Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI CARLO BERNARI Fra le poche testimonianze che riguardano l'uomo Bernari, una particolarmente significativa di Francesco Flora (scritta nel '58) ce ne ricorda le origini e la formazione culturale « in quella nostra Napoli cosí attonita e cosí disingannata, cosí ridente e cosí pensosa », che aveva fatto cerchio per resistere al fascismo intorno a Benedetto Croce. Napoletano di nascita e di sangue, benché la famiglia fosse di origine francese (il vero nome dello scrittore è Bernard), autodidatta a partire dai tredici anni, Bernari entrò in contatto con Flora assieme a un gruppo di intellettuali non conformisti nella vita e nell'arte (Guglielmo Peirce e Paolo Ricci fra questi). Una strana indipendenza per quei tempi (era il 1929!), e uno strano bagaglio culturale. A vent'anni, già due manifesti lanciati in segno di rivolta artistica (il « cir-cumvisionismo ») e di contestazione globale (1'« U.D.A. », sigla dell'Unione distruttivisti attivisti). « Anticipavamo — scriverà piú tardi Bernari — di un trentennio la discordia fra cultura umanistico-letteraria e cultura tecnico-scientifica, a tutto vantaggio della seconda che ci apriva il cuore a un'ingenua speranza marxistica ». Nel ricordo di Flora questa esperienza di Bernari e dei suoi giovani amici « arrabbiati » si colora di un'appassionata se pur vaga esigenza di « totalità », di un chiedere e cercare qualcosa che non era a portata di mano: il socialismo, le avanguardie artistiche europee, la psicanalisi. « Con questo crocian-socialismo come bagaglio culturale — continua Bernari — aveva inizio la mia vita disordinata fra Roma, Napoli e Milano, qui facendo il libraio antiquario, lí il giornalista, altrove frequentando un corso universitario, finché non mi sentii tentato, come molti giovani allora, da Parigi » j. Si lasciava alle spalle non solo la città dove era nato (il 13 ottobre 1909), non solo gli amici pittori e filosofi che avevano accompagnato le inquietudini della prima giovinezza, ma una famiglia inserita in un mondo particolare, quello degli artigiani, degli operai e della piccola borghesia partenopea. Fu durante la parentesi della vita militare (1929-31) che, profittando 1 Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973. 176 GIACINTO SPAGNOLETTI dell'ozio forzato in un ufficio del Ministero della Guerra. egli riprese in mano la prima stesura di un romanzo intitolato sino allora Tempo passato. Doveva diventare Tre operai, e uscire tre anni dopo presso un editore milanese, per iniziativa di Cesare Zavattini, in una collana di giovani narratori. Il libro, letto ancora manoscritto da Goffredo Bellonci e da Flora, si conquistò mercé il suo realismo del tutto nuovo immediate simpatie e vivissime inimicizie: queste ultime negli ambienti ufficiali del fascismo che provvidero coi sistemi draconiani di allora a farlo uscire « dal giro ». All'autore, costretto a rientrare nel guscio, non restarono che gli incoraggianti giudizi di qualche letterato come Pancrazi, il cui articolo peraltro fu bloccato dalla censura. Per alcuni anni lo scrittore si fermò a Roma, firmando articoli sotto vari pseudonimi (Bernari, Siglai, Caberna, Beda), e guadagnandosi da vivere nel campo dell'antiquariato librario, un mestiere tranquillo svolto sotto la guida di valenti bibliografi (Armani, Pescarzoli, Parenti), dai quali imparò l'amore per la ricerca sui testi, alla base della sua piú valida produzione saggistica. Ma Bernari non era affatto un uomo tranquillo. Quando si trasferí a Milano nel '39, era già divenuto un attivo giornalista, coltivando questo secondo mestiere con puntiglio professionale. Con Alberto Mondadori e Zavattini fondò la rivista illustrata « Tempo », di cui fu condirettore. Lavorava come giornalista e come narratore. Allo scoppio della seconda guerra mondiale pubblicò un altro romanzo, Quasi un secolo, un vasto affresco storico della vita napoletana dalla caduta dei Borboni al '14. La sua vena narrativa si era rafforzata, e continuò infatti a svilupparsi nell'immediato dopoguerra, con i risultati che vedremo, dopo che, tornato nuovamente a Roma per riprendere la lotta clandestina contro il fascismo, egli aggiunse un nuovo mestiere ai vari già sperimentati: quello dell'editore. Ricordiamo di sfuggita il bellissimo programma editoriale che allestí per « La nuova biblioteca », che reca un titolo significativo, « La commedia umana ». In clima di libertà fu direttore, assieme a Vasco Pratolini, di un periodico, « La settimana », e inviato di vari quotidiani. Ma dopo un lungo periodo di viaggi, fra cui memorabile quello in Cina (nel 1955-56), che doveva fruttare un reportage su quel paese (Il gigante Cina), Bernari non esitò a lasciarsi alle spalle la movimentata vita giornalistica dedicandosi quasi esclusivamente alla sua attività di scrittore. I viaggi, le conferenze, i seminari (tra cui uno nelle università americane) non furono che parentesi, come divagante e non assolutamente perentoria fu la sua partecipazione quale sceneggiatore a vari film. Come ho accennato, Tre operai, fu il romanzo di esordio di Bernari. Se il libro avesse potuto circolare dopo il '34, quasi certamente avrebbe avuto un'altra incidenza sulla narrativa italiana. Sarebbe apparso, in quel clima CARLO BERNARI 177 e in quegli anni, il corrispondente nel mondo operaio del lucido ritratto di certi strati della nostra borghesia apatica compiuto da Moravia con Gli indifferenti. Ma questa corrispondenza non fu avvertita né allora né piú tardi. Piú tardi, anzi, ai lettori d'un'altra generazione veniva proposto l'aspetto forse meno autentico dello scrittore napoletano, cioè quello di un narratore populista, che ripercorreva le orme di un Döblin e altri autori mitteleuropei. Oggi, guardando alla narrativa di punta di quegli anni, a un Dos Passos o a un Céline, si comprendono meglio le intenzioni e lo stile di Bernari. Il romanzo abbraccia pressappoco un decennio della storia italiana, 1910-1921, ma i protagonisti (Teodoro, Anna e Marco) vivono le loro sconfitte e i loro sbandamenti, come se li guidasse una coscienza avvertita di quanto è accaduto dopo. Perciò gli urti e le lacerazioni descritte sono quelle da attribuire abbastanza facilmente al periodo in cui Bernari stava componendo il romanzo, tra il '29 e il '33. La crisi di questi anni, crisi morale e politica per la classe operaia, su cui il fascismo e la depressione economica agivano violentemente, è in tutta evidenza. Ma, per Teodoro in particolare, questo disordine, e l'indecisione tipica del suo comportamento, non sono soltanto il frutto della propria impreparazione o immaturità culturale, come gli altri credono. Al di là di esse c'è la sensazione, quasi spinta verso il malessere, che tutto quanto accade a sé e agli altri sia la conseguenza di una piú vasta impreparazione e immaturità, quella di un'intera classe ancora priva di grandi esperienze di lotta. Lo stato d'animo dell'operaio prima che acquisti una sua coscienza di classe appare il riflesso di una maggiore inquietudine e insicurezza. E qui si registra per la prima volta l'atteggiamento (il quale si verificherà in seguito costante nella narrativa bernariana), che si potrebbe definire « la seconda vista » di Bernari. Da una parte la condotta lineare, obiettivamente logica degli avvenimenti privati, collocati in un presente su cui la situazione storica passa senza sottolineature, dall'altra il richiamo ad una situazione generale, dove intervengono le ragioni politiche che interessavano nel suo insieme la condizione operaia italiana. Due livelli di esperienza che combaciano mentre noi seguiamo una medesima vicenda. Sullo sfondo si disegnano le città meridionali, in particolare Napoli, vista senza alcuna concessione di simpatia, solo attraverso delle grigie periferie: un quadro fisico e morale che la nostra narrativa non conosceva prima, fatto di rughe e di miserie proletarie, di situazioni senza speranza vissute in ambienti squallidi. Questa nuova realtà rimbalza in una scrittura opaca, volutamente gremita di parole « matte » — secondo la definizione di Vittorini, che le contrapponeva a quelle « lucide » della letteratura solariana allora in voga —, di frasi elementari che volgono le spalle alla tradizione narrativa italiana piú vicina. Con questo stile insieme asciutto e raziocinante, Bernari lasciava un biglietto da visita al realismo italiano. Si parlerà infatti di lui 178 GIACINTO SPAGNOLETTI come di uno dei promotori del neorealismo, quando il fenomeno avrà la sua crescita nel dopoguerra. Da Tre operai in poi, tutti i motivi che contano nella narrativa dello scrittore napoletano recano sempre qualcosa che li accomuna, come l'ansia o il tentativo troppo spesso votato al fallimento di uscire da un vicolo cieco, da una situazione di angoscia e di paura; sentimenti e stati d'animo dominanti in Tre casi sospetti (1946) e in Prologo alle tenebre (1947), dove si può cogliere l'eco di quanto la guerra o l'attesa della catastrofe stavano facendo individuare a chiunque viveva allora con un minimo di coscienza civile. Ma c'è solo questo? L'atteggiamento dell'autore, là dove la pagina vibra con maggiore intensità, consiste soprattutto nello stendere un alone intorno alle storie private, in modo da costringere il lettore a dilatare lo sguardo dal caso singolo a una situazione generale di crisi e di sgomento. I due aspetti, quello dell'indagine nel privato e l'altro della dilatazione nel pubblico, sono stati visti talvolta dalla critica come tematiche diverse, anzi come due filoni distinti. Nel primo, che comprende, oltre Tre operai, Prologo alle tenebre (divenuto venticinque anni dopo, con un felice rifacimento, Le radiose giornate), Speranzella (1949), Vesuvio e pane (1952), Era l'anno del sole quieto (1964), Tanto la rivoluzione non scoppierà (1976), prevarrebbe la componente socio-politica, inserita nella piú larga storia italiana. Nel secondo — la cui sequenza potrebbe essere Siamo tutti bambini (racconti, 1951), Domani e poi domani (1957), Amore amaro e in genere i racconti di Per cause imprecisate (1965) — ciò che conta avrebbe molto a che vedere con il romanzo o la novella psicologica tradizionale con punte di moderno intimismo. Questa distinzione, a nostro avviso, non esiste nell'opera di Bernari, come difficilmente sarebbe dimostrabile in lui la velleità di essere neorealista tout court: altro problema ancora oggi lontano dall'essere risolto chiaramente. Se vogliamo tener presente tutto l'arco dell'esperienza letteraria di Bernari, metteremo al suo attivo innanzitutto la tenacia di far interagire i due campi di osservazione, la storia politica e sociale e quella che interessa gli individui in quanto tali. Le vicende dei tre operai Teodoro, Marco e Anna, a parte le questioni del lavoro e della politica, possono essere viste allora come storia di amori impossibili o di difficili convivenze; e altrettanto si potrebbe dire di uno dei romanzi piú politicamente impegnati del nostro tempo, Le radiose giornate, dove prescindendo dal clima di paura e di sospetto creati dal fascismo e dalla guerra, è pur messo in rilievo l'eterno triangolo amoroso, Eugenio-Bianca-Andrea, chiave di volta del romanzo, forse non sufficientemente chiara a chi segua nel libro solo le vicissitudini dell'antifascismo napoletano. Siffatti innesti andrebbero dunque osservati nel loro insieme, tanto nelle opere a carattere piú specificamente politico CARLO BERNARI 179 quanto in quelle di fondo intimista; e porremmo, come esempio di fusione perfettamente raggiunta, il breve romanzo Amore amaro. Anche nei romanzi di intonazione neorealistica, Speranzella e Vesuvio e pane, si intravedono soluzioni fantastiche e certe atmosfere narrative vicine alla favola. Sono entrambi libri di difficile collocazione, anche se partono da un puntiglio estremamente realistico, qualche volta documentario, per comprendere le vicissitudini e i segreti di Napoli nel dopoguerra. Uscito allo scoperto con il suo moralismo denso e problematico, dopo il turbine degli avvenimenti, Bernari si trovò di fronte alla sua città e volle capirne sino in fondo ogni illusione e tristezza. Perché il popolino dei vicoli e dei bassi restava cosí attaccato agli ideali monarchici, nonostante le tante prove subite? Perché gli intellettuali non si erano uniti nella lotta comune, preferendo credere ciascuno a una propria privata verità? Per dare maggiore evidenza a questa indagine, lo scrittore doveva impadronirsi innanzitutto di uno strumento linguistico capace di penetrare nel tessuto sociale, in quel mondo stratificato di costumi, di convenzioni e di sentimenti a sé stanti. Da ciò nacque la contaminazione fra lingua nazionale e dialetto, caratteristica di tali romanzi. Va osservato che l'operazione ebbe luogo con alcuni anni di anticipo su Ragazzi di vita di Pasolini e su altri risultati del genere, mentre già in taluni scrittori, come Marotta, l'adesione al neorealismo volgeva al ricalco folcloristico. Bernari, con Speranzella specialmente, balzò piú su del livello mimetico a cui erano giunti tutti gli altri negli anni caldi del neorealismo, dandoci, secondo la bella definizione di Enzo Golino, « un andante narrativo larghissimo, un disteso piglio cantabile ». Ma ora urge definire il carattere essenziale della narrativa bernariana, al di là di quello che essa debba al tempo e alle sue suggestioni. Basterebbe, a mio avviso, riflettere al « calore » presente quasi in ogni storia dello scrittore napoletano, che lo conduce a toccare con mano il destino dei suoi personaggi, creandogli un « prima » e un « poi », al di fuori di una mera parabola cronologica. Questo ci mostra il caso esemplare di Un foro nel parabrezza (1971), dove il « poi » viene addirittura teorizzato dall'io narrante, in quanto preparazione e attesa di qualcosa che viene facendosi ma non è mai un fatto. Si tratta, e Bernari ce lo ha spiegato in un saggio a parte 2, di un carattere della « narratività », quale coscienza di chi scrive o racconta, ma anche di una legge implicita nell'atto di raccontare che irretisce l'autore e vuole che egli vada avanti a « favorire » la storia, anche a costo di lasciare il suo ruolo di protagonista. Durante la lettura di Domani e poi domani, si è lontani dall'attribuire 2 Cfr. Un foro che non si vede, in Non gettate via la scala, cit. 180 GIACINTO SPAGNOLETTI al destino del notaio Nicola Monaco — spinto dalla morsa degli interessi familiari prima alla ribellione passiva poi alla rassegnazione, contro l'amore che al contrario vorrebbe un gesto decisivo — dicevo, si è lontani dall'attribuire questo caso alle normali caratteristiche di un intreccio che pretende una certa corrispondenza di ruoli nei personaggi, la loro ambientazione, ecc. Se l'innesto riesce cosi bene in questo caso, è perché esso risponde alla particolare natura dello scrittore, al suo impegno globale che non sa rinunciare al movente interno della storia, ai meccanismi che interagiscono nelle relazioni fra i personaggi. Ciò che conta nei romanzi di Bernari è il legame fra il protagonista e gli altri. Sarà la sorte dura di Orlando Rughi, in Era l'anno del sole quieto. Incapacé di vincere le difficoltà o peggio le barriere innalzategli contro dalle banche e dal potere economico egli continua testardamente a portare avanti il suo sogno di industrializzazione in un retroterra spinoso qual è quello della provincia di Napoli. Da ciò una catena di fatti e misfatti, quasi di ordine simbolico, culminanti nella resa finale, che ci appare una sconfitta paradigmatica, di carattere esistenziale e non un documento fra gli altri da inserire nella « questione meridionale » alla metà degli anni Cinquanta. Anche qui vige la legge interna del racconto e assai meno la particolare atmosfera di un'epoca. Se nelle storie di Bernari il maggior spessore è affidato a queste ragioni e contenuti simbolici da « dilatare », noi vediamo subito spostata la posizione del narratore in altra zona che quella del meridionalismo piú o meno programmatico. L'incubo, il sospetto, il disagio, la paura, che costituiscono la tematica dei suoi libri fanno a meno di qualunque etichetta; ma rientrano indubbiamente in una linea quasi mai interrotta della migliore tradizione narrativa italiana: quella che comprende Verga e De Roberto, Pirandello e Alvaro, Silone e Pratolini, fra i quali la narrativa di Bernari si situa con motivazioni e risultati tutti personali. Tipico infatti è ogni volta il sostanziale riferimento a cause storiche o ambientali, mentre forte si fa l'appello a ragioni esistenziali. E noi sappiamo che sono queste ragioni a far vivere oggi i libri migliori degli autori citati. Ma un'altra « incoerente coerenza » (per adoperare le parole dello stesso autore) lega le opere di Bernari. Parlare, ad esempio, continuamente di Napoli e considerarla « terra di anime » e non paese dell'anima; scorporarla, sentirla come « assenza » piuttosto che come « presenza », secondo è detto nella premessa all'ultimo libro Napoli silenzio e grida (1977). Perché questa diffidenza è cresciuta con gli anni, sino a diventare lontananza e distacco? Basta seguire il narratore nelle sue molte divagazioni saggistiche per averne un'idea precisa. Sintetizzando, si può dire che nulla è piú in contrasto con la sua attitudine costante quanto l'accomodamento alle idee dominanti, a CARLO BERNARI 181 quanto è stato detto (e su Napoli molto è stato detto), al colore prestabilito (e Napoli è stata dipinta in modo troppo marcato e folcloristico). A parte tale rapporto con la città natale, lo scarto dai parametri culturali del momento, siano essi ideologici o di tipo moralistico, diventa per Bernari un modo di confrontarsi con il se stesso di ieri; di annunciare quello di domani. E a noi che lo leggiamo resta il modo di riconoscerlo nel disdegno per le verità troppo conclamate (sarà anche l'antifascismo di molti intellettuali del nostro tempo), in generale verso qualunque novità che presuma di essere un approdo a certezze definitive. Non solo a Bernari non preme affatto condividere « il tema dominante » di un dato momento, ma lo vediamo abbastanza spesso cercare dialetticamente di affermare il contrario, perché il contrario ha sempre per lui qualche non effimera ragion d'essere. Dal tempo di Tre operai — è doveroso riconoscerlo — egli ci appare essenzialmente un autore del nostro dissenso, togliendo a questo termine ogni connotazione politica d'attualità. Tuttavia, al posto del pessimismo cieco a cui potrebbe giungere una posizione anticonformista, nelle sue pagine si affollano i « portatori di menzogna », magari le spie, o i personaggi ambigui, tormentati dalla paura, come è il caso di Cupris, il protagonista dell'omonimo racconto di Tre casi sospetti: un remoto personaggio del 1939, anno in cui Kafka non era ancora di moda. Questo carattere di incubo, che assumono le situazioni, ogni volta che la « verità » di un individuo si scontra con il consenso generale ad altra verità, rappresenta il pirandellismo di Bernari piú segreto e attivo. La paura del singolo non potrà essere la tentazione di arrivare piú coerentemente a capire gli altri? In questa chiave si leggerà l'intera drammatica serie di scacchi di Orlando Rughi in Era l'anno del sole quieto, cosí la guerra al potere mossa da un giocatore squalificato del tipo di Denito (in Tanto la rivoluzione non scoppierà). Per quanto riguarda questo personaggio, vanno precisate alcune cose appena sorvolate all'uscita del romanzo. La prima, ed essenziale, è che Ber-nari ha compreso in tutte le sue gamme psicopatiche (ma non troppo) la tendenza di certi magnati attuali a rovesciare il proprio ruolo con una falsa partecipazione alle idee avanzate, specie sul versante piú scottante, quello sociale; e nello stesso tempo la tendenza di alcuni clown intellettuali a giocare con la rivoluzione, sfruttando la propria velleità di scambio, identica a quella dei padroni del vapore, che fingono di credere all'irrimediabile condanna a morte della borghesia. Il « rogo » auspicato dall'intellettuale Denito nel salotto del suo padrone Leo potrebbe sembrare l'immagine piú appropriata della « punitività » (secondo il modello dostoevskiano), oppure di una legge storica che condanna chi sta dalla parte del torto; mentre invece si tratta semplicemente — secondo la tesi di Bernari — di un fuoco metaforico 182 GIACINTO SPAGNOLETTI appiccato ironicamente per far sentire meglio una disponibilità inesistente, diciamo meglio un alibi per avere dinanzi agli occhi le proprie colpe, per sfruttarle a dovere, senza una « condanna » che venga dal di fuori. Tutto torna cosí a vantaggio del Sistema, come si diceva qualche anno fa, o delle innumerevoli frequentazioni del Palazzo, come si dice oggi. Parallela a questa operazione di rischio illusorio, ecco presentarsi quella del riciclaggio — che è poi la chiave piú aperta del romanzo bernariano —, del recupero di quanto è possibile, grande o minimo, dalla spicciola miserabile avventura al grosso colpo possibile nell'attuale società. E qui il ruolo dell'intellettuale viene denunciato dall'autore pari come livello di colpevolezza a quello del grande industriale. Calza a ciò perfettamente la metafora dell'infimo robivecchi (Calabò) che può rivendere tutto, ai margini del vivere civile, senza sentire — lui no — il peso di alcuna responsabilità. E altrettanto si potrebbe dire dell'altro rapporto nella dialettica servo-padrone, al tempo della fortuna intellettuale di Denito. Il suo manoscritto e quello di Leo, il padrone, si rispondono specularmente, giacché ciascuno si adopera in modo stolido (ma in segreto) a interpretare il ruolo dell'altro. A p. 102 del romanzo il doppio « rispecchiamento » viene descritto cosí: « Mentre io scrivevo di un personaggio, nel mio Grande Recupero, immedesimandomi in lui e rappresentandolo come l'esperto fantasista, il mago del palcoscenico che trasforma fazzoletti in colombe, egli scriveva di me, immedesimandosi in quel ribelle che ero io, retribuito per ribellarsi, a un tanto la ribellione, finché la Rivoluzione-che-tanto-non-scoppierà non lo brucerà in un incendio piú grande della sua immaginazione eversiva ». Ne deriva, riuniti i due estremi, la « fusione in un mostruoso quanto spietato buffone » ammaestrato da Leda, l'amante del servo e la segretaria tutto fare del padrone, diabolica mediatrice. Per chi conosce questo romanzo, penso non possano insorgere dubbi sul tipo di intellettuale che Bernari, quasi a contrasto del suo sciagurato eroe, prende a modello come interprete di stati d'animo autentici del nostro tempo, e soprattutto quale profeta di un futuro imminente. Troviamo in un'intervista del 1970 premessa a un saggio 3 queste parole abbastanza eloquenti: « Se mi interrogo in questa direzione, devo riconoscere che ho sempre cercato di tradire quel me stesso che si disponeva a rispondere a determinate domande d'urgenza, a determinate sollecitazioni, con delle restituzioni testimoniali immediate ». Da ciò può nascere il ripudio del neorealismo quale « movimento », o corrente letteraria, come di ogni tipo di realismo che rifugga da radici di estremo rigore concettuale. e quindi dialettico, considerando che l'opera d'arte — secondo le parole di Bernari — è « un 3 E. PESCE, Bernari, Firenze, La Nuova Italia, 1970. CARLO BERNARI 183 sistema i cui elementi compositivi hanno comportamento dialettico; quindi o vivono come messaggi antagonistici, o muoiono sul nascere, trascinando nella loro rovina l'intero apparato ». Un'affermazione, come si vede, molto risentita per chiudere in una negatività finalmente sincera ogni « apparato » condiviso e divulgato ma non fecondo di futuro; « col preciso compito di snidare la critica dalle sue assuefazioni », e provocare l'urto fra chi la verità la desidera davvero quale realtà in cammino e chi può e vuole farne a meno, ma finge di non saperlo. GIACINTO SPAGNOLETTI OPERE DI CARLO BERNARI. — Tre operai, Milano 1934 (2a ed., 1951; 3a ed., 1965); Quasi un secolo, Milano 1940; Il pedaggio si paga all'altra sponda, Roma 1943; Napoli guerra e pace, Roma 1946; Tre casi sospetti, Milano 1946; Prologo alle tenebre, Milano 1947; Speranzella, Milano 1949; Siamo tutti bambini, Firenze 1951; Vesuvio e pane, Firenze 1952; Domani e poi domani, Firenze 1957 (2a ed. riveduta, Milano 1976); Il gigante Cina, Milano 1957; Amore amaro, Firenze 1958; Bibbia napoletana, Firenze 1961; Era l'anno del sole quieto, Milano 1964; Rapporto su Napoli oggi in Sette piaghe d'Italia, Milano 1964; Per cause imprecisate, Milano 1965; Le radiose giornate, Milano 1969; Alberone eroe e altri racconti non esemplari, Milano 1970; Un foro nel parabrezza, Milano 1971; Non gettate via la scala, saggi, Milano 1973; Tanto la rivoluzione non scoppierà, Milano 1976; Napoli silenzio e grida, Roma 1977; 26 cose in versi, Milano 1978. SCRITTI SU CARLO BERNARI. — R. RADICE, « L'Ambrosiano », 27 febbraio 1934; L. ANCESCHI, « Camminare », marzo 1934; S. BENCO, « Piccolo della Sera », 8 marzo 1934; F. BERNARDELLI, « La Stampa », 27 marzo 1934; G. BELLONCI, « Giornale d'Italia », 29 marzo 1934; G. PIOVENE, « Pan », aprile 1934; ARISTARCO, « L'Italia letteraria », 14 aprile 1934; E. VITTORINI, « Il Bargello », 22 luglio 1934; E. DE MICHELIS, « La Nuova Italia », settembre 1940; M. STEFANILE, « Il Mattino », 2 aprile 1940 (poi in Labirinto napoletano, Napoli 1958); A. NOMELLINI, « Incontro », 25 aprile 1940; A. SILIPO, « Primato », 1 maggio 1940; A. MELE, « Meridiano di Roma », 10 novembre 1940 (poi in Sei narratori del Novecento, Napoli 1971); L. BIGIARETTI, « Avanti! », 9 marzo 1946; U. BARBARO, « l'Unità », 26 aprile 1946; E. FALQUI, « Risorgimento liberale », 12 maggio 1946 (poi in Tra racconti e romanzi del Novecento, Messina 1950); E. EMANUELLI, « L'Europeo », 17 agosto 1947; F. VIRDIA, « La Voce Repubblicana », 1 novembre 1949; G. RAVEGNANI, « Milano sera », 10 novembre 1949; G. DE ROBERTIS, « Tempo illustrato », 12 novembre 1949; G. CATTANEO, « Nuovo Corriere », 19 novembre 1949; M. PRIsco, « Mondoperaio », 7 gennaio 1950; L. GIGLI, « La Gazzetta del Popolo », 27 ottobre 1951; G. DE ROBERTIS, « Tempo illustrato », 13 novembre 1951; C. SALINARI, « l'Unità », 4 dicembre 1951; S. GUARNIERI, Cinquant'anni di narrativa in Italia, Firenze 1955; P. PANCRAZI, « Il Ponte », luglio 1956; G. VIGORELLI, « Ro-tosei », 3 maggio 1957; E. CECCHI, « L'Illustrazione italiana », giugno 1957; E. MONTALE, « Corriere della Sera », 29 marzo 1957; C. SALINARI, « Il Contemporaneo », 15 luglio 1957; G. PAMPALONI, « L'Espresso », 29 settembre 1957. E. FALQUI, N. GALLO, A. BANTI, R. CANTONI, G. DESSf, F. FLORA, T. FIORE, V. PRATOLINI, V. VOLPINI, C. ZAVATTINI, « La Fiera Letteraria », numero unico dedicato a Bernari, 2 febbraio 1958; G. BARBERI SQUAROTTI, « Paragone », dicembre 1958; 184 GIACINTO SPAGNOLETTI W. MAURO, Carlo Bernari, in I Contemporanei, Ii, Milano 1963; F. ANTONICELLI, « La Stampa », 20 maggio 1964; C. VARESE, « L'Espresso », 7 giugno 1964; G. FERRATA, « Rinascita », 8 agosto 1965; A. CAMERINO, « Il Gazzettino », 12 ottobre 1965; F. GIAN-NES SI, « La Stampa », 3 novembre 1965; F. VIRDIA, « La Voce Repubblicana », 19 novembre 1965; S. BATTAGLIA, in Mitografia del personaggio, Milano 1968; W. PE-DULLA, in La letteratura del benessere, Napoli 1968; A. BOCELLI, « La Stampa », 25 aprile 1969; E. FALQUI, « Il Tempo », 15 aprile 1969; L. BALDACCI, « Epoca », 13 aprile 1969; G. VIGORELLI, « Tempo », 7 giugno 1969; E. PESCE, Bernari, Firenze 1970; G. AMOROSO, Sull'elaborazione di romanzi contemporanei, Milano 1970; M. RA-GO, « l'Unità », 6 novembre 1971; G. SPAGNOLETTI, prefaz. a Speranzella, 1972; « Il Giorno », 10 ottobre 1973 (poi in Scrittori di un secolo, Milano 1974); A. LA TORRE, « l'Unità », 13 novembre 1973; W. PEDULLÀ, « Avanti! », 2 dicembre 1973; I. A. CHIUSANO, « Il Globo », 14 marzo 1974; M. GISTuccl, « Revue des études italiennes », im. 3-4, 1974; G. MANACORDA, Carlo Bernari, in I Contemporanei, v, Milano 1974; G. SPAGNOLETTI, « Il Giorno », 5 luglio 1976; C. Di BIASE, « Il Mattino », 10 agosto 1977; E. GOLINO, Letteratura e classi sociali, Bari 1977; R. CAPOzzI, « Romances Notes » xvii, 3, 1977; « La Frusta » i, 1978; « Forum italicum », 2, 1979; M. LUNETTA, « Il Messaggero », 11 marzo 1978; G. AMOROSO, « Critica letteraria » VII, 22, 1979.
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