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tipologia: Analitici; Id: 1464890


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Tipologia Periodico
Titolo Maurizio Cucchi, recensione su Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco, prefazione di Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1978, pp.120
Riferimento diretto ad opera
Il Galateo in Bosco / Andrea Zanzotto, prefazione di Gianfranco Contini+++   recensione+++   
Responsabilità
Cucchi, Maurizio+++
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
ANDREA ZANZOTTO, Il Galateo in Bosco, prefazione di Gianfranco Contini, Milano, Mon-dadori, 1978, pp. 120.
Il Bosco, del quale ci parla in mille modi Andrea Zanzotto nel suo nuovo libro, è, come egli stesso ha precisato in una nota, soprattutto il colle del Montello, dove Giovanni della Casa compose il suo Galateo: « là si elaborarono, nella Certosa, nell'Abbazia — la prima del tutto scomparsa, l'altra ridotta a rovine — rime e rime, versi italiani e latini »; nondimeno, aggiunge sempre Zanzotto in nota, « nel suo territorio si svolsero le battaglie che portarono alla vittoria italiana contro l'Austria-Ungheria nel 1918 ». Infine, dalle lontananze del passato alla fisionomia allucinata, ai tratti irregolari, sghembi, di un presente che pure non ha soffocato la suggestione e l'incanto del luogo: « Restano oggi, di quel luogo unico, lacerti di zone selvose, ville per weeken-disti, appoderamenti agricoli — eppure c'è sempre qualcosa della Grande Selva, della sua bellezza e vigoria che aleggia come un rimorso, un ricordo, in un terreno vago ».
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Luogo, dunque, di eleganti esercizi letterari e raffinati giochi poetici; luogo, anche, di spaventoso massacro, di orrendo macello. Luogo reale e immaginario, luogo metaforico, luogo magico di questo Galateo in Bosco, che si organizza e si sviluppa, quasi naturalmente cresce, come vero e proprio organismo, unitario libro ma che nulla ha in sé di meccanico o aridamente strutturale.
Non già raccolta di versi, dunque, ma libro; e non nel senso sempre un po' pretestuoso che la parola assume in casi analoghi, quando cioè occorre descrivere, definire, cogliere nel suo carattere un volume di versi. Libro perché come tale parrebbe concepito, secondo una precisa visione d'assieme che controlla ogni testo, cui ogni testo, ogni capitolo dimostra di porsi in relazione diretta. Lo si nota già dalle primissime pagine, dalla necessità che ogni poesia impone di passare alla seguente come a un suo preciso sviluppo. Nella sezione Cliché già troviamo le Bandiere e le Battaglie lontane, ci si imbatte nella « zona degli ossari », che il poeta ci invita a perlustrare con aiuto di cartina. Ci troviamo, insomma, già nel pieno della trama: « guidateci ai santi ossari / dove in cassettini minuscoli / han ricetto le schegge dei giovinetti fatti fuori ». Ed è una trama che subito c'insegna come il passato, dunque, sia vivo e... sepolto. Presente, cioè, nei suoi segnali e aggrovigliato nell'intrico del bosco e della terra, in questa specie di « selva Incantata/della Gerusalemme Liberata ». Nel Cliché compaiono, quasi in apertura, frammenti di una strofa poetica dialettale in tipografici caratteri (in cliché, appunto) di un passato remoto; caratteri sui quali ancora il libro chiuderà se stesso, messaggio da un presente paradossalmente senza tempo, riguadagnando l'apparente immutabilità del passato sul quale l'intero testo del Galateo sembra crescere fino a confondervisi.
Il Galateo in Bosco è libro da leggere e perlustrare come un mirabile intrico boschivo. Come scegliere, allora, la via piú idonea, quella che meglio ci possa avvicinare a una conoscenza esatta e dettagliata dei luoghi, dei loro misteri, della varietà prodigiosa e imprevedibile delle loro forme? Certo, l'indicazione essenziale — la pista principale, il sentiero privilegiato — è fornita dallo stesso Zanzotto ed è quella piú elementare dell'ordinata successione dei testi, dei capitoli; dell'inoltrarsi quindi nel vivo, verso un'idea, un'immagine d'assieme, leggendo dall'inizio alla fine, percorrendo la linea già tracciata. Ma il bosco cattura, nelle sfumature infinite della sua oscurità, negli improvvisi chiarori, nell'accavallarsi dei suoi mille motivi, nella legge che lo governa; crea trappole, richiami, ambiguità, illusioni, paure fulminee; chiede segretezza, complicità... Attrae, crea nuove occasioni d'incontro, svelandosi ogni volta soltanto in parte. Non potrà dunque dirsene autentico, profondo conoscitore chi non lo avrà piú a lungo frequentato, auscultato, spiato nei dettagli, nelle microstrutture che lo reggono — nel suo continuo rinascere e mimetizzarsi ed essere nondimeno sempre se stesso — appagandosi ogni volta di una piccola scoperta, di una nuova realtà rivelata. Occorrerà talvolta sollevare una foglia, osservarne piú da vicino e con pazienza i movimenti minimi, le minuscole tracce affioranti di un passato, di infinite passate vicende da cui l'insieme, il bosco, ha tratto alimento...
Il pullulare, lo zampettare di insinuanti presenze, vive e multiple... Precise costanti del lavoro di Zanzotto; il quale, nel Galateo, compie una sintesi al piú alto livello delle proprie precedenti esperienze, trovando nel contempo risorse inedite, energie intatte verso soluzioni ulteriori, verso una nuova felicissima maturità. La Beltà (1968) aveva costituito come un confine, un punto oltre il quale sembrava difficile proseguire, esporsi. Momento di totale, vertiginosa apertura, luogo d'azione di una lingua del tutto autonoma, esercizio radicale e rischiosissimo, fu seguito, in Pasque (1973), dall'opportunità di una nuova operazione di conferma e approfondimento, con inserzioni
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talvolta autenticamente geniali, mentre in Filò (1976), Zanzotto sembrò aver riacqui-sito, con l'uso del dialetto, la possibilità non senza attrito di giungere o tornare a un tono piú disteso, sciolto, «normalizzato ». Il pericolo, comunque, dopo l'apertura della Beltà, poteva dunque venire, per paradosso, da un chiudersi degli orizzonti, dal crearsi di un improvviso incaglio. Ma Zanzotto ha saputo andare oltre: anche per questo Il Galateo in Bosco è un libro di grande vitalità, un risultato di straordinaria efficacia e importanza. Qui tutto viene per cosí dire ripensato, rimesso in gioco, senza mai cadere nel fatale errore di chiudere, di raggelare e definire dando esiti precedenti per scontati. Ancora una volta esemplare è il controllo- che Zanzotto dimostra di saper esercitare sui piú diversi materiali (linguistici, stilistici, tematici), convogliandoli, sbriciolandoli o facendoli affiorare nel flusso del discorso; scavando quasi con le mani nella terra formicolante del suo bosco.
« Poeta ctonio », quindi strettamente legato alle profondità sotterranee, dice opportunamente nell'introduzione Gianfranco Contini. E anche definisce Zanzotto « difficile e pur tanto affabile poeta ». Sulla realtà o sulla favola, sul luogo comune, forse, di quell'essere « difficile », ostico alla lettura di Zanzotto, questo stesso libro offre possibilità di chiarimento, di dissoluzione degli equivoci a mio parere decisivi, sciogliendo tra l'altro in modo netto il nodo-pretesto di un inesistente legame di parentela o affinità con le neo-avanguardie. Se poeta « difficile » è Zanzotto, non lo è già per il carattere particolarissimo della « sua » lingua poetica, quanto per l'accumularsi frenetico di strati, nella varietà di senso che ogni suo testo propone, esige, non potendo evitarsi il confronto con la complessità del reale, evitando la « facilità » o la fasulla chiarezza di ogni semplificazione, di ogni riduzione del reale a formula, a schema. Ma in tutto ciò, in fondo, non è altro che un'accentuazione, subito ravvisabile dall'esterno, di caratteri propri ad ogni lingua poetica.
Ma « affabile », anche, dice Contini. E infatti, tra gli aspetti piú sorprendenti di questo nuovo Zanzotto, è proprio una improvvisa nozione di immediatezza (ad ulteriore sviluppo del discorso sulla sua presunta oscurità), la parziale assenza di ogni « artificio », di « costruzione », di virtuosistica abilità che la presenza netta degli argomenti, la « prosa » di frequenti passaggi, la loro disarmante lontananza da ogni forma di equivoco ammiccamento presentano. In questi casi, Zanzotto sembra (ancora) sbriciolare ogni schema, ridurre in poltiglia ogni decadente compiaciuto alibi formale, pervenendo anche a una inedita, efficacissima concezione della metrica. Gli esempi non mancano e costituiscono spesso notevoli segnali di perlustrazione e di lettura all'interno del libro-bosco. In (Indizi di guerra civile): « Tra le stelle non mi smarrirò »; e poi: « Ma tra le stelle non mi smarrirò, mio vecchio dolciume ». Dichiarazione esplicita (pur con tutto l'implicito, invece, senso di ironia che in Zanzotto è sempre diffuso, in guardia assai vigile) che riconduce alle spalle, per cosí dire, di questo « bosco », di questa nuova esperienza di Zanzotto, verso, cioè, la « tentazione » consolazione dell'elegia, l'ambita frequentazione del sublime, rispetto al quale Zanzotto precisa qui volutamente maldestro: « Opporrò uno stato precario, appoggiato io, peggio che luna, al cancello ». Indizio ragguardevole del tutto farsi, essere, decomporsi, riassorbirsi, incessante tornare su se stesso, allontanarsene.
Ulteriore efficacissimo indizio, nell'ultima poesia della sezione, prima dell'I per-sonetto, la Norma, che riappare esplicita (o tutt'al piú camuffata da belliniana Casta diva): « e Norma ovunque se ne sveni in capillari dolori ». Come non ricordare la conclusione della Beltà, la poesia Alla madre norma, dove Zanzotto chiariva: « straccio le carte / scritte, le reti di ogni arte, lingua o linguistica: torno / senza arte né parte: ma attivante. / E torna, per questo fare, la norma ». La norma e piú avanti, esplici-
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tamente, il « codice ». Il codice del bosco, il codice poetico, il codice fatto saltare, esplodere, irriso, disgregato nella piú assoluta libertà formale, nella scomposizione insistita,
minuziosa, quasi maniacale dei suoi elementi, in uno straordinario campo aperto, fino all'insufficienza, al dilatarsi progressivo della pagina, dove tutto poteva in qualche modo esserci o succedere, dare notizia di sé, mostrarsi quasi tangibilmente.
Polo dialettico, nucleo centrale del Galateo in Bosco, impareggiabile fantasma, forma chiusa ideale, ricchissima gabbia, ricomparsa beffarda del codice, dell'istituzione è il
sonetto. E Zanzotto si cimenta nel sonetto con eccezionale energia, con vivacissima voce, con una dimestichezza che sembra rendere quasi spontaneo, naturale, inevitabile, l'insolito ritorno a questa classica forma metrica. Quattordici i versi del sonetto, quattordici i sonetti dell'Ipersonetto, piú una premessa e una postilla. Composizione organica attorno a cui ruota il libro, momenti di sapienti, divertiti esercizi, pieno recupero ironico eppure agile e convinto di un lontano modello letterario. E tornando alle indicazioni, ai segnali, alla presenza netta degli argomenti, dei significati e alla loro precisa forza, la Premessa dell'Ipersonetto può apparire pressoché come tardiva premessa o cuore dell'intero libro: « Galatei, sparsi enunciati, dulcedini / di giusto a voi, fronde e ombre, egregio codice / Codice di cui pregno o bosco godi / e abbondi e incombi, in nascite e putredini ». Questa la prima quartina, dove compare l'« egregio codice » del bosco, il suo proteggere, coprire, oscurare (« Perché cresca l'oscuro / perché sia giusto l'oscuro », diceva un componimento precedente), improvvisamente manifesto, il ribollire (« bollori d'ingredienti », dirà piú avanti nella stessa Premessa) di varie, infinite presenze, catene di mobili elementi, sbocciare, fiorire, vivere, decomporsi, essere nuovo alimento, nuova nascita. Il bosco è un « reticolo » esplorabile « per inciampi stretture varchi guadi », dove è talvolta possibile prevedere ciò che si rivelerà al tatto o alla vista, « sottopalmo o sottofelce », « fin del folto nei piú riposti nidi ».
L'ultima sezione del libro si apre con una poesía dialettale. $ nota l'importanza del dialetto, del ritorno al dialetto come lingua madre, come possibilità di gratificante, confortante immergersi ancora piú compiutamente dentro il paesaggio (ricordiamo che il primo libro di Zanzotto si intitolava appunto Dietro il paesaggio), dentro le proprie origini, nel corpo accogliente della lingua materna, della madre, della « sua piccola patria o matria », come dice Contini, lontano dagli orrori e dai barlumi metallici del presente industriale. Ma questa poesia dialettale (E pò, muci; « E poi, silenzio! ») stupisce per l'estrema violenza espressiva, per la crudezza che subito esibisce e che può considerarsi un tratto sconosciuto, inedito in Zanzotto: « Schegazhèr, pissazhèr, / sgnaca via tòla e carte / sgnàcheghe '1 bosch del mondo sassin / e sassinà » (« Cacone, piscione, / butta via tavolo e carte / rifila il bosco del mondo assassino / e assassinato »).
Piú avanti compare, figura circolante e fuggitiva tipica dell'intera opera di Zan-zotto, Diana. Figura centrale, nondimeno; eppure imprendibile, vaga, stravagante, anche nel Bosco, nella selva, nel suo luogo prediletto d'escursioni, luce di luna nell'oscuro dell'intrico boschivo. Ma qui, le Anguane e le Diane sono «deventade/scarampane», il loro fascino è perduto, la loro immagine corrotta, regredita (o forse consapevolmente abbassata a livelli realistici). In questo angolo del Bosco ecco la sconcia, oscena, sordida partecipazione del poeta, chiamato da par suo a concimare « i lóghia dei bisset e dei bacteria », (« i discorsini degli insetti e dei batteri »), aggiungendo il suo concime « a gràpole, marogne, sgiaùzhe / e al scribaciar de tute le fondezhe » (« a gromme, residui di combustione, minuti trucioli / e allo scribacchiare di tutte le profondità »). Zan-zotto passa dunque dall'illustre, codificata come tale, lievità e leggiadria del sonetto, al pieno corpo di questo dialetto (cosí diverso da quello elegante e artificioso, filologico, di certa poesia dialettale contemporanea) che sembra parlare per virtú propria, trascinare
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il poeta alla parola quasi a forza, mosso peraltro da una fortissima carica umorale. Passa, insomma, come non mai, dall'abietto al sublime, per parafrasare ancora la già citata poesia della Beltà (Alla madre norma); dopo aver usato ogni materiale, dopo aver perlustrato ogni ambito, attraverso gli estremi limiti di tono e stile. E soprattutto il discorso ancora una volta si lega, prosegue imprevedibile eppure conseguente, offre un magico, irresistibile gioco di rispecchiamenti interni e di richiami; si sviluppa, si sforma, prende strade improvvise, per sovrapposizione di spunti tematici, ora accennati ora incontenibili, dilaganti; libro che risulta, quindi, assai ricco, molteplice; eppure corn-piutissimo insieme, articolato e godibilissimo percorso, magistrale architettura.
MAURIZIO CUCCHI
QUATTORDICESIMO PREMIO NAZIONALE « LUIGI Russo » A PIETRASANTA. - Per studiosi di cittadinanza italiana (accludere certificato di cittadinanza in carta libera), con uno o piú saggi storico-critici di letteratura italiana pubblicati dal gennaio 1979 oppure inediti. I saggi dovranno pervenire in plico raccomandato alla segreteria del premio presso il comune di Pietrasanta (Lucca), entro il 20 maggio 1980 in otto esemplari di cui almeno tre a stampa; le stesse norme si applicano anche agli inediti, che dovranno pervenire in otto esemplari, dattiloscritti, chiaramente leggibili, oppure in copia. Tutti gli esemplari dovranno recare la firma e l'indirizzo dell'autore. Non saranno ammessi saggi già premiati in altri concorsi. Per il concorso, complementare a quello di poesia intitolato a Giosuè Carducci, è stabilito un premio indivisibile di un milione di lire.
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31350+++
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Area unica
Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 3 Giorno: 31
Numero 2
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - marzo - 31 - numero 2


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