Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: 326 VARIETÀ E DOCUMENTI DALLA VALLE DI GIOSAFAT: ELIAS CANETTI Prima ancora di essere uno scrittore Elias Canetti è un vivente compendio della storia d'Europa. Le sue origini e gli itinerari della sua esistenza, se venissero tracciati sulla carta del nostro continente, mostrerebbero un viluppo indi-stricabile. Canetti nacque nel 1905 a Rustciúk, un piccolo ma importante emporio fluviale sulla riva bulgara del Danubio, un insediamento commerciale che deve il suo nome attuale ai ragusani, cioè a dei dàlmati di civiltà veneziana, i quali vi si insediarono stabilmente nel corso del Cinque e Seicento, essendo riusciti a trovare un pacifico accordo con i dominatori ottomani, al fine di controllare soprattutto il traffico delle granaglie provenienti dalle fertili zone della Valacchia rumena. Ma Canetti non appartiene a nessuna delle numerose nazionalità che il nome di Rustciúk ci ha già permesso di elencare, la sua gente veniva da piú lontano: aveva lasciato alcuni secoli prima la Spagna per non diventare marrana, per non tradire la fede millenaria che si manifesta anche nel nome biblico di Elia portato da Canetti con tanto orgoglio. In altre parole, Canetti è originariamente un ebreo sefardita. Venuto alla luce sulle rive del Danubio orientale, la sola lingua della sua prima infanzia fu lo `spaniolo', ossia lo spagnolo arcaico degli israeliti balcanici di origine iberica. Ma i genitori, che si erano conosciuti studenti a Vienna, parlavano pure un'altra lingua, che esercitava, proprio per essere la lingua dei piú segreti conciliaboli dei genitori, un enorme fascino sul piccolo Elia e diventerà piú tardi la lingua della sua opera di scrittore. Piú tardi, perché le prime scuole egli le fece in Inghilterra, dove la famiglia si era trasferita; e dove forse sarebbe rimasta, se la morte precoce del padre, facoltoso commerciante, non avesse ricondotto Canetti sul continente: prima a Vienna, poi a Zurigo, poi a Francoforte; infine, nel periodo decisivo della sua formazione, tra il 1924 e il 1938, di nuovo a Vienna, fino all'occupazione hitleriana, che lo costrinse ad altra affannosa emigrazione. Dal 1938 Canetti vive a Londra; ma ha sempre continuato a scrivere in tedesco. Mentre la guerra volgeva al termine, egli annotava: « La lingua del mio spirito continuerà ad essere il tedesco, e precisamente perché sono ebreo. Ciò che resta di quella terra devastata in ogni possibile modo voglio custodirlo in me, in quanto ebreo. Anche il suo destino è il mio; io però porto ancora in me un'eredità universalmente umana ». E pochi mesi dopo, all'inizio del 1945, scrive: « Quando arriverà la primavera, il lutto dei tedeschi sarà una fonte inesauribile, e non si potrà piú distinguerli dagli ebrei. Hitler in pochi anni ha trasformato i tedeschi in ebrei, e oggi `tedesco' è divenuto una parola dolorosa come `ebreo' ». Ricaviamo queste due citazioni dal volume La provincia dell'uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, uscito da poco come 80° volume della preziosa « Biblioteca Adelphi », dopo che già lo stesso editore, nel 1974, e sempre giovandosi delle versioni di Furio Jesi, aveva pubblicato i saggi di Potere e sopravvivenza. VARIETÀ E DOCUMENTI 327 Singolare parecchio, questa assimilazione del destino dei tedeschi e degli ebrei, dei carnefici e delle vittime; soprattutto se si tiene conto che tali frasi furono scritte nel 1944-45. Ma ciò che vi traspare non è l'amore del paradosso e della provocazione, che pure non mancano nelle pagine di Canetti; qui traspare qualcosa di piú profondo e complesso. È come un guardare la storia in una prospettiva tanto ampia da vedere accostati gli editti persecutori di Ferdinando d'Aragona e le fortezze volanti che Canetti vede tornare — come scrive in altra pagina — a stormi luccicanti dopo aver distrutto una qualche antica città della Germania: « A ogni bomba fa un salto indietro un pezzo della settimana della creazione ». E ancora, giunta la notizia di Hiroshima, Canetti annota: « Detronizzazione del sole, l'ultimo mito valido è distrutto ». Per lui, la storia, a cominciare dalla cattività in Egitto di cui dice di avere ancestrale memoria, è una sequela di catastrofi, di diaboliche crudeltà. Ma queste non sono evocate drammaticamente, con una partecipazione diretta, emotiva, indignata, bensí proiettate epicamente su uno sfondo che è come il buio schermo fisso, dietro le palpebre abbassate del narratore che si appresta ad evocare. Cosí tutto, anche gli avvenimenti del giorno piú atroci o sensazionali, acquistano subito, in Canetti, un'aura postuma. Forse ha a che fare con quest'aura una sibillina annotazione tronca datata 1952: « Gli storici il giorno del giudizio Universale ». Forse Canetti ha voluto dire che gli storici, nel senso convenzionale del termine, capiranno la storia soltanto quando si sarà fermata ed essi la contempleranno per intero, sottratti finalmente al flusso che li frastorna, finalmente immobili, come il loro oggetto, nella valle di Giosafat. Non c'è dubbio che questa concezione, latente ma palpabile in tutta l'opera di Canetti, è da porre innanzitutto in rapporto con il suo spontaneo radicamento nella saggezza ebraica, del resto continuamente confrontata con quella cinese, sia confuciana che taoista. Ma a tutto ciò non è estraneo neppure l'aver vissuto l'età delle esperienze culturali decisive nella Vienna degli anni Venti e Trenta. Nessun posto del mondo era piú adatto per guardare al passato come da una valle di Giosafat, ricapitolando i secoli. Per nessun altro paese la conclusione della Grande Guerra era stata tanto simile alla fine del mondo. Da 11, ora che tutto era accaduto, si poteva guardare con equanime saggezza a chi, dalla guerra, era uscito vittorioso ed accresciuto come a chi ne era uscito vinto e punito, considerare con pari distacco il trionfalismo dei vincitori, ignaro della sua precarietà, e il risentimento e l'agitazione di chi già era smanioso di rimonta. Dalla pace di Versailles l'Austria fu molto piú colpita che non la Germania; ma in Austria, si può dire, non vi fu revanscismo; nessuno inventò meschine leggende, pugnalate alla schiena, congiure fantomatiche. Ciò che era caduto proiettava la sua maestà sulle cause della caduta, che non potevano essere banali e contingenti, e tanto meno revocabili. La storia non aveva voltato pagina, curiosa di vedere il seguito; aveva solennemente chiuso il libro. E cosí i Musil, i Roth, i Broch si disponevano davanti a questo grande paesaggio non piú in fuga, per ritrarlo bloccato nel suo crepuscolo con tutta la calma che richiede la grande epica. Del resto, in quegli anni, Jenseits (`al di là') 328 VARIETÀ E DOCUMENTI diventava una parola chiave anche nell'opera di Freud. Al di là degli istinti vitali su cui le prime ricerche avevano gettato una viva luce, montava la zona d'ombra dell'istinto di morte, dell'immobilità che si manifesta come ripetizione. Ad una produttiva consapevolezza di questo stato Canetti arriva per contrasto. Nel 1928 e '29 egli compie due lunghi soggiorni a Berlino, chiamatovi da un giovane editore di sinistra destinato a diventare famoso: Wieland Herzfelde. Per suo tramite Canetti entra nel vortice della ribollente vita culturale berlinese, frequentando George Grosz, Isaak Babel e Bertolt Brecht, il quale lo dileggia per il suo `alto sentire'. Tutto questo per Canetti è piú che interessante, è sconvolgente; ed è il contrario di Vienna: qui, nelle vocianti conventicole, nei caffé, nei teatri, si affrontano animosamente i problemi del giorno e si specula sul futuro, l'interesse politico non è retrospettivo; e anche la nuova morale viene, non analizzata, ma quotidianamente messa in pratica, con grande scandalo del giovane puritano Canetti. « Qui — scriverà egli piú tardi — tutto era possibile, tutto accadeva; la Vienna di Freud, dove di tante cose ci si limitava a parlare, appariva in confronto verbosa ed innocua ». Attratto ma anche atterrito, Canetti alla fine opta per la stasi meditativa della Vienna post-asburgica, ritorna alla sua tranquilla camera ammobiliata, un po' fuori città, di fronte al colle su cui si distende lo sterminato manicomio di Steinhof. Ma il trauma berlinese, e la scelta che esso provoca, mette in moto e indirizza una vocazione prima incerta. « Un giorno mi venne l'idea che non si poteva piú rappresentare il mondo come in romanzi precedenti, per cosi dire dal punto di vista di un solo scrittore; il mondo era disgregato ed era possibile darne una rappresentazione adeguata solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua disgregazione. » Assunta nel pensiero di Canetti come un dato permanente, questa disgregazione consente in ultima analisi due soli prodotti: da un lato gli individui alienati nel loro isolamento, dall'altro la massa, cioè un conglomerato forman-tesi per spinte irrazionali il cui segreto è posseduto soltanto dai depositari del potere. Individuo, massa e potere: sono questi i poli entro cui si giocano le allegorie narrative e le speculazioni intellettuali che Canetti verrà sviluppando nei decenni successivi; e precisamente nel senso che l'individuo offre piuttosto degli spunti per la prosa d'invenzione (ed avremo allora il vasto romanzo Auto da fé, su cui si fonda buona parte della fama di Canetti), mentre massa e potere, nei loro infiniti possibili condizionamenti, costituiscono il tema dominante di una prosa saggistica tendenzialmente disorganica, ma che Canetti ha voluto con grande sforzo coagulare nei due volumi che recano appunto il titolo di Masse und Macht, disponibili per il lettore italiano, anche questi, nella traduzione di Furio Jesi pubblicata da Rizzoli nel 1972. Un giudizio di sintesi su questa vasta opera è alquanto rischioso. Forse Canetti — come prima di lui Hermann Broch — con questa narrativa che è troppo saggistica e questa saggistica che è troppo narrativa ha impostato una scommessa che solo per il genio di Musil poteva concludersi del tutto felicemente. Non meraviglia perciò se il risultato di Canetti forse piú duraturo appare quel breve, meraviglioso libro, scritto en passant, che è Der andere Prozess VARIETÀ E DOCUMENTI 329 (`L'altro processo'), una ricostruzione del fallito fidanzamento di Franz Kafka con Felice Bauer. Qui il tema dell'individuo alienato, impossibilitato a costituire anche la piú immediata forma di associazione, ossia la famiglia, non è piú esemplificato su un personaggio stravagante e per certi aspetti scurrile ed improbabile come è il Dr. Kien di Auto da f é. Nell'Altro processo è la vita stessa, fissata in un epistolario pieno di grida e sospiri, a esemplificare quel tema tanto bruciante. E. sulla stessa linea andrebbe posta l'appassionata ricostruzione, che Canetti ci ha dato, di un altro rapporto personale complicato come l'epoca e l'ambiente che rispecchia: quello di Karl Kraus e Sidonie Nádhermy von Borutin. Farsi poetico cronista degli amori segreti di Kafka e Kraus; scrutare nei piú complicati ghirigori interiori il segno che svela autenticamente un'epoca, è questa forse la passione piú azzardata e fruttuosa di Elias Canetti. La provincia dell'uomo dà un'idea di quanto lo scrittore stesso sia consapevole del difficile equilibrio in cui ambisce tenere il proprio lavoro, sempre in bilico tra evocazione e giudizio. Il libro è infatti composto da spunti di pensiero appena abbozzati, da tesi esposte per il solo fatto che si sono presentate alla mente, da verità contraddittorie lasciate liberamente cozzare tra loro; e tutto ciò inframmezzato da amari smascheramenti alla Rochefoucault, da taglienti battute alla Kraus, il grande modello dei primi anni viennesi. Spigoliamo alcuni esempi: « Non fidarsi del dolore: si tratta sempre di un dolore proprio ». « Ognuno dovrebbe vedersi mentre mangia ». O anche: « Voglio morire — ella disse — e inghiotti dieci uomini ». « Porse l'altra guancia finché non vi depositarono sopra una decorazione ». Non mancano neppure opposizioni fulminanti alla Brecht; eccone una che ricorda l'Abbecedario di guerra: « Una schiera di donne incinte; dalla parte opposta vengono avanti camion, carri armati, pieni di soldati opportunamente equipaggiati. I carri sono passati; le donne, in mezzo alla strada, si mettono a cantare ». Del carattere composito e si vorrebbe dire revulsivo del libro Canetti non fa mistero né apologia, lo fa sussistere per quello che è, al massimo si giustifica indirettamente con precedenti illustri, ad esempio commentando cosi i dialoghi di Confucio: « È sorprendente quanto si possa dare in 500 annotazioni: e come uno appaia in tal modo intero, rotondo, afferrabile. Ma anche assolutamente inafferrabile ». GIUSEPPE BEVILACQUA UMBERTO CALOSSO E PIERO GOBETTI La prima raccolta di scritti gobettiani dopo la liberazione, e dopo un ostracismo durato circa vent'anni, apparve, col titolo Scritti attuali, presso l'editore Capriotti di Roma con la data 30 luglio 1945. Ne era curatore Umberto Calosso che vi premise una prefazione, importante per piú motivi. Anzitutto per * Testo riveduto e annotato di una comunicazione presentata al Convegno dedicato a Umberto Calosso, svoltosi ad Asti il 13-14 ottobre 1979.
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