Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: 198 VARIETÀ E DOCUMENTI MODELLI ARABI E JOYCIANI DI UNGARETTI 1. Una vecchia canzonaccia araba. — Una sera che eravamo a cena dal « Bolognese » in Piazza del Popolo, alla fine del pasto, Ungaretti prese a canticchiare in una lingua sconosciuta, ritmandosi il tempo col bastone, e con l'aria di divertirsi molto. Gli chiesi di che si trattasse e lui rispose che era una vecchia can-zonaccia araba che udiva cantare da ragazzo, da un ubriacone (o, come preciserà poi, da una specie di « scemo del villaggio dal collo grosso e dalla voce rauca per abuso di hascish ») e ne improvvisò la traduzione di qualche verso. Súbito mi venne in mente che alcuni di essi tornavano in una delle sue piú antiche poesie e che De Robertis li assegnava a un presunto influsso palazze-schiano. Tornato a casa, controllai. Nel saggio introduttivo alle Poesie Disperse (Mondadori, Milano 1945), intitolato Sulla formazione della poesia di Giuseppe Ungaretti (cfr. ora in Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, pp. 405 e segg.), Giuseppe De Robertis, infatti, affermava: Lasciamo addietro Cresima, e diamola tutta, vorrei dire, restituiamola a Palaz-zeschi... Ma nel Paesaggio d'Alessandria d'Egitto, ecco Palazzeschi ancora: — Anatra vieni. — E chi se ne frega. — Al letto di seta colore di sfumature — E chi se ne frega. [di poesia. T'insegnerò la frescura di tramonto — E chi se ne frega. [delle astuzie. — Lo possiedo duro grande e grosso. — E chi se ne frega. Il giorno dopo rivelai la piccola scoperta a Ungaretti, meravigliandomi che non avesse contestato a suo tempo il fatto a De Robertis, ma egli si strinse nelle spalle; evidentemente non gli dava molta importanza. Lo pregai di scrivermi la canzone, cosa che fece volentieri, tornando a divertirsi a mano a mano che se la faceva tornare alla memoria. Il brano in questione è il seguente (non faccio fede dell'esattezza della trascrizione fonetica; quella che segue è stata riveduta da Flavia Romero, che ora possiede il manoscritto originale di Ungaretti): Taalili ja batta Ua-namali hé Taalili fel mahatta Ua-namali hé Taalili fel oda Ua-namali hé Taalili fel serir Ua-namali hé Ahotuhulac fe tisac Ahotuhulac fe thommac Ahotuhulac fel zambur Zobbi tkhim tawil ua gamel (ovvero jamed) La traduzione di Ungaretti dice: Oca, vieni E chi se ne frega Vieni alla stazione E chi se ne frega Vieni in camera E chi se ne frega Vieni a letto E citi se ne frega Te lo metto in c. Te lo metto in bocca Te lo metto in f. L'ho duro lungo e duraturo. * Da una comunicazione urbinate al Convegno per Giuseppe Ungaretti del 3-6 ottobre 1979. VARIETÀ E DOCUMENTI 199 Non credo che vi sia bisogno di molto commento. L'eco della canzone si inserisce nel testo ungarettiano con grande naturalezza; i versi « da restituire » a Palazzeschi, nascevano semplicemente, insieme al paesaggio evocato, da un moto affettuoso della memoria. La letteratura non c'entra, o c'entra in altro modo. E a me sembra che tutta la poesia, letta in questa luce, acquisti ben altro rilievo; le parole crude del canto arabo, anziché interrompere — come a ironizzarlo — il flusso nostalgico, si sciolgono anch'esse in nostalgia, « attimo di gioia trattenuto » come le gocciole che « brillano sulla verdura rasserenata ». appena da aggiungere che l'indicazione del De Robertis, proprio in virtú della sua autorità, ha non poco influenzato l'indagine successiva, da Rebay a Barberi Squarotti ad Aldo Rossi, il quale ultimo, in un saggio pubblicato sul-1'« Approdo Letterario » (n. 57 del 1972; ma vedilo ora in La critica e Ungaretti, Bologna, Cappelli, 1977), pur contestandola, afferma: « Invero non si vede perché si dovrebbero restituire a Palazzeschi alcuni passi di Il paesaggio d'Alessandria d'Egitto apparsi su « Lacerba » del 7 febbraio 1915 (ora fra le Poesie Disperse), come suggeriva De Robertis (...) quando un riferimento alla comune ascendenza laforghiana può dirimere economicamente molte dispute... ». 2. James Joyce. — Di natura diversa, e questa sí letteraria, appare invece la fonte di alcuni passi di Dialogo. (Nessuno, a mia notizia, sembra avervi badato; il che non sorprende, trattandosi di alcune tra le ultimissime poesie di Ungaretti, trascurate quasi completamente dalla critica, come del resto tutta l'ultima sua produzione, ivi compreso quel grande ritorno che è Il Taccuino del Vecchio.) Mi ci sono imbattuto durante una rilettura dei versi di James Joyce, e i riferimenti mi sono apparsi all'istante clamorosi. Non tanto, infatti, di « fonti » si dovrebbe qui parlare, quanto di vere e proprie elaborazioni del testo inglese (in qualche passo non è ardito parlare di traduzione o, se si vuole, di `imitazione'), o quanto meno di uso di materiale poetico preformato. E tale uso è indubbiamente straordinario, magistrale, per l'incredibile capacità del poeta di trasformare in sentimento proprio, e quindi in personalissima espressione, le sollecitazioni che gli vengono dalla lettura di quei testi. Non conosco esempi di analogo potere se non in qualche antico o nel Leopardi dell'Imitazione. Le poesie in questione sono la xxvi e la xxxiv di Chamber Music e A Memory of the Players in a Mirror at Midnight di Pomes Penyeach, e La Conchiglia, Dono e E' ora famelica di Dialogo. Mi limiterò al semplice accostamento dei testi, di per sé sufficientemente rivelatore, e a qualche sporadico commento. Esaminiamo con ordine. La poesia xxvi di Chamber Music dice: That mood of thine, O timorous, Is his, if thou but scan it well, Who a mad tale bequeaths to us At ghosting hour conjurable — And all for some strange name he read In Purchas or in Holinshed. Thou leanest to the shell of night, Dear lady, a divining ear. In that soft choiring of delight What sound hath made thy heart to fear? Seemed it for rivers rushing forth From the grey deserts of the north? 200 VARIETÀ E DOCUMENTI La traduzione che segue è quella di Alfredo Giuliani (in James Joyce, Poesie, Milano, Mondadori, 1961) che Ungaretti ha probabilmente tenuto sott'occhio, come anche indicherebbero alcuni stilemi (« accostare » per to lean; « demente » per mad; « ora degli spettri » per ghosting hour): Tu accosti un divinante orecchio, Mia signora, alla conchiglia della notte. In quel sommesso coro di delizie Quale suono spaurí il tuo cuore? Rassomigliava a fiumi scroscianti Dai grigi deserti del nord? Ciò che tu senti, pensaci bene o timorosa, Sentí pure colui che ci lasciò Eredi d'una storia demente Da evocare all'ora degli spettri. E tutto per qualche strano nome che lesse In Purchas o in Holinshed. Della Conchiglia, Ungaretti ha dato due diverse versioni (vedile ora in Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo, cit.): 1 A conchiglia del buio Se tu, carissima, accostassi Orecchio d'indovina, Per forza ti dovresti domandare: « Tra disperdersi d'echi, Da quale dove a noi quel chiasso arriva? » D'un tremito il tuo cuore ammutirebbe Se poi quel chiasso, Dagli echi generato, tu scrutassi Insieme al tuo spavento nell'udirlo. Dice la sua risposta a chi l'interroga: « Insopportabile quel chiasso arriva Dal racconto d'amore d'un demente; Ormai è unicamente percepibile Nell'ora degli spettri ». 2 Su conchiglia del buio Se tu, carissima, premessi orecchio D'indovina: « Da dove — mi [domanderesti — Si fa strada quel chiasso Che, tra voci incantevoli, D'un tremito improvviso agghiaccia [il cuore? » Se tu quella paura, Se tu la scruti bene, Mia timorosa amata, Narreresti soffrendo D'un amore demente Ormai solo evocabile Nell'ora degli spettri. Soffriresti di piú Se al pensiero ti dovesse apparire Oracolo, quel soffio di conchiglia, Che annunzia il rammemorarsi di me Già divenuto spettro In un non lontano futuro. La filiazione dal testo joyciano, come si vede, è palesissima. Ma il confronto tra la poesia di Joyce e l'elaborato ungarettiano mostra l'enorme differenza di tensione esistente tra i due testi; mentre nel primo tutta l'impalcatura è retta dai due ultimi versi (« E tutto per qualche strano nome che lesse / In Purchas o in Holinshed »), con un risultato globale di ironica levità, nella poesia di Ungaretti sono colti e potenziati i soli aspetti drammatici. Ogni immagine distraente (i rivers rushing forth, i grey deserts of the north) è drasticamente soppressa. L'occasione letteraria (i due versi citati) in cui si incentra la poesia dell'inglese, diventa amarissima occasione esistenziale: l'essere vecchio, l'approssimarsi della fine. Cupamente, la conchiglia profetizza al divinante orecchio « un non lontano futuro ». VARIETÀ E DOCUMENTI 201 Si noti, d'altro canto, come il processo di drammatizzazione sia accelerato dall'uso diverso dei tempi dei verbi (congiuntivo e condizionale in luogo di presente e passato) e il diverso « peso » del vocabolario: conchiglia del buio se tu premessi orecchio d'indovina tra disperdersi d'echi / tra voci incantevoli quel chiasso d'un tremito il tuo cuore ammutirebbe / d'un tremito improvviso agghiaccia il cuore al tuo spavento / quella paura racconto d'amore d'un demente / d'un amore demente shell of night thou leanest divining ear In that soft choiring of delight What sound hath made thy heart to fear that mood of thine a mad tale Caratteristiche analoghe presentano gli altri 'due esempi. Eccoli. xxxiv (da Chamber Sleep now, O sleep now, O you unquiet heart! A voice crying `Sleep now' Is heard in my heart. The voice of the winter Is heard at the door. Music) Ora dormi, dormi Cuore inquieto! La voce che grida « Ora dormi » La sento nel cuore. La voce dell'inverno S'ode alla porta. O sleep for the winter Is crying `Sleep no more!' My kiss will give peace now And quiet to your heart — Sleep on in peace now, O you unquiet heart! La poesia Dono, di Ungaretti: Ora dormi, cuore inquieto, Ora dormi, su, dormi. Dormi, inverno Ti ha invaso, ti minaccia, Grida: « T'ucciderò E non avrai piú sonno ». Oh, dormi, ché l'inverno Grida « Piú non dormire! » Ora il mio bacio darà Quiete e riposo al tuo cuore... Ora dormi, dormi in pace, Cuore inquieto! La mia bocca al tuo cuore, stai dicendo, Offre la pace, Su, dormi, dormi in pace, Ascolta, su, l'innamorata tua, Per vincere la morte, cuore inquieto. Nella falsariga di quel processo di drammatizzazione a cui si è sopra accennato, notiamo appena l'incalzare del « su » esortativo, ripetuto ben tre volte; il richiamo esplicito alla morte; l'uso dei verbi denotanti l'azione dell'inverno, il quale non piú « s'ode alla porta », com'è nel testo inglese, ma « invade », « minaccia », « grida », « uccide ». In E' ora famelica tre soltanto sono i versi di Joyce che entrano in gioco; ma su di essi è impiantata tutta la poesia, bellissima tra le altre, costruita con ferocia auto-cannibalesca, al limite dell'ironia. I versi di Joyce, che chiudono 202 VARIETÀ E DOCUMENTI A Memory of the Players in a Mirror at Midnight, dicono: « Dire hunger hold his hour. / Pluck forth your heart, saltblood, a fruit of tears. / Pluck and devour! » (Orrida fame ha la sua ora. / Stràppati il cuore, sangue salato, frutto di lacrime. / Stràppa e divora!). La poesia di Ungaretti: E' ora famelica, l'ora tua, matto. Lo fanno, tanti pianti, Strappati il cuore. Sempre di piú saporito, il tuo cuore. Sa il suo sangue di sale Frutto di tanti pianti, quel tuo cuore, E sa d'agro, è dolciastro, essendo sangue. Strappatelo, mangiatelo, saziati. ARIODANTE MARIANNI CONCETTO MARCHESI, AMICO DI CASA VALGIMIGLI Limitare il discorso all'aneddoto? Mi sembrerebbe di diminuire una figura come quella. Ma di Concetto Marchesi maestro di scuola, studioso, scrittore, politico, altri, ben altri, hanno parlato e scritto. Sarà dunque necessario, in occasione di una conversazione come questa qui a Messina, collegare ricordi minimi a fatti grandi, senza aver la pretesa di far storia ma di parlare semplicemente dell'affetto che ci ha legato per tanti anni e che non è mai venuto meno. Entro, ogni giorno e piú volte al giorno, nel mio studio, e all'altezza dell'occhio trovo il suo sorriso. Non c'è dedica nella fotografia, ma pare che Marchesi non abbia mai fatto dediche. Guardandolo penso alle parole di Renato Guttuso: « Era cosí malinconico e fiero. Un patriarca siciliano nelle cui vene pulsava il sangue del presente ». Belle e vere parole. Ma Marchesi era anche un allegro compagno di stramberie e di giocosità. La sua conoscenza con mio padre risale, se non sbaglio, al 1914, ma solo qualche anno dopo avvenne l'incontro, il tu fraterno, l'amicizia, quella che gli faceva dire: « ... la nostra amicizia è una cosa bella » (L. 22-8-23), « ... ma è pure per me tanto grande la gioia di sentire che ci vogliamo bene noi due, cosí, nel fondo dell'anima nostra » (L. novembre '27); quella che lo faceva soffrire con lui la perdita della Erse (L. 2-4-42); quella che non fini con la sua morte per restare nel cuore del babbo ed anche nel mio. Amicizia e consuetudine familiare. Marchesi era spesso alla nostra tavola e lodava l'arrosto della signora Emilia (mia madre). I suoi gusti erano ben noti e non mancava mai, se c'era lui, il piatto di barbe amare, che egli mangiava senza condimento, e quello del formaggio. Uno dei ricordi piú allegri che io ho di Marchesi commensale è quello legato alle pillole. Egli aveva, come tutti noi abbiamo, qualche mania ed una di queste era rappresentata da certe pillole lassative che si chiamavano di Maldifassi e che erano contenute in un tubetto di cartone immerse in una bianca polvere inerte. (Piú tardi, cessata la produzione o comunque non piú trovate, furono sostituite da quelle che gli preparava la farmacia al Duomo di Padova, che non gliele faceva mai mancare neppure a
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