez les Romains (Paris 1779). Enfin, touchant d'Holbach et Helvétius, on se reportera aux deux études faites en 1896 par le marxiste G. Plekhanov (Oeuvres philosophiques, n, Moscou, s.d., pp. 12-57 et 58-111). Pour conclure, les nombreuses remarques que l'on vient de lire témoignent surtout de l'ampleur du sujet traité par Guerci, et du profit que le lecteur tire de cet ouvrage riche et important. BERTRAND HEMMERDINGER ITALO CALVINO, Se una notte d'inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979, pp. 267. La comparsa di questo libro di Italo Calvino, provocò numerosi interventi e recensioni, suscitando un interesse critico che, per quanto orchestrato da una sapiente regia pubblicitaria, rispecchia in pieno l'importanza del romanzo, diverso dai precedenti, mosso da una problematica autobiografica — lo scrittore narra le proprie impotenze di autore e lettore — attorno a cui si riconoscono le angustie di un difficile presente. È vero, già in passato Calvino aveva fatto della sua penna un personaggio: il calamo del terrestre fratello di Cosimo, cosi filologicamente scrupoloso e perciò messo in serie difficoltà dalle peripezie del barone, rampante fra intrecci di rami e pagine, foglie e scancellature, sgorbi, macchie, lacune scrittorie; lo stilo di Suor Teodora, mosso dalla mano della bella Bradamante e abbandonato senz'altro, assieme agli altri simboli claustrali, appena un racconto futuro, nella persona dell'amato Rambaldo, bussa al convento; il segno di Qfwfq, tracciato sulle pareti della Via Lattea; i fumetti immaginabili, descritti da un altro Qfwfq che narra storie di uccelli. E poi, secondo un preciso crescendo, i densi dialoghi fra Marco Polo e Kublai Kan, in cui si affronta la questione del rapporto fra il narratore e il lettore-ascoltatore e si giunge ad affermare che l'opera è colui che la legge, giacché la comunicazione è cosa impossibile. Ma proprio questa significazione impraticabile, l'afasia che già aveva colpito cavalieri e dame, giunti attraverso fitti boschi e profonde oscurità nei luoghi deputati alla conversazione, la corte del castello, il fumo della taverna, era parsa ad un certo punto aggirabile facendo ricorso ad una scrittura tutta automatica, che vivesse di un'esistenza propria. Come i tarocchi marsigliesi e rinascimentali, cosí le strutture che ritornano nelle varie « città invisibili » risultano frammenti essenziali di una realtà combinatoria dietro cui la figura dell'autore, a poco a poco, vorrebbe dileguarsi, cedendo il posto al lettore: « ogni lettore può scomporre e ricomporre seguendo il filo delle sue ragioni e dei suoi umori ». All'eclissi realistico-verista, discreta e schiva, Calvino preferisce il suicidio a scena aperta: l'affatturatore scompaia, ma sommerso dai suoi alambicchi. La natura mistificatrice della letteratura viene neutralizzata evidenziandone la meccanica; eppure l'utopico obiettivo della sua completa autonomia (prima di tutto dal proprio creatore) risulta alla fine alienante. RECENSIONI 489 Poi nell'ottobre del 1973 Calvino, concludendo la bella Nota posta nella ristampa del Castello dei destini incrociati, rivelava un episodio che era un programma: « Pensai di affiancare alla Taverna e al Castello, entro una cornice analoga, Il motel dei destini incrociati [...1 Non sono andato piú in là della formulazione dell'idea cosí come l'ho esposta ora. Il mio interesse teorico ed espressivo per questo tipo di esperimenti si è esaurito. E tempo (da ogni punto di vista) di passare ad altro » (p. 128). Segue una pausa difesa lucidamente, lunga e riservata; le rare interviste rifuggono dal creare il personaggio dello scrittore che tace perché altro i tempi non consentono né meritano. Nella primavera dell'anno scorso, infine, appare nelle librerie il nuovo romanzo. Dal '73 sono trascorsi ben sette anni di cambiamenti profondi, le coscienze, anche le piú pigre, hanno dovuto compiere revisioni, spesso dolorose. Uno spettro si aggira per l'Italia, il « riflusso », i piú audaci ne accentuano la carica istituzionalmente rivoluzionaria, altri (forse di minore agilità intellettuale?), guardano al passato con nostalgia, restii ad accettare lo status quo, si studiano, alla ricerca di privati cedimenti. La curiosità verso questo libro è grande, sia perché, nonostante i troppi titoli sfornati ogni anno, il romanzo italiano proprio non va, sia perché, si capisce subito, Calvino attribuisce ad esso molta importanza. Ma ad una prima lettura si è presi da una immediata diffidenza; abituati a riconoscere in lui un uomo impegnato fino in fondo nell'irrinunciabile rapporto fra costruzione narrativa e quadro sociale, vedersi proporre, quali elementi motori dell'intreccio, i motivi piú à la page dell'attuale critica letteraria — dalle Figures di Genette alle ultime sollecitazioni di Barthes — può essere deludente. La contemporanea pubblicazione del libro di Eco, per di piú, fa sospettare un nuovo colpo di Ermes Marana, ed è difficile condividere totalmente la posizione di quei recensori che vogliono rintracciare, ad ogni costo, in Se una notte d'inverno un viaggiatore, una metafora della realtà sociale, politica, culturale del nostro tempo, dominata dalla macchina della violenza, del potere, della frode, del plagio. Calvino, in un'intervista comparsa su « Tuttolibri », suggerisce: « Credo che nel Viaggiatore un personaggio autobiografico non ci sia e che le mie preferenze e antipatie possano saltar fuori solo incidentalmente. Un giorno o l'altro mi deciderò a scrivere un libro direttamente autobiografico, o almeno a raccogliere schegge di `vissuto'. In realtà il Lettore in tanti suoi aspetti sono io ». L'indicazione, da prendersi con la consueta precauzione, appare chiarificatrice; ci vengono, insomma, sottoposte le difficoltà di uno scrittore alla ricerca di un'originaria condizione di purezza, che gli consenta letture non strumentali, fruibili in sé, senza il continuo, paralizzante rimando al proprio mestiere. Eppure poco oltre, sempre dialogando con Nico Orengo, Calvino riconosce che gli è avvenuto una specie di « sdoppiamento » in Silas Flannery, uomo di grande fama per suoi romanzi eppure adesso improduttivo, preso, tra l'altro, dall'angoscioso dubbio se la sua supposta libertà non sia solo illusoria, e la sua macchina da scrivere non sia caduta in potere di extraterrestri (ma tra loro, camuffato, non c'è anche Giulio Einaudi?). L'ipotesi è accettabile, come plausibile è íl titolo dell'intervista, Calvino: Ludmilla sono io; solo che a questo punto sorge il dubbio di stare assecondando un gioco di specchi, di non riuscire, cioè, a raggiungere la condizione di lucidità e di estraneamento necessaria per capire il metodo e coglierne meglio le motivazioni: l'istrione si rende inafferrabile celandosi dietro una molteplicità di definizioni; avverte Calvino: « È la mia immagine che voglio moltiplicare, ma non per narcisismo o megalomania [...] al contrario, per nascondere, in mezzo a tanti fantasmi illusori di me stesso, il vero io che li fa muovere » (p. 162). Ma nessuno scrittore è stato mai capace di fare perdere le sue tracce nel « teatro Y 490 RECENSIONI polidittico » di Athanasius Kircher, il seicentesco autore dell'Ars magna lucis et umbrae, non basta « trasformare un ramo in una foresta, un soldatino di piombo in un esercito, un libriccino in una biblioteca » (p. 162). Il romanzo resta opera inevitabilmente chiusa, almeno nel senso che « linee di una rete che s'intersecano », possono pure muovere verso l'infinito, ma sono destinate prima o poi a riallacciarsi; perché inevitabilmente debitrici e responsabili nei confronti del presente. È cosí che, di riverbero in riverbero, il confuso mondo catoptico di Calvino finisce per organizzarsi attorno all'eterno triangolo autore-opera-lettore: qui si narra quello che potrebbe essere scritto, e come; si riportano dei brani di romanzi, alcuni racconti veri e propri; si precisano il tipo di distribuzione a cui verrebbero sottoposti ed i probabili consumatori. Con un'esattezza volutamente esasperante, senza toni parodistici, si ricostruiscono, cioè, tutte le fasi della creazione, o della mancata creazione, si propongono i prodotti oggi disponibili, il romanzo alla Butor, alla Mann, alla Borges, alla Bulgakov, alla Calvino, etc., dal giallo all'esotico, e giacché il manufatto, anche letterario, anche di Calvino, dipende dalle reazioni del mercato, ecco che la scrittura, sconsacrata, può vivere soltanto sotto forma di lettura, avventura narra-tologica a cui non sfugge lo stesso autore. Lo scrittore e il lettore, quindi, assumono sotto questa luce un'identità nuova. Come il « Padre dei Racconti », di età immemorabile, cieco e analfabeta, « fonte universale della materia narrativa », si confonde adesso con la leggenda e scompare fra i numerosi stratagemmi escogitati dall'ingegnoso Ermes Marana (enfant terrible, integrato dal sistema) per cedere il posto a tanti Silas Flannery, cosi i lettori perdono l'indeterminatezza dei vari Kublai Kan o Marco Polo per assumere una fisionomia piú precisa. Le difficoltà sempre crescenti, incontrate da uno scrittore come Calvino nello svolgere il proprio lavoro, appaiono colorarsi della storia presente e non tanto nei numerosi, immediati riferimenti alla cronaca sociale e politica, quanto nella natura stessa del linguaggio poetico qui utilizzato, attinto alle teorie della letterarietà oggi piú discusse, fino al punto che le parti del romanzo ascrivibili ad « una narrativa di affabulazione, movimentata ed inventiva » finiscono col risultare inscindibilmente annodate a « quelle piú riflessive in cui racconto e saggistica diventano tutt'uno » (« Paese Sera », 7 gennaio 1978). Non sono mancati autori che hanno lanciato la loro macchina immaginativa su binari metadiegetici: Cervantes, Sterne, Diderot, Joyce hanno significato momenti di importanza fondamentale. Ma non sempre la denuncia del codice letterario e di ciò che esso rappresenta è capace di superarsi, e stabilire un nuovo, adeguato equilibrio con il sociale. Se negli ultimi anni, come è noto, in Italia sul versante critico si è recuperato molto terreno perduto rispetto a modi di concepire e fare letteratura prospettati già nei primi decenni del secolo, ma inesorabilmente tenuti lontani dallo sbarramento crociano, questo tardivo incontro con le avanguardie del passato sembra avere causato come contraccolpo una sorta di complesso di inferiorità, con una conseguente mancanza di elaborazioni originali, e, fatto ancora piú grave, con l'accantonamento di tutto un patrimonio ideologico-filosofico e la fortuna di proposte compromissorie davvero pasticciate capaci di fare tutt'uno di Gramsci e Todorov. Accade cosí che i piú scientificamente agguerriti non si stanchino di riproporre formalizzazioni in cui gli smontaggi e le ricostruzioni dei testi, troppo spesso, non hanno niente da invidiare alle vecchie parafrasi con interessanti indulgenze verso una nuova prosa d'arte. Calvino, da par suo, risente, anzi vuole risentire di questo clima; il suo è un tuffo nel caos computerizzato: « Il libro che cerco [ ... ] è quello che dà il senso del mondo dopo la fine del mondo, il senso che il mondo è la fine di tutto ciò che c'è RECENSIONI 491 al mondo, che la sola cosa che ci sia al mondo è la fine del mondo » (p. 245). Come Sciascia, che a cinquattotto anni già raccoglie appunti e taccuini, continua a proporci con L'affaire Moro il romanzo-saggio, cosí l'autore di Se una notte d'inverno un viaggiatore si interroga sul significato che in questo momento ha lo scrivere, e mentre cerca, senza speranza, di dare dimensioni galattiche alla privata tragedia degli uomini, giunge a prospettare per sé scrittore non una, ma tante soluzioni, tutti i propri possibili, poetici, sociologici, critici. $ precisamente in tal senso che l'opera acquista uno spessore memorialistico, di testimonianza storica, assai notevole; sono pochi, in effetti, i documenti che meglio colgono il significato del disorientamento di chi scrive, ma anche di chi legge perché il pubblico è cambiato, e con esso gli strumenti posseduti da un consumatore medio. L'intenzione di Flannery di portare a termine un libro che sia fatto solo di incipit, perché da un po' di tempo, ogni volta che si mette a scrivere un romanzo, questo s'esaurisce poco dopo l'inizio come se già vi avesse detto tutto quello che aveva da dire (p. 197); il commento del lettore che in ultimo ribadisce: « da un po' di tempo in qua tutto mi va storto: mi sembra che ormai al mondo esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per strada » (p. 259), non potrebbero riflettere meglio la mancanza di un obiettivo, prima di tutto politico-sociale, di una mèta e di una strategia con cui lo scrittore e il lettore possano confrontarsi. Calvino, insomma, non ci propone una nuova poetica dell'ineffabile, dell'inesprimibile, tutto da lui viene datato, riuscendo a rilevare (anche suo malgrado) come il nostro tempo classifichi, spieghi, programmi soltanto il proprio disordine; come il momento dell'analisi, se non trova presto un piano di concreta verifica ed applicazione, possa venire utilizzato al massimo nella stesura di un bel romanzo. A questo punto appare chiaro il significato da attribuire all'attrezzeria narrato-logica. I suoi elementi, dal « punto di vista » al « narratario », non rappresentano unità di significato autonome, e la materia dell'espressione romanzesca cessa di porsi, come in passato era avvenuto, quale connotatore isolabile da un contesto storico-sociale, da cui anzi dipende, anche economicamente. Allo stesso modo, secondo la direzione impressa alla lettura-scrittura, i vari incipit dei romanzi (titolati) non possono venire isolati, poiché vivono del rapporto ininterrotto con i Capitoli. Come già nel Castello ed ancor piú nella Taverna, nonostante le indicazioni contrarie dell'autore, non soltanto « il significato d'ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono » (p. 124), ma soprattutto la narrazione finisce con il rivelare l'assoluta arbitrarietà della loro utilizzazione, cosí qui il triangolo autore-opera-lettore non rappresenta la punta di un iceberg combinatorio, autonomo dal proprio artefice, ma viene, al contrario, travolto dalla storia presente, dalla storia del suo autore, costretto a rivelare la propria natura tutta umana. Si chiarisce, dunque, come la scelta di questo linguaggio tragga origine dalla volontà dello scrittore di discutere una precisa `retorica' che, per quanto accettata in passato, gli appare adesso non piú praticabile. Per diversi anni Calvino ha continuato a dire che Le città invisibili erano il suo ultimo libro. In Se una notte d'inverno un viaggiatore la matematica delle metafore geometriche appare lontana, le somiglianze con opere precedenti, almeno in questo ambito, esteriori; si è aperto un nuovo capitolo. Nel drammatico aprile del 1978 lo scrittore aveva dichiarato a Giorgio Fanti: « niente o poco funziona da noi, ma 1...] siamo capaci di descrivere perfettamente il nostro naufragio. Ma basta questo? ». Oggi gli giriamo con fiducia la domanda. LUCA Tos CHI
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