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tipologia: Analitici; Id: 1464884


Area del titolo e responsabilità
Tipologia da controllare
Titolo Giorgio Valgimigli, Concetto Marchesi, amico di casa Valgimigli
Responsabilità
Valgimigli, Giorgio+++
  autore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Marchesi, Concetto+++   Titolo:oggetto+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
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A Memory of the Players in a Mirror at Midnight, dicono: « Dire hunger hold his hour. / Pluck forth your heart, saltblood, a fruit of tears. / Pluck and devour! » (Orrida fame ha la sua ora. / Stràppati il cuore, sangue salato, frutto di lacrime. / Stràppa e divora!). La poesia di Ungaretti:
E' ora famelica, l'ora tua, matto. Lo fanno, tanti pianti,
Strappati il cuore. Sempre di piú saporito, il tuo cuore.
Sa il suo sangue di sale Frutto di tanti pianti, quel tuo cuore,
E sa d'agro, è dolciastro, essendo sangue. Strappatelo, mangiatelo, saziati.
ARIODANTE MARIANNI
CONCETTO MARCHESI, AMICO DI CASA VALGIMIGLI
Limitare il discorso all'aneddoto? Mi sembrerebbe di diminuire una figura come quella. Ma di Concetto Marchesi maestro di scuola, studioso, scrittore, politico, altri, ben altri, hanno parlato e scritto. Sarà dunque necessario, in occasione di una conversazione come questa qui a Messina, collegare ricordi minimi a fatti grandi, senza aver la pretesa di far storia ma di parlare semplicemente dell'affetto che ci ha legato per tanti anni e che non è mai venuto meno.
Entro, ogni giorno e piú volte al giorno, nel mio studio, e all'altezza dell'occhio trovo il suo sorriso. Non c'è dedica nella fotografia, ma pare che Marchesi non abbia mai fatto dediche. Guardandolo penso alle parole di Renato Guttuso: « Era cosí malinconico e fiero. Un patriarca siciliano nelle cui vene pulsava il sangue del presente ». Belle e vere parole. Ma Marchesi era anche un allegro compagno di stramberie e di giocosità.
La sua conoscenza con mio padre risale, se non sbaglio, al 1914, ma solo qualche anno dopo avvenne l'incontro, il tu fraterno, l'amicizia, quella che gli faceva dire: « ... la nostra amicizia è una cosa bella » (L. 22-8-23), « ... ma è pure per me tanto grande la gioia di sentire che ci vogliamo bene noi due, cosí, nel fondo dell'anima nostra » (L. novembre '27); quella che lo faceva soffrire con lui la perdita della Erse (L. 2-4-42); quella che non fini con la sua morte per restare nel cuore del babbo ed anche nel mio.
Amicizia e consuetudine familiare. Marchesi era spesso alla nostra tavola
e lodava l'arrosto della signora Emilia (mia madre). I suoi gusti erano ben noti
e non mancava mai, se c'era lui, il piatto di barbe amare, che egli mangiava senza condimento, e quello del formaggio. Uno dei ricordi piú allegri che io ho di Marchesi commensale è quello legato alle pillole. Egli aveva, come tutti noi abbiamo, qualche mania ed una di queste era rappresentata da certe pillole lassative che si chiamavano di Maldifassi e che erano contenute in un tubetto di cartone immerse in una bianca polvere inerte. (Piú tardi, cessata la produzione
o comunque non piú trovate, furono sostituite da quelle che gli preparava la farmacia al Duomo di Padova, che non gliele faceva mai mancare neppure a
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Montecitorio.) Verso la fine del pranzo, con movimenti che egli avrebbe voluto passassero inosservati, prendeva le pillole e, regolarmente, si spargeva sull'abito un po' di polvere bianca. Dopo qualche momento, distratto dalla conversazione, non ricordando o fingendo di non ricordare, si rivolgeva alla Erse e, in siciliano, le chiedeva « Erse, 'e pigghiai 'e pinnule? ». Ed Erse ridendo gli indicava l'abito sporco della bianca polvere.
Il suo rapporto con la Erse fu sempre particolarmente affettuoso. Erse era venuta piccolissima a Messina e qui, tra le baracche, aveva mosso i primi passi e dette le prime parole. Non ricordava, parlando, il dialetto messinese ma lo capiva ed era dunque un gioco frequente che Marchesi si rivolgesse a lei con qualche espressione dialettale. Una in particolare ricordo: sembra che la Erse piccola avesse visto davanti alla baracca un asino fare i suoi liquidi bisogni e l'avesse annunciato con entusiasmo alla mamma: « mira mira a pisciazza du sceccu ». E Marchesi si divertiva molto e se lo `faceva raccontare. Era la sua « picciridda » e nelle lettere di Marchesi alla nostra casa (alcune si saranno purtroppo perdute come tutte quelle del babbo a Marchesi) e che Iginio De Luca pubblicherà e di cui ha dato un saggio anticipatore a Vilminore, ben 95 (208 al babbo, 13 a me, 2 alla mamma) sono indirizzate a lei. Mia sorella fu a lungo ammalata e costretta a frequenti soggiorni in montagna: Concetto Marchesi le scriveva, spesso dandole buffonesche notizie di colleghi ed amici, per rincuorarla e « farla stare allegra ». Se i silenzi diventavano lunghi ecco uno dei due chiedere all'altro perché fosse « sciamato ». In una delle lettere (L. 27-7-29) racconta la sua avventura alpinistica. Marchesi era, direi, uomo di mare, ma la sua consuetudine con noi e con altri amici lo portò a frequentare le montagne, prima quelle della Garfagnana e poi le Dolomiti. Già in età matura (nel '29 aveva superato i 50) si mise in capo di far roccia ed effettivamente gli occorse un brutto incidente scalando la Croda Rossa. Il babbo, gran camminatore ma non rocciatore, ne fu molto impressionato e non lesinò quella volta critiche e rimproveri all'amico.
Di Marchesi compagno di gite, di passeggiate, ne ha fatto un ritratto gustosissimo mio padre ne « La strada la bisaccia e la pipa » nel Mantello di Cebète.
Sono stati espressi sul carattere di Marchesi giudizi contrastanti. Ma l'aspetto esterno era sempre, nei desinari di casa nostra e nelle nostre gite in montagna, allegro. E tuttavia si avvertiva piú che lo scetticismo il dubbio di cui tante sue pagine sono permeate. Parla di Togliatti uomo di cultura, e di sé dice: « ... han fatto di me per tanti anni dalla cattedra universitaria piú un seminatore di dubbi che un annunziatore di verità... » (SP, p. 337).
Scatti di impazienza e di malumore certamente ne ha avuti, e molti ce li riferisce Ezio Franceschini in quel suo recente volume che avrò spesso occasione di citare e che è, pur con qualche inevitabile inesattezza ed interpretazione soggettiva, un documento fondamentale per la storia e la conoscenza di Marchesi. C'è l'episodio Anti, per esempio, che mi ha colpito profondamente: Anti era stato Rettore dell'Università di Padova dal '32 al '43. Durante il suo rettorato numerose furono le prove non diciamo di tolleranza ma di difesa, di amicizia, nei confronti dei colleghi di fede politica diversa dalla sua (ed anche dei discri-
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minati per ragioni razziali) e l'amicizia era affettuosamente ricambiata. Il 7 novembre del '43 — si ponga attenzione alla data: due giorni prima della famosa inaugurazione dell'anno accademico sotto i fascisti e i tedeschi — scrive a Marchesi un biglietto di saluto. Marchesi straccia, d'impulso, la lettera, poi, subito pentito, scrive un biglietto affettuosissimo di ringraziamento (CM, p. 63).
Nel periodo della resistenza egli chiedeva sempre notizie di mio padre (CM, p. 209) come di altri amici, altrettanto posso io testimoniare della quotidiana preoccupazione del babbo per lui.
Non ho saputo se essi abbiano mai parlato di quel periodo: i noti movimenti di Marchesi, il mese di carcere bellunese di mio padre e la sua lunga permanenza a Cremona nella casa dei genitori di mia moglie, dove eravamo ammucchiati e babbo divideva la camera con lo zio di mia moglie, comunista, sfuggito a una condanna a trent'anni inflittagli dal Tribunale speciale. Esistenza curiosa (la nostra casa era a fianco di quella di Farinacci) in quel periodo, e mi dispiace che babbo non ne abbia mai scritto (c'è solo quel breve delizioso racconto Minniti: Il mantello, p. 119). Certamente ne hanno parlato e, ne son testimonio, Marchesi parlò con il babbo del famoso episodio Gentile (CM, pp. 110-112). Non fu certo un buon servizio reso al compagno di partito, ed amico, quello di chi (Li Causi, secondo Franceschini) fece apparire Marchesi come l'istigatore della morte di Gentile: per quanto intransigente egli potesse essere in politica, quella condanna non poteva essere espressione del suo animo generoso, nel ricordo di una amicizia antica.
Per la sua intransigenza politica ricordiamo come unico esempio la sua celebre frase su Stalin dopo il xx congresso del Pcus : « Tiberio, uno dei piú grandi ed infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov » (SP, p. 96).
Egli esaltava la libertà di opinione, non aveva la pretesa che il proprio pensiero avesse a soverchiare il pensiero degli altri. La sua amicizia per Novello Papafava, cattolico liberale, è ben nota, e Amendola ne dà testimonianza nel suo Lettere a Milano quando racconta il suo primo contatto con Marchesi. In quel libro si legge anche del rimprovero fatto dal Partito a Marchesi per essere rimasto Rettore dell'Università dopo l'8 settembre. Strano rimprovero. Chi ha vissuto vicino a lui sa di che altezza morale, di che comune esaltazione (anche non consona, certamente, al momento cospirativo, come ci accorgemmo tutti piú tardi) quei giorni siano stati. Inutile qui ripetere le parole dette inaugurando « in nome di questa Italia dei lavoratori degli artisti degli scienziati » il 722° anno accademico. Inutile dire l'entusiasmo, la fredda determinazione di tutti noi presenti quando egli fisicamente allontanò le camicie nere armate che volevano presidiare l'Aula Magna. Rivedo con commozione la fotografia di quello storico e tumultuoso momento, il volto duro di mio padre alle spalle di Marchesi. Inutile dire l'effetto che fece il suo appello agli studenti del dicembre '43. Son tutti fatti e documenti ben noti, ma non dispiacerà la testimonianza commossa di chi a quei fatti assistette.
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Amava dire, e talvolta era la franca risata, « ... coltivare il sorriso... » (SP, p. 101). E mio padre: « ... diffida degli uomini che non ridono... ». Le risate piú belle erano allo scopone. Marchesi stesso ne parla nel Il libro di Tersite ma la descrizione che ne fa il babbo, « Giochi e giostre del settebello », in Carducci
allegro (p. 247) è quanto mai efficace (poche pagine dopo c'è un giudizio su di me: « Al mio figliolo io, come padre dabbene, qualche cosa ho cercato di insegnare; ma, almeno da me, questa sola ha imparato, a giocare a scopone »: non ho ancora deciso, dopo tanti anni, se andare, o no, orgoglioso di questo giudizio).
Ecco, in questo come in ogni altra cosa, Marchesi aveva « bisogno di levarsi il pensiero » come lui stesso diceva. Di qui le sue impazienze che non si manifestavano come quelle di Pasquali saltellante di parola e di piede, ma in fughe improvvise, in sudori, in rossori, o in amene lettere alle Monache di San Massimo per il loro cane uggiolante (ce ne parla Franceschini, CM, p. 88, e sembrano purtroppo andate perdute: Marchesi non amava i cani, faceva, forse, paziente eccezione per la Nannò di mio padre) o nell'improvvisa, e costosa!,
decisione di insonorizzare il soffitto della sua casa romana per la paura di essere disturbato dai numerosi figli del suo soprano (per usare un'espressione cara a Pasquali), vale a dire il sovrastante condomino on.le Riccio. I sospettati bambini
erano invece già grandi: l'ultimo, quattordicenne, sembra abbia poi avuto in Marchesi un eccezionale ripetitore di latino [« L'informazione parlamentare »,
23 dicembre 1955].
Ricordare Marchesi a Messina senza far cenno a Camagna, Enrico Maria Camagna, professore di francese all'Università in quei primi anni '20, non sarebbe possibile. Caro Camagna! Dice di lui Marchesi alla Erse (L. 2-9-39): « assicura Enrico Camagna, il mio Camagneddu, che l'ho sempre nella memoria e nel cuore e ricordo ogni angolo di quella baracca messinese che conobbe la
nostra indimenticabile convivenza ». Di un affetto, di una amicizia devota a Marchesi e a mio padre che poche volte credo si possa riscontrare. C'è una bellissima fotografia dei tre sul cui retro è scritta una strofa, attribuita, dall'ignoto trascrittore, a Concetto Marchesi. Ho ritrovato una cartolina di P. E. Lamanna
a mia madre (25-11-23) con la stesura completa della poesia e questo mi fa dubitare che l'attribuzione a Marchesi sia esatta. Dice la poesia:
C'è a Galati una casa diruta / dov'a notte il cuculo si lagna / dove un giorno fioriva a Camagna / un cespuglio di rose nel cuor! — dove il di 25 novembre / son venuti Manara e Lamanna; / ma crediamo (se il cuor non c'inganna) / non doverci tornare mai piú. — Ambedue sulle rive dell'Arno / abbiam posto i modesti penati: / a Gentile saremo assai grati / se sull'Arno ci vuol mandar. — Vero è ben che, se il greco non mente, / « spiaggia bella » risuona Galati (a): / ma le case, le spose ed i nati / « spiaggia bella » ci fanno obliar. — Dalla terra fiorita d'aranci / voli dunque a Fiorenza ed a Pisa / voli in duplice foglio divisa / la parola che mai non menti.
E. PAOLO LAMANNA
(a) Kali. akté
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Io non fui a Messina negli anni '21-22 e Camagna lo conobbi a Coreglia dove raggiungeva gli amici. Coreglia Antelminelli, un paese della Garfagnana in splendida posizione dove per molti anni (press'a poco dal '15 al '26) si raccoglieva d'estate una compagnia di uomini quali Marchesi, mio padre, Guido De Ruggiero, Lamanna, Carrà, Mancini, Calò e tanti altri. Marchesi alloggiava in una modesta pensione al « Piantaio » che è la piazza bassa del paese, dalla Leontina. Ha scritto una pagina presso che ignota dal titolo, appunto, « Leontina » [numero unico 1° premio di poesia « Coreglia », Coreglia Antelminelli, 25 agosto 1956]. Ho visto la Leontina fino ad un paio di anni fa quando anche lei mori: mi raccontava tante cose su Marchesi, con affetto (« servire quell'uomo è come servire sul velluto ») e, tra l'altro, la ragione sconosciuta per cui Marchesi non volle, secondo lei, tornare piú a Coreglia. Passava un drappello di camicie nere sulla piazza bassa, il Piantaio, e pretendeva che i presenti (Marchesi, il babbo, De Ruggiero, non so se altri) salutassero romanamente: al loro rifiuto uno d'essi scagliò loro addosso una zolla di terra colpendo Marchesi. Ma che Marchesi non sia piú tornato a Coreglia non direi: in una lettera alla Erse (L. 9-9-31) dice: « ... il 16 sarò a Coreglia da Leontina che mi prepara la camera della signorina Erse... ». Per il gatto Mammy di Leontina scrisse questo gustosissimo epitaffio: « Montana ab origine extortus / felinae gentis facile princeps / Mamurius Catus / Leontinae dominae in deliciis fuit / sa-pientia formaque praecellens. / Diu iacuit qui sempre iacebit / hoc tantum bestia potest » (CM, p. 68). Esiste un gruppo, non so di che consistenza, di lettere di Marchesi a Leontina, ma non siamo mai, né io né gli amici coreglini, riusciti a farcele dare o anche solo mostrare.
Estate 1939: conosciamo le preoccupazioni di tutti ed è facile immaginare quelle piú vive della Erse per me. E Marchesi la tranquillizza. Ma in quell'estate c'era anche — nonostante tutto — allegria nella nostra casa di Castelrotto. Camagna era venuto con Enrico Fulchignoni e gli scherzi organizzati dal piú giovane Enrico ai danni di Camagna erano spassosi.
Qui a Messina, come è noto, Marchesi si laureò anche in legge. Non voglio ricordare episodi già noti, ma riferire la testimonianza di Antonio Cazzaniga, che negli ultimi anni della sua vita trascorreva l'estate con noi a Vilminore. Nelle sue lente passeggiate con il babbo, quelle passeggiate dei vecchi che si interrompono ogni tre passi, Cazzaniga ricordava tutto di Messina. E sembrava fosse stato (e forse era veramente stato) l'anno piú bello della loro vita. « ... il Barbi, ti ricordi il Barbi?... e Marchesi? quella volta che lo accompagnaste tutti a fare l'esame di medicina legale e parlammo di Tacito e di Seneca e fini che gli diedi la lode... ».
Luigi Russo in un Ricordo di Concetto Marchesi (« l'Unità » 15-2-57) parla dell'amicizia fra Marchesi e il sor Attilio, oste in Trastevere. Ed io potrei ricordare il sor Gino, oste toscano a Padova, dove per anni Marchesi prese i pasti quotidiani e dove molte volte con il babbo o anche da solo io fui attento commensale davanti al fiasco di ottimo Chianti. E potrei ricordare il suo tratto con la gente semplice, lo stradino, il portiere, il bidello del Liviano, Attilio Agostini che tanta parte ebbe nel periodo del rettorato tenuto sotto il tallone tedesco.
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E ancora potrei raccontare una fredda e nevosa giornata del febbraio '48 nella quale, raggiunto a Cremona dalla notizia di una grave malattia di Marchesi (un flemmone del collo, d'origine sconosciuta) mi precipitai a Padova per vederlo ed essere vicino a mio padre (il babbo aveva bisogno dell'amico medico in casi come questi e cosí è stato in altre occasioni) e trovai Marchesi disteso nel letto d'ospedale, con il collo avvolto da bende da cui uscivano tubicini di drenaggio, ma con l'occhio vigile e affettuosamente grato della mia visita. Fu un momento assai brutto e non solo il mio occhio di relativamente giovane chirurgo lo vide tale.
Delle poche lettere personali ho poco da dire. Il 23 gennaio del '48, poco prima della malattia mi scriveva: « ... E ne son passati degli anni: lunghi e pesanti che hanno spezzato in due la nostra vita. Ma se l'amicizia di coloro che ci furono e ci sono diletti, ci conserva ancora il sorriso e l'affetto di una volta, abbiamo conservato il meglio delle nostre esistenze..: ». Gli diedi notizia della mia nuova posizione ospedaliera, mi rispose: « ... penso che costà, presso le sorgenti ristoratrici dei grossi mediatori lombardi (ero diventato primario chirurgo dell'ospedale di Darfo Boario Terme) possa esserci anche qualche sperduta locanda
o osteria dove io abbia modo di trascorrere una settimana di riposo. E la tua vicinanza, naturalmente, sarebbe il richiamo piú valido... » (26-3-51).
Degli ultimi anni non trovo lettere. Perdute per sempre? nascostesi, come malignamente talvolta accade, in uno dei tanti traslochi del mio studio? Non so. Ma intanto anche Marchesi se ne è andato.
Come? Le ipotesi avanzate dal Franceschini sulla probabile o possibile conversione dell'ultima ora ad un rituale cattolico, sono, come tutte le ipotesi, piú
o meno condividibili ma pur sempre rispettabili. E se cosí fosse nulla comunque sarebbe tolto o aggiunto ad un uomo di cosí elevata statura morale ed intellettuale. È certo che le molte cose da lui dette e scritte sul cristianesimo da non confondere con il cattolicesimo possono far pensare ad un Marchesi mistico. Ricordiamo i suoi soggiorni, « laico ed inquieto eremita » (CM, p. 22) nell'eremo camaldolese di Rua dove egli ha « compreso che si possa trascorrere tutta una vita » (Tersite, p. 293). Ma tutto questo non modifica, a mio parere, parole come queste: « ... noi vogliamo rispettare tutte le fedi e riteniamo che l'uomo possa compiere nobilmente e felicemente la funzione della vita anche senza sperare nel premio grande dei cieli ... » (Pagine all'ombra, Padova, Zanocco, 1946) (le parole sono datate da un articolo su « Rinascita » dell'aprile '45). E trovo che esse sono quasi identiche a quelle che mio padre pronunciò qualche anno dopo, 1956, commemorando Giosuè Carducci cinquant'anni dopo la morte: « perché certo meritano il massimo rispetto e somma reverenza e devoto amore coloro che vivono coerentemente sostenuti da un pensiero di fede; ma anche meritano rispetto coloro che fanno e proseguono il bene senza speranza di averne compenso; e il male non fanno non per paura di averne punizione e pena, ma solo per questo umile affetto dello stare insieme, solo per questo sentimento fraterno di compagnia, compagni di questa strada che dobbiamo percorrere e vogliamo percorrere l'uno accanto all'altro tendendoci fraternamente la soccorrevole mano ».
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Il confronto di questi due uomini non si chiude qui: essi se ne sono andati essendo e vivendo fino all'ultimo con la loro vita: il babbo su una pagina di Omero, Marchesi su una pagina di Virgilio.
Nell'ultima lettera scritta al babbo (L. 10-1-57) scriveva « caro Manara, qua siamo: o meglio 'Ca semo': motto consueto agli anziani di Sicilia per attestare con mirabile semplicità la loro presenza alla vita ». E questo « ca semo » si fonde, per me, con l'ultima parola raccolta: oichomai, me ne vado.
GIORGIO VALGIMIGLI
Nel corso di questa conversazione messinese del dicembre '78 mi riferivo a: IGINIO DE LUCA, Corrispondenza Marchesi-Valgimigli, in Atti del Convegno di studi a cura del Circolo culturale Carlo Cattaneo, Vilminore di Scalve 22-23 maggio 1976, in corso di pubblicazione presso Scheiwiller, Milano (le lettere citate con la data preceduta dalla lettera L si trovano nel testo integrale in questa pubblicazione); CONCETTO MARCHESI, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, 1958 (abbreviazione SP); Ezio FRANCESCHINI, Concetto Marchesi, Padova, An-tenore, 1978 (abbreviazione CM); C. MARCHESI, Il libro di Tersite, Milano, Mondadori, 1950 (abbreviazione Tersite); MANARA VALGIMIGLI, Giosuè Carducci cinquant'anni dopo la morte, « Atti Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti », 1955-56, tomo cxiv, pp. 195-198.
 
Trascrizione secondaria non visualizzabile dall'utente 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31350+++
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Area unica
Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 3 Giorno: 31
Numero 2
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - marzo - 31 - numero 2


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