Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: VARIETÀ E DOCUMENTI 329 (`L'altro processo'), una ricostruzione del fallito fidanzamento di Franz Kafka con Felice Bauer. Qui il tema dell'individuo alienato, impossibilitato a costituire anche la piú immediata forma di associazione, ossia la famiglia, non è piú esemplificato su un personaggio stravagante e per certi aspetti scurrile ed improbabile come è il Dr. Kien di Auto da f é. Nell'Altro processo è la vita stessa, fissata in un epistolario pieno di grida e sospiri, a esemplificare quel tema tanto bruciante. E. sulla stessa linea andrebbe posta l'appassionata ricostruzione, che Canetti ci ha dato, di un altro rapporto personale complicato come l'epoca e l'ambiente che rispecchia: quello di Karl Kraus e Sidonie Nádhermy von Borutin. Farsi poetico cronista degli amori segreti di Kafka e Kraus; scrutare nei piú complicati ghirigori interiori il segno che svela autenticamente un'epoca, è questa forse la passione piú azzardata e fruttuosa di Elias Canetti. La provincia dell'uomo dà un'idea di quanto lo scrittore stesso sia consapevole del difficile equilibrio in cui ambisce tenere il proprio lavoro, sempre in bilico tra evocazione e giudizio. Il libro è infatti composto da spunti di pensiero appena abbozzati, da tesi esposte per il solo fatto che si sono presentate alla mente, da verità contraddittorie lasciate liberamente cozzare tra loro; e tutto ciò inframmezzato da amari smascheramenti alla Rochefoucault, da taglienti battute alla Kraus, il grande modello dei primi anni viennesi. Spigoliamo alcuni esempi: « Non fidarsi del dolore: si tratta sempre di un dolore proprio ». « Ognuno dovrebbe vedersi mentre mangia ». O anche: « Voglio morire — ella disse — e inghiotti dieci uomini ». « Porse l'altra guancia finché non vi depositarono sopra una decorazione ». Non mancano neppure opposizioni fulminanti alla Brecht; eccone una che ricorda l'Abbecedario di guerra: « Una schiera di donne incinte; dalla parte opposta vengono avanti camion, carri armati, pieni di soldati opportunamente equipaggiati. I carri sono passati; le donne, in mezzo alla strada, si mettono a cantare ». Del carattere composito e si vorrebbe dire revulsivo del libro Canetti non fa mistero né apologia, lo fa sussistere per quello che è, al massimo si giustifica indirettamente con precedenti illustri, ad esempio commentando cosi i dialoghi di Confucio: « È sorprendente quanto si possa dare in 500 annotazioni: e come uno appaia in tal modo intero, rotondo, afferrabile. Ma anche assolutamente inafferrabile ». GIUSEPPE BEVILACQUA UMBERTO CALOSSO E PIERO GOBETTI La prima raccolta di scritti gobettiani dopo la liberazione, e dopo un ostracismo durato circa vent'anni, apparve, col titolo Scritti attuali, presso l'editore Capriotti di Roma con la data 30 luglio 1945. Ne era curatore Umberto Calosso che vi premise una prefazione, importante per piú motivi. Anzitutto per * Testo riveduto e annotato di una comunicazione presentata al Convegno dedicato a Umberto Calosso, svoltosi ad Asti il 13-14 ottobre 1979. 330 VARIETÀ E DOCUMENTI alcuni cenni autobiografici. Dopo essersi professato « amico di questo giovane fin da quando era ancor ragazzo », precisa: « Conobbi Gobetti subito dopo l'altra guerra, quando cercava collaboratori per una rivistina quasi infantile di cui non aveva ancor trovato il nome, e che si chiamò poi `Energie nove' ». Questo ricordo ci rinvia all'estate del 1918, quando Gobetti aveva compiuto da poco 17 anni (essendo nato il 19 giugno 1901), mentre Calosso (nato il 23 settembre 1895), ne aveva alcuni di piú. Fu durante le vacanze di quell'anno, terminato il liceo, quando la guerra era ancora in corso, che Gobetti ideò e preparò la sua prima rivista di cui il primo numero sarebbe uscito nel novembre. Calosso era allora studente di lettere, nonché richiamato alle armi nel servizio della sanità. Studente brillante e studioso precoce, aveva già pubblicato nel 1915 un saggio dantesco, Guido Cavalcanti nel X Canto dell'« Inferno », pubblicato nientemeno ne « Il giornale dantesco ». Ne ho trovato una copia nel suo archivio, con una nota di suo pugno, di qualche anno piú tardi, che comincia cosí: « Saggio di una matricola che aveva per professore il balilla Cian; ma dentro c'è forse un'idea nuova, nata da discussioni col compagno di scuola Gramsci, e di cui sto facendo un libro dal titolo: Il dramma dell'amicizia in Inferno, che dedicherò a Gramsci »'. Il ricordo continua con questo vivace ritratto fisico: « Con quella sua figura magra e sottile, quel ciuffo di capelli biondicci e gli occhi chiari, mobili e quieti, egli si presentava come un tipo curioso, difficile da definire ». Passando al ritratto intellettuale e morale, gli attribuisce « idee confuse e contraddittorie »; e « un'indigestione di letture tutte all'ultima ora ». Quindi lo paragona, per « l'accento pratico », a Prezzolini (paragone che allora non gli sarebbe dispiaciuto), per la capacità di raccogliere attorno a sé piccoli gruppi di giovani appassionati e dediti alla causa, a Mazzini. Ricorda infine che uscendo da quell'incontro, « in via Venti Settembre », qualcuno commentò: « È un editore quacchero ». Non saprei dire se per questa impressione o per altri motivi, certo è che Calosso non collaborò a « Energie nove », come del resto neppure alla seconda rivista gobettiana « La rivoluzione liberale », e si avvicinò sin dai primi mesi della fondazione a « l'Ordine Nuovo » con una lettera aperta al giornale pubblicata il 9 agosto 1919, e ne diventerà assiduo collaboratore quando il settimanale si trasformerà in quotidiano 2. L'unico contributo di Calosso alle riviste gobettiane è un articolo 1 Questo riferimento a Gramsci trova un riscontro nella nota del carcere che Gramsci dedicò allo stesso argomento, a proposito del libretto di V. MORELLO, Dante, Farinata, Cavalcante, Milano, Mondadori, 1927, ora in Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, pp. 522-526. La nota manoscritta di Calosso continua cosí: « È il canto dell'"amicizia stellare" dt cui parla Nietzsche a proposito della sua rottura con l'amico Wagner. È il canto di una lontananza da un caro amico da cui la sorte ci ha fatto divergere irrimediabilmente. Dante, che aveva disponibile un altro mondo, ha detto questo in un modo incomparabile. Io devo spiegar tutto questo attraverso la mia esperienza, senza gli svolazzi letterari infantili e cianu-rici e senza le note "erudite" del mio saggio infantile ». Inutile precisare che l'aggettivo « cianurici » è una scherzosa allusione a Vittorio Cian, allora professore di letteratura italiana all'università di Torino. 2 Per queste ed altre informazioni M. GRANDINETTI, Umberto Calosso: giornalista nell'Ordine Nuovo, relazione al Convegno sulla figura e l'opera di Calosso, svoltosi ad Asti il 13 e 14 ottobre. VARIETA E DOCUMENTI 331 manzoniano, apparso su « Il Baretti » nell'aprile 1927, quando Gobetti era già morto 3. Il secondo cenno autobiografico della prefazione su ricordata riguarda l'episodio ben più noto della sua successione a Gobetti come critico teatrale di « l'Ordine Nuovo ». Sospesa improvvisamente la pubblicazione di « Energie nove » nel febbraio 1920, Gobetti aveva iniziato a collaborare a « l'Ordine Nuovo » come critico teatrale nel gennaio 1920. Avendo dovuto rallentare la propria collaborazione dopo qualche mese, in parte perché sotto le armi dal luglio 1921, in parte perché all'inizio del 1922 era tutto preso ormai dal progetto della nuova rivista, Calosso fu chiamato spesso a sostituirlo. La prima nota teatrale attribuita a Calosso appare nel numero del 5 gennaio 1922, ed è dedicata alla rappresentazione di una commedia di Niccodemi, L'alba, il giorno e la notte. Da allora le note di Calosso siglate « m.s. », oppure firmate con lo pseudonimo « Mario Sarmati »4, si alterneranno a quelle di Gobetti, di cui l'ultima appare in uno degli ultimi numeri del giornale nel fatidico 28 ottobre 1922. Nel ricordare l'episodio Calosso con quel tono amichevolmente canzonatorio che gli era abituale delinea e contrappone due modi di concepire la critica teatrale. Gobetti prende il proprio compito troppo sul serio, giudica la commediola del giorno con gli stessi canoni estetici con cui si commenta la Divina Commedia tanto da essersi richiamato alla barettiana frusta (come critico teatrale Gobetti si firmava Baretti Giuseppe), e vi sfoga « feroce serietà stroncatoria » che gli fa venire in mente Papini. Lui, Calosso, invece, considerando il teatro, beninteso il teatro di normale repertorio, fatto di commedie la cui vita dura lo spazio di un mattino (è l'impressione del resto che ognuno prova leggendo i titoli di quelle cronache), come un divertimento e uno spettacolo, si era messo a fare il contrario di quello che aveva fatto l'amico, « lodando sempre tutto e nascondendo le critiche fra le righe ». Il ricordo è esatto. Basta confrontare la nota di Calosso alla commedia di Niccodemi, dianzi menzionata, e la nota che Gobetti aveva preparata per la stessa commedia e non fu pubblicata 5. Calosso si limita a descrivere vivacemente la serata, contrastata da fischi e salvata dall'abile intervento pacificatore di Niccodemi (che era oltre che l'autore il direttore della compagnia). Gobetti, cui la leggerezza, la vacuità, l'abilità puramente scenica di Niccodemi avevano sempre dato terribilmente fastidio, prende di petto lo spettacolo, e condanna la commedia come « irrimediabilmente falsa », definendola con quei tratti incisivi che gli sono abituali « una storia d'amore » che « trattata a mo' di idillio diventa goffo come un'Arcadia plebea »6. A chi sfogli l'annata del giornale il contrasto fra l'ilare e scanzonato Calosso 3 Nel centenario dei Promessi Sposi, in « Il Baretti », iv, 1927, n. 4, p. 19. 4 Sarmati era il nome di famiglia della madre. Sapegno ricorda che Calosso lo aveva adottato anche perché la Sarmazia richiamava la Russia patria della rivoluzione. 5 Ed ora si può leggere nel volume gobettiano degli Scritti di critica teatrale, curato da G. Guazzotti, Torino, Einaudi, 1974, pp. 429-430. 6 Scritti di critica teatrale, cit., pp. 428-430. Sul teatro di Niccodemi Gobetti tornò altre volte e ne trasse un saggio che comparve nell'Opera critica, Torino, edizioni del Baretti, 1927, parte II, pp. 92-105, ora anche in Scritti di critica teatrale, cit., pp. 601-605. 332 VARIETÀ E DOCUMENTI e il serioso Gobetti che si alternano nelle cronache teatrali appare evidentissimo. I giudizi di Calosso sono generalmente benevoli anche per le commedie che si capisce benissimo egli considera delle sciocchezze. Se s'impunta lo fa quando gli pare ne valga la pena. Si leggano le colonne dedicate alla Parisina di D'Annunzio: « Poesia? No, melodramma, un pessimo libretto per musica » (« l'Ordine Nuovo », 4.4.1922, p. 4, firmato « m.s. »). Del resto, quando gliene viene l'occasione non esita a esprimere senza tanti complimenti ciò che lo divide dall'amico armato di frusta. Per fare un esempio: Gobetti non amava Goldoni 7, ed ecco che Calosso nella cronaca della rappresentazione de Il ventaglio, sbotta: « Chi osa alzare la frusta sul grande Goldoni? » (« l'Ordine Nuovo », 7.2.1922, p. 3, firmato « m.s. »). L'allusione è evidente. In un articolo Il loggione settimanale, rispondendo ad alcuni lettori che gli avevano rimproverato di essere abitualmente troppo indulgente, espone il suo concetto del teatro come divertimento e, lamentando che Goldoni sia caduto in disgrazia, continua: « ... e piú d'un Baretti rinnovellato alza la frusta su un certo (cosi dicono) Goldoni stroncandolo in tutte le sue 200 commedie senza distinzione, e ben inteso, senza prima aver avuto la finezza di leggerle » (« l'Ordine Nuovo », 21.2.1922, p. 3, firmato « m.s. »). In altra occasione, a proposito dell'Enrico IV di Pirandello, enuncia la sua interpretazione del teatro pirandelliano e poi commenta: « Tanto meno è il poeta della dialettica, come vuole il mio carissimo amico Baretti Giuseppe. Lo sdoppiamento non è movimento dialettico, ma incertezza e stasi sentimentale » (« l'Ordine Nuovo », 8.3.1923, p. 3, firmato « Mario Sarmati »). Il dissenso col « carissimo amico » non era soltanto letterario. Negli stessi mesi (le cronache che ho citate stanno tra il gennaio e il marzo 1922) era apparsa la nuova rivista gobettiana, « La rivoluzione liberale » (il cui primo numero è del 12 febbraio). Nel n. del 12 gennaio di « l'Ordine Nuovo » apparve sotto il titolo Alla società di cultura l'annunzio che il 15 del mese Gobetti avrebbe tenuto una conferenza sulla « Rivoluzione liberale », « concetto e parola che è l'impresa di un settimanale politico che uscirà tra poco, diretto dallo stesso Gobetti ». Nel numero del 16 appare sotto il titolo La rivoluzione liberale un ampio commento alla conferenza. L'articolo non è firmato ma Giancarlo Bergami, cui devo questa ed altre preziose informazioni, tratte dalla imponente bibliografia gobettiana cui ha atteso in questi anni, ed è ora in corso di pubblicazione, lo ha attribuito, dietro indicazione di alcuni superstiti vecchi collaboratori del giornale, a Calosso: attribuzione del resto che la lettura dell'articolo e delle altre note gobettiane di Calosso conferma. Spiega dunque l'anonimo commentatore come il conferenziere avesse cercato di rivelare il « mistero » delle due parole che formano il titolo della imminente rivista. Dal chiaro ed esauriente riassunto della conferenza risulta che Gobetti vi aveva illustrato le idee che costituiscono il famoso Manifesto di « La rivoluzione liberale » e che l'inviato de « l'Ordine Nuovo » era stato un ascoltatore intelligente e attento. Dopo il riassunto, la critica; una critica piutto- 7 Si veda la recensione di « Gli innamorati » di Goldoni su « l'Ordine Nuovo » del 6.7.1921: « Non crediamo che Carlo Goldoni possa oggi avere un significato nella nostra cultura e nell'espressione della nostra sensibilità » (Scritti di critica teatrale, cit., p. 317). VARIETÀ E DOCUMENTI 333 sto dura. Gobetti aveva esposto le sue idee sulla storia del Risorgimento, che passa attraverso il compromesso cavouriano per sfociare nel compromesso riformistico di Giolitti. In poche battute Calosso rifà a suo modo tutta la stessa storia. L'idea liberale che è apparsa tanto importante al Gobetti ha un valore secondario. I moti del '21 hanno una risonanza locale. La prima affermazione unitaria e popolare è del Mazzini; il neo-guelfismo è popolare ma non unitario. Il '49 è il momento tragicamente originale del Piemonte che fa di Torino il centro della vita italiana. Il liberalismo — descritto da Gobetti — non è che la formula e la bandiera di questo compromesso. La visione gobettiana del Risorgimento è astratta e schematica. Il programma politico pecca di ingenuità, di leggerezza e d'immodestia. Si vede benissimo che non è cresciuto sul terreno della lotta quotidiana, non è il frutto di una sofferta esperienza, di un'esperienza che solo il contatto diretto con la classe operaia può far nascere. Il commento continua soffermandosi in modo particolare sulla tesi gobettiana (d'origine salveminiana) dell'alleanza fra il partito operaio e il partito dei contadini, che diventa concretamente e curiosamente l'alleanza fra il partito comunista e il partito sardo d'azione. Dico anche « curiosamente », perché quando Gobetti ristamperà il Manifesto nella parte prima di La rivoluzione liberale il progetto del connubio fra partito comunista e partito d'azione scomparirà. Sta fra la punta polemica: « Rimane da vedere come egli ha tolto il diritto di coronarsi arbitro in mezzo a loro [cioè in mezzo ai due partiti], senza essere mai sceso nelle loro file »; e la critica politica: non si riesce a capire come possano andare a braccetto un movimento internazionale unitario come il partito comunista e « un partito borghese, grettamente regionalista, come il partito d'azione », di cui l'incauto proponente non sospetta nemmeno il contenuto conservatore. Nel complesso però piú che una sferzata, com'era stata quella di Togliatti, rievocata dallo stesso Calosso 8, una ramanzina che finisce con una specie di buffetto al discolo come invito al ravvedimento: « L'esperienza stessa — questa è la conclusione — potrà indicare la via di Damasco ad un ragazzo di cuore e di grande ingegno com'è Piero Gobetti ». Non so se si possa addurre questa critica anticipata della rivista che sta per uscire come argomento per spiegare il fatto che Calosso non vi abbia mai collaborato. L'argomento principale peraltro è che « La rivoluzione liberale » nasceva non solo in concorrenza ma in contrasto con « l'Ordine Nuovo », e soprattutto si rivolgeva a un gruppo di potenziali collaboratori radicalmente diverso, e anzi polemicamente orientato contro i comunisti torinesi. A ogni modo quella critica non guastò i rapporti personali fra il criticante e il criticato, come prova fra l'altro un raro documento della cui conoscenza sono debitore ancora una volta a Bergami. Con la data del 23 gennaio 1922, di pochi giorni posteriore all'articolo su « l'Ordine Nuovo », Gobetti stampa e distribuisce un foglietto pubblicitario intestato alla rivista in cui annuncia una serie di conferenze, anzi di 8 Mi riferisco alla nota di Togliatti, I parassiti della cultura, in « l'Ordine Nuovo » del 15.5.1919, in cui Gobetti era accusato di essere gentiliano, che è accusa che ritorna anche negli scritti di Calosso. Alla nota di Togliatti Gobetti rispose con una nota, Polemica con l'Ordine nuovo, in « Energie nove », 20.5.1919 (ora in Scritti politici, Torino, Einaudi, 1960, pp. 113-114). 334 VARIETÀ E DOCUMENTI « letture », volte a « integrare l'opera di libera cultura promossa dalla nostra rivista La rivoluzione liberale ed effettuare il nostro proposito di severo e preciso lavoro per la formazione di una rinnovata coscienza politica ». Nel primo elenco di conferenzieri compaiono Salvemini con una conferenza sul partito popolare, Burzio su Giolitti, e Mario Sarmati, appunto Calosso, su « comunismo e intelligenza ». Da quel che si può capire il tema proposto da Calosso era una risposta al tentativo gobettiano di far rivivere attraverso la nuova rivista il partito degl'in-tellettuali salveminiano. Ma se è pericoloso far congetture sul suo contenuto, tanto piú che la conferenza non dovette essere mai tenuta, si può dare per certo che Gobetti non solo non era stato punto dalla paternale di « l'Ordine Nuovo », ma riteneva utile, anche dopo la non benevola accoglienza del suo programma, valersi dell'appoggio che alla nuova rivista poteva venire da parte degli amici comunisti. L'idea che solo il contatto diretto col movimento operaio avrebbe trasformato il dottrinario astratto in un combattente per la buona causa è un tema costante della polemica comunistica nei riguardi dell'attivismo ideologico gobet-tiano, ed è ormai diventato un luogo comune che la maturazione politica dell'adolescente fondatore di « Energie nove » sia avvenuta attraverso la collaborazione al giornale comunista. Del resto egli stesso riconobbe lealmente quanto dovesse alla sua amicizia con Gramsci e alla conoscenza diretta delle lotte operaie torinesi. A distanza di piú di vent'anni lo stesso Calosso riprende il tema nella prefazione del 1945, anzi ne fa il nucleo centrale della sua rievocazione. Prima del contatto con la classe operaia la cultura di Gobetti era prezzoliniana, gentiliana, missi-roliana (« Prezzolini, Gentile, Missiroli: tre uomini senza carattere, interpretati da un giovane di carattere »). Croce venne piú tardi, ma c'erano poi anche Sal-vemini, Einaudi, Mosca, e i libri del giorno. Se non ci fosse stato l'incontro con « l'Ordine Nuovo » e la classe operaia torinese, tutte queste influenze avrebbero potuto generare « una farandola d'idee senza un centro, una riforma e un liberalismo missiroliano capace dei piú strani funambolismi dialettici, un moralismo prezzoliniano puramente librario ». Non accettò il socialismo ma fu a fianco degli operai. Cosí riuscí a inserire le lotte del lavoro in un liberalismo « di timbro religioso », e ne fece un esempio di « quella riforma morale » che il Risorgimento aveva tentato invano. (Poco prima lo aveva definito « religioso laico » 9.) Questo ritratto può sembrare oggi un po' di maniera dopoché sul pensiero di Gobetti e sulle sue fonti sono state scritte centinaia di pagine. Ma può sembrare di maniera proprio perché è stato ripetuto da allora infinite volte, e non si può dire che gli studi successivi l'abbiano cambiato tanto da renderlo irriconoscibile. Personalmente credo che il nucleo resistente del pensiero gobettiano sia salveminiano ed einaudiano, ed alla fin fine piú einaudiano che salveminiano, e alla lunga di ascendenza cattaneana con un di piú di giovanile ribollimento che gli veniva dalla consuetudine con Alfieri. Occorre dire che sui rapporti fra Gobetti e « l'Ordine Nuovo » Calosso era già intervenuto una volta e piú a lungo, prima 9 'Piú tardi lo stesso Calosso si definirà « cristiano mazziniano » (dalla relazione di Ma-riangiola Reineri al convegno su menzionato). VARIETÀ E DOCUMENTI 335 della prefazione del 1945, in un articolo di ricordi gramsciani pubblicato sui « Quaderni di Giustizia e Libertà » nel 1933 lo. Lontani ormai i tempi della sua collaborazione al giornale dei comunisti torinesi, giudica quella esperienza con simpatia ma anche con un certo distacco e muove a quel foglio lo stesso rimprovero di « dottrinarismo » che da ordinovista aveva mosso a Gobetti. Giunge addirittura ad attribuire a questo dottrinarismo la scissione del 1921: « una colpa, comune a tutte le frazioni, di cui l'Ordine nuovo ha la sua parte » (ivi, p. 77). Termina con una pagina sui rapporti fra il giornale e Gobetti. Ricorda l'ostilità con cui la prima rivista gobettiana fu accolta da Togliatti. Quindi rievoca l'episodio della conferenza con la quale Gobetti aveva presentato la nuova rivista, e aggiunge che questa volta toccò a un altro redattore (che, come si è visto, era lui stesso) a fare alcune riserve amichevoli ma fondamentali. L'aver capito che « in quel ragazzo sorridente c'era un attivismo ascetico e un puritanismo pratico che portava un accento originale » fu merito di Gramsci. A questo punto Calosso introduce nel quadro di maniera un tratto nuovo. Osserva che, se è vero che Gobetti accettò il nocciolo del programma di Gramsci, è altrettanto vero che Gramsci trovò nel liberalismo di Gobetti un alleato indipendente e un respiro culturale piú largo. Non piú dunque un Gobetti influenzato da Gramsci ma un Gramsci e un Gobetti che si influenzano a vicenda. « La formula liberale di Gobetti, che in astratto si prestava [...] a giustificare indifferentemente ogni programma, trovò nel quadrato e martellato pensiero di Gramsci un'esperienza vissuta e un punto fermo che furono decisivi per la sua chiarificazione e orientazione definitiva » (ivi, p. 79). Non è il caso di discutere questa interpretazione che ubbidisce a un'esigenza politica e non a un criterio di analisi storica. Da discutere, se mai, e da rifiutare, una delle ragioni per cui Gramsci e Gobetti avrebbero finito di convergere: la comune matrice gentiliana. « Il liberalismo di Gobetti partiva da premesse filosofiche analoghe a quelle di Gramsci: l'hegelismo di Gentile; e queste premesse essendo in entrambi di terza mano permettevano tanto piú comodamente al loro pensiero di giungere a risultati politici originali, che s'incontravano nell'esigenza dell'autonomia » (ivi, p. 78). Il problema dell'egemonia gentiliana non è un problema che si possa sbrigare in due battute. In quegli anni quasi tutti i giovani pensanti e militanti (non importa se a destra o a sinistra) ne furono segnati. Ma per molti si trattò di una infatuazione giovanile che non lasciò tracce durature negli anni della raggiunta maturità. Il che avvenne certamente nel caso di Gramsci e di Gobetti. A ogni modo questo avvicinamento tra Gobetti e Gramsci induce Calosso a una conclusione inedita, e cioè che « in un certo senso, "Rivoluzione liberale" fu l'erede de "l'Ordine Nuovo" » (ibidem). Inedita e isolata. Lo stesso Calosso non la riprese nella prefazione del 1945, dove si limitò a dire che « Rivoluzione liberale » fu « il foglio lo Gramsci e l'« Ordine Nuovo » in « Quaderni di Giustizia e Libertà », n. 8, agosto 1933, pp. 70-79, firmato « Fabrizio ». Nel numero successivo Calosso protesterà col proto che gli ha mutato lo pseudonimo « Fabrizi » in « Fabrizio ». Mentre Fabrizio è un nome romano che ricorda l'onomastica fascista, Fabrizi rievoca il personaggio mazziniano Nicola Fabrizi « vissuto a lungo in quest'angolo perduto [Malta] dove l'esilio mi ha proiettato » (Rettifica, in « Quaderni di Giustizia e Libertà », n. 9, novembre 1933, pp. 94-95, firmato « Ex-Fabrizi »). 336 VARIETÀ E DOCUMENTI piú vivo d'Italia ». (Nell'articolo del 1933 aveva detto de « l'Ordine Nuovo » che era stato « uno dei fogli piú originali che l'Italia abbia avuto », ibidem.) Tralascio riferimenti minori 11. L'ultimo articolo di Calosso dedicato a Go-betti apparve su « Il Mondo » nel n. del 14 maggio 1949, intitolato Gobetti tra Gramsci e Einaudi. Non sarebbe da ricordare perché in gran parte ripete cose dette nella prefazione del 1945, se non fosse per il riconoscimento dell'importanza che ebbe Einaudi nella formazione del giovane idealista, ideatore di una rivoluzione liberale in un'età in cui era avvenuta la prima rivoluzione socialista della storia. Un riconoscimento tardivo? A dire il vero, Calosso aveva pubblicato in appendice alla raccolta degli scritti gobettiani del 1945 le pagine che Einaudi aveva scritte in memoria di Piero, pubblicate su « Il Baretti » un mese dopo la morte (nel n. del 16 marzo 1926), segno che l'incontro fra maestro e discepolo che Einaudi rappresenta mirabilmente in quelle pagine lo aveva colpito. Giacomo Noventa, gobettiano a suo modo, recensendo gli Scritti attuali in quel giornale personale che era la « Gazzetta del nord », disse che la raccolta, preceduta da « un discorso molto superficiale » di Calosso, era riscattata dalla pubblicazione dei ricordi einaudiani « in tutto degni del geniale economista che tutti conoscono; e del moralista e del filosofo, che troppo pochi hanno saputo finora riconoscere nell'economista piemontese » 12. Un rimprovero che non si può estendere a Calosso, di Einaudi grande ammiratore, come dimostra l'episodio della lettera che egli scrisse al « Corriere della sera » del 13 aprile 1948 per lamentare che, eletto presidente, Einaudi non scrivesse piú su quel giornale gli articoli di cui era sempre stato un « assiduo lettore ». A questa lettera il neo-presidente rispose sullo stesso giornale del 22 agosto con l'articolo Il fantoccio liberistico, pubblicato insieme con la lettera che l'aveva provocata in Lo scrittoio del presidente col malizioso titolo Sullo scrivere per il pubblico del presidente della Repubblica (Torino, Einaudi, 1956, pp. 5-11). Nella lettera Calosso ricorda di essere stato allievo di Einaudi insieme con Gobetti « mio condiscepolo » (ivi, p. 6), dove « condiscepolo » deve essere inteso in senso molto generale perché l'uno era studente di lettere, l'altro di giurisprudenza. Il significato dell'articolo del « Mondo » è già nel titolo: Gobetti fra Gramsci ed Einaudi, ed è reso esplicito nella frase seguente: « Se Gramsci e la classe operaia torinese rappresentano il punto duro di Gobetti, Einaudi ne rappresenta il punto chiaro, di cui egli aveva bisogno ». Il punto duro e il punto chiaro, il pensiero rivoluzionario e il pensiero liberale, la cui sintesi sarebbe stata la rivoluzione liberale. Ma Calosso non trae una conclusione. Dopo aver detto che la discussione tra Einaudi e Gobetti « ci lascia tutti pensosi » conclude non con una risposta ma con una domanda. Chi dei due avrà ragione? 11 Dei quali ho avuto notizia attraverso le schede della bibliografia gobettiana, apprestata con grande diligenza da Bergami, di prossima pubblicazione come quarto volume delle Opere complete di Piero Gobetti presso l'editore Einaudi. Si tratta di riferimenti o allusioni alla personalità e all'opera di Gobetti nei numerosi articoli che Calosso venne scrivendo prima in esilio e poi dopo la liberazione, nonché di recensioni alla raccolta Scritti attuali, da cui questa mia comunicazione ha preso le mosse. 12 Segnalazione anonima degli Scritti attuali, in « Gazzetta del Nord », I, n. 6, 24 giugno 1946, p. 1. VARIETÀ E DOCUMENTI 337 Ho toccato aspetti meno noti dei rapporti fra Gobetti e Calosso. Non ho trattato di proposito il tema alfieriano. Entrambi si erano laureati con una tesi sull'Alfieri, il primo nel 1920, il secondo nel 1922, e ne trassero due libri, L'anarchia di Vittorio Alfieri e La filosofia politica di Vittorio Alfieri, dei quali il secondo fu pubblicato (1923) prima del primo (1924). Il tema alfieriano richiederebbe un ampio discorso sulla fortuna di Alfieri nella tradizione letteraria piemontese che è fuori dal mio tiro. Da ricordare almeno la nota in cui Calosso citò il libro dell'« amico » Gobetti, se non altro perché riprende il tema del gentilianesimo gobettiano in cui ci siamo già imbattuti. La filosofia che Gobetti trova nell'Alfieri sarebbe secondo Calosso la filosofia dell'atto, e la filosofia dell'atto si identifica col liberalismo. Ma se il liberalismo è attivismo e Alfieri è un liberale, sono tutti liberali, Gioberti come Mazzini, Marx come Torquemada 13 Un giudizio ingiusto, e bisogna pur dirlo, anche senza mordente (non ostante l'intenzione di mordere). Un caso in cui palesemente Calosso è stato tradito dal gusto della boutade. Tanto piú ingiusto in quanto l'Alfieri di Gobetti non è un liberale ma un libertario, molto piú vicino all'anarchico che lui stesso, Calosso, ha tratteggiato che non al liberale classico come Locke o Constant. Basti questa frase: « L'Alfieri nega la tirannide perché piú forte dell'esigenza sociale freme in lui il represso ardore di una attività individuale, piú forti di tutti i motivi democratici lo animano gli impulsi anarchici e aristocratici della sua esuberanza e della sua concreta coscienza creativa. La sua critica è superiore all'enciclopedismo e al liberalismo sensistico »14. Si capisce, c'è modo e modo d'intendere l'anarchia, o il libertarismo. C'è una concezione etica e una concezione che si potrebbe dire edonistica o utilitaristica o meramente estetica dell'anarchismo. Quella di Gobetti è risolutamente la prima. Si rilegga una delle pagine piú belle e piú gobettiane del libro: « La religiosità alfieriana è il trionfo dei valori interiori. Le religioni costituite e dogmatiche separano tra autorità gerarchica e umiltà di popolo, tra impero e ubbidienza; alla loro base, piú profonda ancora di ogni esperienza mistica, sta un principio utilitario, un calcolo di cui le classi gerarchicamente piú elevate si servono. La religione della libertà esclude interessi e calcoli, esige, come efficacemente scrive l'Alfieri, fanatismo negli iniziatori, e negli iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell'ardore completo per cui non c'è soluzione di continuità tra pensiero e azione. Ne risulta un'unità di apostolato che anticipa i caratteri dell'opera mazziniana [ ...] . Alfieri è un'anima religiosa e mentre propone la sua concezione libertaria sente intensa e profonda vicinanza spirituale con tutte le anime eroiche della religione » (op. cit., p. 128). Ancora, nel breve ritratto di Alfieri che Gobetti traccia nel secondo capitolo di Risorgimento senza eroi: « Il violento rilievo della personalità alfieriana fa pensare piuttosto alle tragiche figure della rivoluzione che alla pacifica calma dell'illusionismo riformatore. I suoi accenti libertari ricordano Stirner e Nietzsche » 15 13 L'anarchia di Vittorio Alfieri, Bari, Laterza, 1924, p. 48. 14 La filosofia politica di Vittorio Alfieri, in Scritti storici, letterari e filosofici, Torino, Einaudi, 1969, p. 118. 15 Risorgimento senza eroi, in Scritti storici, letterari e filosofici, cit., p. 74. 338 VARIETÀ E DOCUMENTI Non meno artificiosa anche l'altra contrapposizione, fra un Alfieri iniziatore del Risorgimento, quello di Gobetti, e un Alfieri cosmopolita, la cua patria è il mondo, quello di Calosso. Artificiosa, perché la interpretazione di Gobetti non ha niente a che vedere con la tesi di un Alfieri patriottico, tanto da respingere come grossolana l'interpretazione di Gentile che esamina l'Alfieri « solo in relazione alle sue conseguenze patriottiche » (ivi, p. 91). Il proposito di Gobetti è di fare dell'Alfieri il capostipite di una storia « filosofica » del Risorgimento in Piemonte, dove l'accento deve cadere su quel « filosofico », giusto o sbagliato che sia. Una storia certo tutta inventata ma che coi suoi Ornato, i suoi Gioberti, i suoi Bertini, non ha nulla in comune con la storia scolastica dei precursori del Risorgimento. Anche la contrapposizione fra l'interpretazione politica di Gobetti e quella non politica di Calosso, è fuorviante. La politica di Alfieri secondo Gobetti è la religione della libertà che non è politica nel senso abituale del termine essendo invece un atteggiamento etico, che come tale dovrebbe ispirare ogni politica ma non è di per se stesso immediatamente politico. Oserei dire che nell'espressione del titolo « filosofia politica », è piú importante il sostantivo che l'aggettivo. Resta il problema di capire le ragioni dell'alfierismo di questi due personaggi cosí diversi che pur fanno dell'Alfieri il loro modello ideale. Di Gobetti disse giustamente Fubini che nell'Alfieri cercava soprattutto se stesso 16. Parimenti, quasi non c'è scritto di Calosso in cui non compaia a proposito o a sproposito una citazione di Alfieri. Un alfierismo tanto piú interessante da studiare e da capire in quanto né l'uno né l'altro erano letterati, e sono stati invece entrambi prevalentemente scrittori politici. Per Gobetti si potrebbe trovare una ragione della sua passione alfieriana anche nel « piemontesismo », ma per Calosso questa ragione non vale perché proprio in una nota del suo Alfieri canzona gli amici piemontesisti ed equipara il piemontesismo al filisteismo i'. Il motivo fondamentale che spinge i due amici a cercare l'Alfieri è uno solo: l'anelito verso la libertà, tanto piú forte e irresistibile in quanto proprio negli anni dei loro studi alfieriani era soffocato. Se Alfieri sia stato piú filosofo o piú poeta è una vecchia questione, dibattuta tra i suoi commentatori, sin da quando la pose Leopardi. Si potrebbe dire a mo' di conclusione che per Gobetti Alfieri fu piú il filosofo della libertà, per Calosso piú il poeta is. Ma non vorrei che anche questa distinzione, come tutte le distinzioni troppo nette, fosse un po' forzata. L'unica cosa certa è che pur nel diverso modo di avvicinarsi al loro personaggio Gobetti e Calosso furono attratti dallo stesso amore della libertà, e ne resero con la loro vita un'alta testimonianza cui ben si apporrebbe la citazione di uno dei tanti forti versi che l'odiator di tiranni dedicò alla « bella e terribil dea ». NORBERTO BOBBIO 16 M. FusINI, Saggi e ricordi, Milano-Napoli, 1971, p. 214. i~ L'anarchia di Vittorio Alfieri, cit., p. 24. Calosso si riferiva probabilmente all'articolo di N. SAPEGNO, Il Piemonte e le province, in « La rivoluzione liberale », i, n. 35, 30 novembre 1922, p. 131. 18 Su Alfieri poeta della libertà, vedi M. BONI, Sull'Alfieri politico, Modena, Soc. tip. editrice modenese, 1963, e autori ivi citati, p. 33 e ss. Ma vedi anche le osservazioni di A. GAROSCI, La critica di Calosso, in « Comunità », xlil, n. 75, dicembre 1959, pp. 97-101. Da ultimo ancora W. BINNI, Settecento maggiore, Milano, Garzanti, 1978, p. 363 e ss.
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